Attualità

Cosmo e la nuova musica italiana

Abbiamo chiesto al cantautore di Ivrea, all'anagrafe Marco Jacopo Bianchi, di spiegarci perché piace a così tante persone.

di Mattia Carzaniga

Esempi a caso di quel che si sente dire in giro sulla nuova leva italiana: i Thegiornalisti ormai si sono venduti. Liberato è giusto una trovata hipster. Calcutta lasciamolo a quelli del Pigneto. Resta Marco Jacopo Bianchi, così all’anagrafe, che piace a tutti, dal successo dell’album Cosmotronic (singoli più famosi: Sei la mia città e Turbo) al tour che in queste settimane sta facendo sold out ovunque.

ⓢ Come vivi tutto questo?

Come una roba strana. Lo sento nei discorsi delle persone, l’ho visto dal vivo quando ho suonato a Bologna. Questa benevolenza intorno a me è una cornice di lavoro figa, mi rende paradossalmente più facile sperimentare. Non mi faccio prendere dall’ansia, giro questa dinamica a mio favore: al momento mi sento di poter fare artisticamente quello che voglio.

ⓢ Le radio ti passano molto, tu però ti sei sempre messo contro la mania del “pezzo radiofonico” che sembra aver investito la discografia italiana.

Mi considero pop, sono un comunicatore, non mi chiudo nel mio laboratorio a sfornare pezzi inascoltabili. Però in questo momento essere “radiofonico” è la cosa che mi interessa meno. Sento che c’è un nuovo entusiasmo, quello sì. È il momento giusto.

ⓢ Approfondiamo un po’.

La musica italiana aveva evidentemente bisogno di un ricambio generazionale. Siamo un Paese poco propenso al cambiamento, ma in tempi di globalizzazione le novità arrivano, in ritardo ma arrivano. Guarda cos’è successo con il rap e la trap: c’erano anche prima, ma adesso hanno devastato tutto. Ho tanti amici e colleghi che vengono da quel mondo, suonavamo insieme in contesti più ristretti, in un paio d’anni è cambiato tutto. Non siamo gli outsider che spuntano fuori dal nulla. Nel mio caso, forse, c’è l’elettronica a fare la differenza. Credo di aver riempito un buco, uno spazio vuoto.

ⓢ I tuoi concerti, hai detto, sono pensati come dei piccoli rave.

Sul palco non sono da solo, su quattro-cinque ore di serata io ne suono due, il resto lo lascio ad altri deejay, ospiti, amici. Oggi c’è un dato di cui tenere conto: i musicisti, per sopravvivere, devono suonare dal vivo molto più di una volta. Ma non è solo questo a muovermi. Io mi immagino una festa, non il concerto in cui vai, ondeggi, stop. Mi piace pensare che ogni serata sia qualcosa di definitivo.

ⓢ Oltre a “radiofonico”, l’altro aggettivo di cui si abusa quando oggi si parla di musica in Italia è “indie”.

È usato in modo improprio, sì. Indie erano le band che, nella scena anglosassone a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, vivevano in un circuito di autoproduzione o di etichette slegate dalle major. L’indie italiano è esploso all’inizio dei duemila, era fatto di realtà variegate, dai cantautori all’elettronica al rock rumoroso cantato in inglese, in un giro di locali, etichette, booking di cui ho fatto parte pure io. Oggi l’aggettivo “indie” non ha niente a che vedere col contenuto musicale. Per dire: se metti me e uno come Motta nella stessa casella, c’è un problema. Facciamo musica completamente diversa.

ⓢ Il problema è di noi giornalisti.

Sì, è colpa vostra: scrivilo. Noi stiamo entrando a gamba tesa nel mondo musicale come musicisti, non come “indie”. Ci siamo fatti il culo fuori dai talent, da Sanremo, da qualsiasi tipo di vetrina classica, abbiamo fatto la nostra gavetta sul palco. Ma siamo degli artisti, non dei freak. Siamo, semplicemente, la nuova musica italiana. Indie non vuol dire niente, forse bisogna inventare dei termini nuovi. Sui social ho visto che gira la definizione “It Pop”. Potrebbe andare bene, ma l’hanno scritta dei ventenni su Facebook, non voi giornalisti. C’è una grande pigrizia intellettuale nel racconto della musica italiana di oggi.

