Attualità
Come redimere un foreign fighter
Gli estremismi si assomigliano tutti, dice Christian Picciolini, ex-neonazista americano, esperto di de-radicalizzazione, che ha lavorato anche con un jihadista.
Christian Picciolini avrebbe voluto diventare un foreign fighter ben prima che il termine divenisse sinonimo di combattente straniero affiliato alla Stato islamico. Nel 1991 questo giovane italo-americano scrisse all’Afrikaner Weerstandsbeweging, la formazione di suprematisti bianchi che si opponeva all’abolizione dell’apartheid in Sudafrica, perché lo prendessero a combattere nelle loro fila. Ai tempi, Picciolini era ancora minorenne e gli estremisti sudafricani declinarono gentilmente l’offerta di questo ragazzo nato a Chicago da genitori italiani. Così a lui non rimase che continuare a militare nei ranghi del movimento skinhead americano, scalando i vertici fino a diventarne uno dei capi. Poi la nascita di un figlio e alcuni incontri avvenuti grazie alla musica gli hanno fatto cambiare prospettiva. E, dopo otto anni di militanza, ha fondato un’associazione contro gli estremismi per combattere quello che aveva aiutato a costruire. Fino a pochi mesi fa, Picciolini aveva lavorato solo con estremisti bianchi. Ma a ottobre ha ricevuto una telefonata dalle autorità di Vilvoorde, paesino fiammingo alla periferia di Bruxelles, che gli chiedevano d’incontrare un ventitreenne belga da poco rientrato dalla Siria. L’incontro per Picciolini è stato sorprendente, per la facilità con cui è riuscito a immedesimarsi con questo returnee e per le similitudini che ha ritrovato nelle loro esperienze: entrambi figli d’immigrati perseguitati dai pregiudizi, soli e isolati a casa propria e alla disperata ricerca di un’identità e di una comunità che li accettasse, fornendo loro uno scopo per realizzarsi.
ⓢ Com’è entrato in contatto con il foreign fighter belga?
Da qualche anno tengo delle conferenze sulla mia esperienza di neonazista pentito e l’autunno scorso ero in giro per l’Europa in un tour sponsorizzato dal Dipartimento di Stato quando sono stato contattato dalle autorità belga. Era stato il returnee stesso a sapere che avrei tenuto un incontro a Bruxelles e aveva chiesto di conoscermi di persona.
ⓢ Cosa voleva?
Confrontarsi con una persona in grado di capirlo senza giudicarlo: tre anni fa ha abbandonato la facoltà d’ingegneria per combattere in Siria insieme al fratello. Aiutando lo Stato islamico era convinto di cambiare il mondo per il meglio ma, una volta arrivato, ha trovato solo un concentrato di odio e violenza. Il fratello è morto in battaglia dopo poco e lui ci ha messo un anno per scappare in Turchia e poi raggiungere il Belgio, dove si è consegnato volontariamente alla polizia, scontando due anni di carcere. Poi è tornato a vivere nel quartiere d’origine a Vilvoorde, ma ha trovato poco supporto, niente lavoro e nessuno in grado di comprendere la sua situazione. Quando mi ha raggiunto nel mio albergo a Bruxelles abbiamo parlato per ore. Ho sentito subito che avevamo molte cose in comune.
ⓢ Ad esempio?
Prima di diventare un membro dei Chicago Area Skinhead mi sentivo abbandonato, senza radici. I miei genitori non erano razzisti, semmai erano vittime di pregiudizi perché immigrati da poco negli Stati Uniti dalla Basilicata. Ma lavoravano sempre e io passavo molto tempo da solo. Quando avevo quattordici anni incontrai Clark Martell, il fondatore del movimento degli skinhead americani. Ero vulnerabile e lui lo intuì immediatamente. Mi conquistò poco a poco, coltivando un senso di appartenenza e di orgoglio e dandomi una causa nobile in cui credere: salvare la razza bianca. Se sei alla ricerca di un’identità, vuoi sentirti utile e bene accetto ma ti credi vittima d’ingiustizie, diventi una preda facile per chi promette il paradiso e t’illude che tutti i problemi si risolvano dando la colpa a qualcun altro. Oggi sono consapevole che, da skinhead, odiavo neri, gay ed ebrei per non odiare me stesso. Cercavo di alleviare il mio dolore personale incolpando altri. Questo foreign fighter aveva fatto esattamente la stessa cosa. È sempre una questione di ego, di una mentalità del noi-contro-di-loro. E questo mi fa pensare che gli stessi programmi di de-radicalizzazione utilizzati per i neonazi potrebbero funzionare anche per i fondamentalisti islamici.
ⓢ La preponderanza del fattore religioso non complica l’intervento nel caso islamico?
Anche fra suprematisti bianchi americani ci sono molte persone estremamente religiose. In entrambi i casi non si tratta di perdere la propria spiritualità, ma di smussare gli aspetti più radicali del proprio credo.
