Attualità

Chodorkovskij, l’oligarca rosso

di Andrea Tarabbia

Le origini

 

Nella prima metà degli anni Novanta, in piena era El’cin, l’ex sabotatore Tolja Ermolin ricevette a casa una telefonata in cui lo si invitava a presentarsi di persona, il giorno successivo, presso gli uffici della Menatep, una delle prime banche private sorte a cavallo del tracollo dell’Unione Sovietica. Ermolin non aveva il conto presso nessuna delle filiali della Menatep, né tantomeno conosceva qualcuno che vi lavorava. Arrivato all’appuntamento, fu accolto da Michail Chodorkovskij, l’oligarca fondatore della banca. Chodorkovskij e Ermolin sono quasi coetanei, e, all’epoca, avevano circa trent’anni: il primo dei due, nato nel 1963, sarebbe diventato di lì a poco l’uomo più ricco di Russia e, secondo un numero di «Forbes» del 2004, il sedicesimo uomo più ricco del mondo. Nato a Mosca in una famiglia di origini ebraiche, Chodorkovskij era divenuto, negli anni 80, mentre frequentava i corsi di chimica all’Istituto Mendeleev, uno dei capi del Komsomol locale: di lui si diceva che sarebbe diventato uno degli apparatčik più in vista del Partito. Ma della perestrojka, Chodorkovskij aveva capito una cosa che pochi, in Russia, capirono, ossia che le riforme avviate da Gorbačëv si sarebbero presto rivelate un colpo mortale alla vita dell’Urss, e che chi poteva doveva sfruttarne le falle per inserirsi nel libero mercato.

Tra il 1986 e il 1987, aprì a Mosca un caffè e, soprattutto, un Centro giovanile privato per la ricerca scientifica. Nel 1988, il Centro commerciava in materiali tecnologici per la ricerca e aveva un giro di affari di circa 80 milioni di rubli (10 milioni di dollari). Fondò la Menatep nel 1989, a soli 26 anni, quando in pochi pensavano si potesse aprire una banca privata nella terra del Socialismo Reale: «Molti anni dopo» dice Chodorkovskij «chiesi ad alcune persone perché, all’epoca, non avessero fatto quello che avevo fatto io pur avendone le possibilità economiche. Mi risposero che il sistema non aveva insegnato loro a far carriera all’infuori di esso, e temevano che sarebbero finite in galera. Io ero semplicemente troppo giovane per saperlo o per esserne consapevole». Nel 1990 Chodorkovskij cominciò a vendere delle azioni della Menatep, ricavandone altri milioni di rubli. È in questo periodo che ha i primi veri contatti con il Cremlino: diventa consigliere del Primo ministro Silaev e intrattiene rapporti con il ministro dell’energia Lopuchin. La Menatep, tra le altre cose, raccoglie in partnership con lo Stato dei fondi da destinare alle vittime del disastro di Černobyl.

L’età dell’oro degli oligarchi

 

L’avvento di El’cin e la corsa alle privatizzazioni trovarono Chodorkovskij preparato: insieme ad alcuni partner, la Menatep fu in grado di rilevare il 78% delle azioni della compagnia petrolifera Jukos – un affare da oltre 300 milioni di dollari – messe all’asta nel 1995. Naturalmente, le amicizie moscovite e i fondi che Chodorkovskij aveva stanziato per la campagna elettorale di El’cin giocarono un ruolo non certo marginale nella scalata. È qui che comincia la vera storia di Chodorkovskij: in quel buco nero della finanza e della politica che sono gli anni di El’cin, caratterizzati da una corsa sregolata ai colossi dell’energia sovietica in smantellamento, da vuoti legislativi, da misteriose sparizioni e da guerre combattute a colpi di favori, amicizie e kalašnikov. Gli anni 90 sono per Chodorkovskij il momento in cui l’oligarca vive a stretto contatto con il Cremlino, fa affari in patria e nel resto del mondo, e si scopre interessato alla politica e alla filantropia: nel 1999 – tramontato El’cin – finanzia la campagna elettorale di Jabloko (la Mela, partito liberale filo-occidentale) e del Partito Comunista di Žuganov – entrambi in corsa contro Russia Unita, il partito di Putin. Allo stesso tempo, fonda delle associazioni filantropiche per gli orfani, per l’alfabetizzazione internet dei giovani russi, dà vita a molti forum per la discussione di un programma di riforme e democratizzazione della nuova Russia; nel 2001 apre «Otkrytaja Rossija» (Russia aperta), un’organizzazione filantropica che, tra le altre cose, attua un progetto di «Nuova civilizzazione» per “l’autogoverno” dei giovani: si tratta di summer camp in tutta la Russia, dove i minorenni imparano – sulla falsariga dei campi scout – a responsabilizzarsi e a darsi delle regole. È per questo che Ermolin riceve la convocazione: Chodorkovskij vuole sfruttare la sua esperienza e il suo senso di disciplina, e lo rende responsabile del progetto. Ogni russo che ne ha la possibilità vuole cambiare il mondo a propria immagine e somiglianza. In 12 che hanno detto no (edizioni e/o), Valerij Panjuškin racconta il primo incontro tra l’oligarca e il sabotatore:

