Attualità

Ci si abitua al terrorismo?

Per l'Europa il terrorismo è la nuova normalità e forse comincia a fare un po' meno paura. Il distacco rende il terrorismo meno efficace, ma significa che i terroristi si sono presi una parte di noi.

di Anna Momigliano

Ricordo tutto del giorno in cui è stata trucidata la redazione di Charlie Hebdo. Ricordo bene il giorno in cui è stato preso d’assalto l’Hypercacher, così come ricordo bene della notte terribile in cui venni a sapere dell’attentato al Bataclan. Ricordo un po’ meno bene di quando appresi del massacro di Nizza. Ricordo molto meno di quello che provai, sul momento, dopo gli attentati di Istanbul, di Berlino, di Westminster a Londra, delle metropolitane di Mosca e di Bruxelles. Mi domando, con un misto di dolore e rassegnazione, quanto ricorderò tra sei mesi o tra un anno della strage, rivendicata dall’Isis, dell’arena di Manchester, dove un terrorista suicida ha ucciso almeno 22 persone a un concerto di Ariana Grande, inclusi molti ragazzini e una bambina di appena otto anni, Saffie Roussos.

In un certo senso, al terrorismo ci si abitua. È una cosa triste e inevitabile e mostruosa, che funziona su un doppio binario. Da un lato, quando si fanno più frequenti, gli attacchi ci colpiscono meno, così i luoghi distrutti, i nomi e i volti delle vittime restano impressi per un tempo più breve nelle nostre memorie. Dall’altro lato l’orrore entra sottopelle, scatta qualcosa che comincia a consumarti dentro, minando le tue certezze, la tua fiducia nel genere umano e, in un certo senso, il valore che dai alla vita altrui. Fai il callo all’idea che gli altri, donne uomini e bambini piccoli, possano essere ammazzati da un momento all’altro; forse, in un altro luogo molto più nascosto della tua mente, tieni anche in conto che potrebbe succedere anche a te. Funziona così, del resto, con tutte le forme di assuefazione: dietro la desensibilizzazione, si nasconde un’alterazione nel profondo.

Deadly Blast Kills 22 at Manchester Arena Pop Concert

Si dirà, facile parlare dall’Italia, che per il momento sembra essere stata lasciata fuori dalla furia dello Stato islamico. Non ho idea, certo, di quello che possano provare britannici, francesi, belgi, russi e turchi. Ho vissuto, però, in Israele in un periodo in cui gli autobus saltavano in aria; all’inizio rimasi molto colpita dalla reazione degli israeliani, un misto tra fatalismo e ossessione per la sicurezza che spingeva i genitori a mettere ogni mattina i figli su due autobus diversi ma anche a non battere quasi ciglio quando la radio militare trasmetteva la notizia di un attentato: in principio tutto quel distacco mi sembrava disumano, poi capii che è una reazione inevitabile.

La verità è che «gli esseri umani si abituano a tutto», come ha detto una psichiatra specializzata in questioni di sicurezza, Anne Speckhard dell’Università Georgetown, alla Deutsche Welle che l’ha proprio detto a proposito delle reazioni del terrorismo targato Isis. Uno suo collega, Doron Pely dell’Università della California del Sud, pensa addirittura che sia una buona cosa, questo nostro fare il callo al terrorismo: gli europei, ha detto nella stessa intervista, stanno immagazzinando molte memorie di attentati terroristici, ma oramai hanno anche capito che ogni volta la vita riprende come prima, insomma si fanno spaventare meno e tutto questo gioca a sfavore dei terroristi, perché è una guerra tra la paura che loro tentano di diffondere e la nostra resilienza.

Aftermath In Manchester After Pop Concert Terrorist Attack Kills 22

Questa resilienza, però, comporta un prezzo da pagare. Quando ci abituiamo al terrorismo, allora vuol dire che qualcosa è saltato; che ci abbiamo perso, certo, in empatia, ma forse anche in sanità mentale. Negli anni Settanta l’antropologo americano Ernest Becker coniò una celebre teoria sul rifiuto della morte, che tra le altre cose gli valse il premio Pulitzer per la non-fiction per il suo saggio The Denial of Death (poi pubblicato in Italia da Edizioni paoline). La sua teoria era che, vero, gli esseri umani a differenza di altri animali sono consci della propria mortalità, ma per andare avanti dobbiamo mettere da parte questa consapevolezza; sappiamo che la nostra vita potrebbe finire da un momento all’altro, però fingiamo di non saperlo, in una sorta di diniego freudiano, ed è questa illusione cosciente che ci permette di costruire strade, allevare una famiglia, amare, andare al cinema e costruirci un’idea di noi stessi: «La vita è possibile soltanto grazie alle illusioni», scrive l’antropologo, e quando alcune di queste illusioni saltano, il più delle volte è per follia. E il paradosso, qui, è che gli psicotici hanno un rapporto più aderente alla realtà, e cioè alla morte, se paragonati alle persone normali.

Trent’anni più tardi, poco dopo l’Undici settembre, il giornalista del Washington Post Gene Weingarten, un premio Pulizter pure lui, provò ad applicare le teorie di Becker alla vita nelle zone più colpite dal terrorismo: «La tesi centrale di Becker è che, a un qualche livello, proviamo a soffocare la nostra paura primordiale della morte con una grande bugia. Ed è qui che il terrorismo entra in gioco, perché riesce a penetrare quell’illusione come altre poche cose riescono a fare». Se è quell’illusione a permetterci di essere chi siamo, e se è il terrorismo a farne saltare una parte, allora vuol dire che il terrorismo s’è preso una parte di noi.

 

Manchester all’indomani dell’attentato: immagini Getty