ⓢ La stampa ha altre colpe. Basta un buon provino nella prima puntata di un talent per vedere scritto sui quotidiani del giorno dopo a proposito del concorrente di turno: «È nata una stella». Da quello che dicevi prima, sembri avere il dente avvelenato con questi format.

Non ho il dente avvelenato. Solo non è il percorso che avrei fatto io, mi sono sempre sentito inadeguato. Sono contenitori enormi, dipende tutto dal contenuto: un artista vero può venir fuori anche da lì. Io, quando avevo vent’anni, mi sentivo più esposto a fare un concerto in un circolo Arci, non mi sarei mai sbattuto per un provino in Tv.

Che cosa ti piace della “nuova musica italiana”, come la chiami tu?

Quello che sta facendo Motta. E Calcutta. Ma ascolto poca musica italiana. Viaggio altrove tra trap, elettronica, ambient, esperimenti con la house. Con il collettivo Ivreatronic sto producendo la prima compilation di artisti tutti di qua, roba elettronica pure piuttosto pesante.

ⓢ Dici “di qua” intendendo appunto Ivrea, dove sei nato e dove vivi ancora. Vuoi stare lontano dalle città?

Qui mia moglie ha un ristorante, ci sono i miei figli. Ma vivere a Ivrea mi piace, stando spesso in tour questo è l’approdo a cui tornare. E poi i ragazzi di provincia hanno fame di novità, c’è una noia sana che si traduce in una curiosità forse naïf ma genuina, poco poser. Ecco, qui non ci sono i poser.

Ora però piaci anche ai poser di città.

Mi rendo conto che più il tuo pubblico si allarga, più è difficile capire chi ti ascolta. Prima eri nella nicchia, arrivavi solo a quelli che ti erano affini. Ora mi scrivono commenti alle mie canzoni in cui non mi riconosco, ma fa parte del gioco. Sono contento che tanti abbiano colto la mia attitudine sincera: non ho mai voluto fare il piacione. Anzi, come ti dicevo, più attenzione ho più mi sento libero. Non farò il prossimo disco solo per accontentare quelli a cui piaccio adesso. Magari i nuovi pezzi faranno storcere il naso. Piacere a grandi e piccini è un rischio.

ⓢ Essere Rovazzi è difficile.

Più che altro, alla prima canzone che non si aspettavano da te, ti voltano le spalle. Io spero che di me si pensi: chissà cosa farà domani.

ⓢ Per anni hai insegnato Storia alle superiori. Cos’hai capito dei ragazzi che avevi in classe?

Ho imparato più io di loro. Se non fosse andata così con la musica, probabilmente avrei continuato a insegnare, mi piaceva. Lavoravo in un istituto professionale, è stato bello. Io venivo dal liceo classico, da Filosofia all’università. Loro facevano discorsi lontani dalla mia visione del mondo, discorsi che per me erano “sbagliati”. Ero un professore severissimo, un bastardo. Mi sono confrontato con le persone che avevo di fronte, mi hanno portato coi piedi per terra. Siamo abituati a stare nella nostra filter bubble, a frequentare la gente che la pensa come noi: poi ci stupiamo di chi vince le elezioni. C’è tutto un mondo fuori, la scuola per me è stata quel mondo.

ⓢ Ecco: non sei politico. O meglio, lo sei a modo tuo.

Se fossi cresciuto negli anni Sessanta-Settanta forse sarei stato più esplicito, mi sarei schierato. Le mie idee politiche le ho, ma il periodo che stiamo vivendo mi fa cadere le palle. E quando nella musica ci metti la politica diventi facilmente moralista, cedi agli slogan, finisci per salire in cattedra e insegnare da un punto di vista privilegiato cosa deve pensare la gente: la canzone di protesta è una cosa che non sopporto. Io butto qualche osservazione qua e là, lascio il discorso politico decostruito. Resta solo il nonsense: “polizia” che fa rima con “pizzeria”.

 

Foto live LLUM Collettivo – Torino