«Vede» spiegò l’oligarca, «non potrò mai pagare un cassiere quanto potrebbe ottenere dai banditi per aprire le porte della banca e fingere un’aggressione…». «Quindi?» (…) «Quindi voglio che i miei collaboratori sentano che questa banca appartiene a loro. Voglio educarli».

Nei summer camp, si insegnano la disciplina e la “vita economica”: ogni bambino che riordina la propria stanza o lavora in giardino riceve dei soldi finti, che a fine campo vengono convertiti in rubli. Ogni bambino che rompe qualcosa la paga coi soldi finti, e ogni campo-scuola ha il suo piccolo parlamento che vota le sue leggi.

La restaurazione di Putin

Nel 2003 Chodorkovskij e il socio Lebedev vengono arrestati per dei presunti illeciti durante l’acquisizione di una società, la Apatit, da parte di Jukos nel 1994. L’accusa è frode ed evasione fiscale. La prima conseguenza dell’arresto dell’oligarca è la chiusura temporanea della borsa di Mosca. Chodorkovskij viene condannato in prima istanza a 8 anni di carcere: è lo stesso Putin, dalla tv di Stato, a gettare fango su di lui, sostenendo che il caso sia più complesso della semplice frode, e che bisogna veder chiaro in alcuni casi di omicidio legati all’espansione delle società di Chodorkovskij negli anni 90. La tv russa, nel 2004, accusa la Jukos di aver armato la cellula che ha occupato la scuola di Beslan. Nello stesso anno, il Concilio d’Europa, da Strasburgo, pubblica un report in cui si dice che le circostanze dell’arresto e della detenzione dei vertici Jukos suggeriscono che Mosca abbia nell’affare ben altri interessi oltre la giustizia, e che l’obiettivo nascosto del Cremlino sia eliminare un oppositore politico e metter fine al dominio economico di “certi” oligarchi. Elie Wiesel, Mario Vargas Llosa e Amnesty International si mobilitano chiedendo giustizia per Chodorkovskij.

La sentenza che lo ha condannato prevederebbe la sua scarcerazione proprio in questi giorni. Tuttavia, alla fine del 2010, i giudici lo hanno riconosciuto – senza delle vere e proprie prove a suo carico – colpevole anche di appropriazione indebita e riciclaggio, e la detenzione è stata protratta fino al 2017. Lo scandalo che la seconda sentenza ha destato nel mondo occidentale, con Obama e la Merkel sugli scudi, ha costretto la Corte Suprema russa a rivedere la sentenza: l’oligarca potrà uscire dal carcere nell’ottobre 2012, pochi mesi dopo le elezioni.

Chodorkovskij, nel frattempo, dal carcere di Čita dove è rinchiuso comincia a scrivere per i giornali russi, europei e per il New York Times: più che parlare di sé, nei suoi interventi parla del rinnovamento che deve interessare la Russia, in termini sia politici che morali. Si scaglia contro la burocrazia, contro il Cremlino e contro il “sistema”, che isola chiunque tenti di opporsi o anche solo di fare qualcosa all’infuori di esso. La sua diventa una battaglia per la libertà politica e per la giustizia: in articoli come La svolta a sinistra, pubblicato sul Vedomosti nel novembre 2005, Chodorkovskij auspica un futuro socialdemocratico per la Russia: solo un socialismo liberale potrà trarre la Russia fuori dal fango. Qualcuno comincia a vedere in lui non più l’oligarca, ma un martire della giustizia putiniana e un simbolo della lotta per la libertà: un Cristo rosso che dalla sua prigione siberiana predica il rinnovamento sociale.