Attualità

La guerra della Coca-Cola

Le vendite in calo, la crociata salutista anti-zucchero e le nuove abitudini di consumo costringono la bibita più famosa della storia a cambiare strategia.

di Studio

Esistono, per ciò che sentiamo, complotti degli Illuminati, complotti delle multinazionali farmaceutiche, complotti del gruppo Bilderberg e complotti per far vincere partiti politici populisti alle elezioni amministrative romane: perché negare il suo quarto d’ora di fama al complotto dello zucchero? Di «sugar conspiracy» parlava il Guardian l’anno scorso, raccontando la storia di John Yudkin, professore britannico e primo accademico a denunciare la pericolosità di una sostanza che aveva definito, nel titolo di un libro uscito nel 1972, Pure, White, and Deadly. Yudkin venne attivamente osteggiato tanto dalla comunità scientifica quanto dall’industria alimentare, e morì nel 1995 lontano dai riflettori, ma molti dei gridi di battaglia che oggi animano la crociata anti-zucchero vengono dalle sue scoperte.

A fare le spese di questa nuova consapevolezza che vede nel fruttosio il primo nemico della salute – perché una delle prime cause di obesità – è stata innanzitutto “Big Soda”, ovvero i grandi brand delle multinazionali delle bevande. E qual è la prima etichetta che viene in mente, pensando a gioie e dolori della «droga più popolare del mondo» (la definizione è ancora del Guardian, molto attento all’argomento)? Da anni Coca-Cola deve difendersi dalle accuse di compromettere seriamente la salute dei suoi consumatori, e per farlo ha messo in piedi un’imponente macchina da guerra: ne è un esempio, simbolico ma eloquente, il fatto che cercando “coke sugar” su Google nella prima pagina di risultati campeggia Coca-Cola Product Facts, una sorta di debunking ai miti e alle leggende nutritive che sono entrati a far parte del suo alone di mistero.

Coca Cola To Cut 1200 Corporate Jobs As Earnings Slump Continues

Il problema vero risiede nei dati di vendita delle bevande gassate, che l’anno scorso – complice un flop fragoroso delle alternative “diet” – segnavano i risultati più bassi fatti degli ultimi trent’anni di storia nordamericana. La rivista specializzata Beverage Digest ha riportato che Coca-Cola nel 2015 aveva diminuito dell’1% il volume venduto su base annuale (Diet Coke aveva fatto ben di peggio, arrivando non lontano dal -6%), e anche se il presidente della divisione nordamericana dell’azienda Sandy Douglas ha cercato disperatamente di volgere lo sguardo alle opportunità iper-redditizie date dal vendere il prodotto in bottiglie più piccole, era difficile nascondere la cenere sotto il tappeto: poco tempo prima il New York Times titolava un suo lungo pezzo di approfondimento “The Decline of Big Soda”, specificando con enfasi che il calo del consumo di bibite frizzanti è da considerare «il più grande cambiamento subito dalla dieta americana nell’ultimo decennio».

Intendiamoci, nessuno di noi vivrà abbastanza a lungo da vedere la scomparsa delle bottiglie di Coca-Cola. Ma la situazione, per quanto non grave, è seria: dal primo maggio la supercorporation The Coca-Cola Company, a cui fanno capo tutti i brand del conglomerato (da Fanta a Sprite, da Minute Maid a Coca-Cola Zero) è nelle mani di un nuovo Ceo, James Quincey, cinquantenne, britannico. A pochi giorni dal suo insediamento, Quincey ha rilasciato un’intervista a Bloomberg che getta luce sullo stato dell’arte del settore. Quando l’intervistatrice Jennifer Kaplan gli ha chiesto di parlare dell’innominabile zucchero, il Ceo ha detto che la sua strategia si articolerà su tre capisaldi: il cambiamento delle ricette, in modo da rimpiazzare il fruttosio con dolcificanti meno pseudo-letali (sì, ma quali?) nuovi prodotti nati per essere meno fruttosio-dipendenti e, pre finire, i già menzionati contenitori di dimensioni più contenute, ché «le persone sono abituate a bere tutto ciò che si trovano davanti».

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Tra gli ultimi atti di intimidazione nei confronti delle malvagie varianti dello zucchero, Coca-Cola ha iniziato a usare la stevia (la pianta alla base della sua nuova Coca-Cola Life) nella Sprite e l’acesulfame k, un sale di potassio, nella Fanta. In Australia, stando ai dati di Quincey, Sprite ha perso il 15 per cento dei suoi zuccheri, e in Europa Fanta ha fatto a meno del 30 per cento delle sue calorie totali. «Le vendite sembrano non averne risentito», tranquillizza il Ceo. Il problema, però, sono anche le nuove abitudini di consumo: il manager spiega di essere stato in Cina e aver visto ristoranti vuoti, soppiantati dalla food delivery, e aver quindi avuto l’epifania che ha generato il nuovo corso di bottiglie piccole e formati più evoluti.

L’anno scorso Jamie Lauren Keiles, una ragazza di ventiquattro anni che per qualche insondabile ragione non aveva mai assaggiato la bibita più celebre di sempre, ha organizzato nei dettagli la sua prima  «esperienza Coca-Cola», rendendola un personal essay pubblicato su Eater e culminato in una sorsata dissetante e cinematografica. Da dove viene tutta questa infatuazione per la Coca-Cola? Perché il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti preme un tasto rosso per farsi portare una bottiglia di Coca direttamente nello Studio ovale? Perché Karl Lagerfeld una volta ha confessato di «bere Coca-Cola Light dal momento in cui mi sveglio al momento in cui mi addormento»? È davvero questione di zuccheri aggiunti? La stessa Keiles, prima di assaggiarla, scriveva: «Lettori coi sensi anestetizzati da una vita di cola, vi ricordo che la Coca, al di là delle sfumature di branding e di nostalgia, somiglia alle acque reflue di un sito di estrazione».

Immagini Getty Images