ⓢ Come funzionano i vostri programmi?
È un servizio anonimo online e al telefono, un po’ come quello di prevenzione del suicidio. Solitamente siamo contattati da tre tipi d’individui: estremisti in cerca d’aiuto per uscire dalla spirale di odio; parenti o amici preoccupati; o ex-estremisti che vogliono condividere la propria esperienza. Innanzitutto tentiamo di stabilire un rapporto e guadagnare la fiducia di chi si rivolge a noi; evitiamo atteggiamenti conflittuali, non ci interessa smontare le loro convinzioni. Ascoltiamo, cercando di comprendere le radici del disagio: la mancanza di lavoro, una malattia mentale, scarsa educazione. E li mettiamo in contatto con professionisti in grado di dare supporto e aiutarli a trovare ciò di cui hanno bisogno: dallo psicoterapeuta, al servizio per la rimozione dei tatuaggi, dal corso di formazione ai servizi sociali. Cerchiamo anche di farli incontrare con gli stessi bersagli del loro odio: un neonazista con un superstite dei campi di concentramento; un islamofobico con una famiglia musulmana. È incredibile vedere come, nella maggioranza dei casi, razzismo e pregiudizi spariscano una volta che queste persone sono dotate degli strumenti per essere soddisfatte ed entrano in contatto con chi credono di detestare.
ⓢ Concretamente che risultati ha portato questo metodo?
Dal 2009 abbiamo costruito una rete di un centinaio di persone che hanno definitivamente abbandonato i movimenti estremisti di cui facevano parte.
ⓢ Nel suo caso personale cosa le ha fatto cambiare idea?
L’arrivo di un figlio ha riempito la mia vita dandole un senso nuovo. Concretamente, però, la cosa più utile è stata conoscere da vicino le persone che pensavo di odiare. Aprii un negozio di dischi dove all’inizio vendevo solo white power music. Era un mercato di nicchia e, per sopravvivere, ben presto dovetti cominciare a vendere anche altri generi. Questo mi obbligò ad avere a che fare con una clientela più ampia: parlando di musica, ho incontrato neri, ebrei, meticci, gay e i miei pregiudizi sono crollati una conversazione alla volta.
ⓢ Il presidente Trump ha reso la lotta al terrorismo islamico una delle priorità della sua amministrazione a scapito dei fondi erogati in passato per contrastare i movimenti di suprematisti bianchi. Secondo lei è un errore?
Le amministrazioni precedenti riconoscevano la minaccia del terrorismo bianco, quella che recentemente ha portato, ad esempio, alla strage nella chiesa di Charleston (in cui sono morti nove fedeli afroamericani) o alle recenti profanazioni di tombe nel cimitero ebraico di Philadelphia. Questo governo invece sta sminuendo il problema, spostando l’attenzione interamente sugli stranieri e sulla comunità musulmana in particolare. Trascurare l’estremismo bianco è miope perché è il modo migliore per rafforzare quei movimenti. Ovviamente non credo che il presidente appoggi direttamente la causa del nazionalismo bianco. Ma penso che alcuni atteggiamenti della sua amministrazione la stiano rafforzando: se trent’anni fa avessimo avuto un governo così, avremmo festeggiato. Trump ha dichiarato pubblicamente di non sostenere l’ex capo del Kkk David Duke. Ma non dare il proprio appoggio è diverso da condannare. Abbiamo bisogno di un leader che denunci certi atteggiamenti razzisti. La più grande risorsa di questo Paese sono sempre stati i suoi immigrati. I divieti d’ingresso che l’amministrazione ha cercato di introdurre a più riprese nei confronti di certi Paesi minano alla base i valori su cui poggia la democrazia americana.
ⓢ Com’è cambiato il modo di comunicare dei nazionalisti bianchi americani da quando ha abbandonato il movimento?
Quando ero direttore di Hammerskin Nation eravamo più schietti e naïve, oggi la strategia è più sottile: si evita di sventolare svastiche, rasare i crani e portare gli stivali. I vertici hanno intuito la necessità di studiare, vestire in giacca e cravatta e diventare più presentabili, meno minacciosi. È cambiata la forma ma non la sostanza. Una volta accusavamo i media di mentire ed essere controllati dalla lobby ebraica, oggi la alt-right li accusa di mentire ed essere controllati dalle lobby liberal. Si utilizzano termini più sfumati. In alcuni spot elettorali contro Hillary Clinton, gli strateghi di Trump hanno usato la stella di David o volti di ebrei prominenti come George Soros. Sono modi impliciti per corteggiare il voto dei nazionalisti bianchi. A chi, come me, ha dimestichezza con quel genere di propaganda, il messaggio appare chiaro. Anche la presenza nel governo di figure come Stephen Bannon e Stephen Miller (consigliere politico di Trump, ndr) rafforza la causa nazionalista.