Cultura | Letteratura

Che libri leggerete in vacanza?

Una lista della redazione di programmi di letture e aspirazioni che forse non si realizzeranno.

Ho già bruciato In questi ultimi giorni di luglio il libro perfetto delle vacanze e cioè Il regno di vetro di Lawrence Osborne, delizioso passatempo highsmithiano, il cui maggior pregio, se posso permettermi, non è tanto nello stile o nella trama, che sembra un po’ copincollata da un altro romanzo dell’autore, ma nell’atmosfera, fatta di monsoni e grattacieli decaduti. È questo che in fondo chiedo a un “libro per la vacanze”, libero dalle letture obbligatorie e lavorative dell’inverno, soprattutto atmosfere, quindi luoghi, viaggi, personaggi ambigui e spaesati. Andando in Grecia e con il portfolio Leigh Fermor esaurito, sto riflettendo se buttarmi su Addio Anatolia di Didò Sotiriù (Crocetti), classico della letteratura greca moderna, che racconta la tragica cacciata dalla Turchia del 1922, oppure se recuperare Il sarto di Panama di John Le Carrè (Feltrinelli), che ho trovato qualche settimana fa su una bancarella e che ho sempre voluto leggere, ma – come si dice – ho visto solo il film. Lo spionaggio è perfetto, più invecchi più ti piace, ma potrei decidere di dargli una patina più seria e contemporanea, decidendomi finalmente a leggere Zona di Mathias Enard (e/o), che so ovviamente essere molto di più di un romanzo di trama, ma che immagino perfetto per spostarsi su e giù per il Mediterraneo. Nella seconda parte del mese, sarò in Croazia, dove l’idea è leggere Il lago di Kapka Kassabova (ancora Crocetti), memoir e saga famigliare, ambientato in una regione lacustre dove confinano Grecia, Albania e Macedonia del Nord, di cui ho letto recensioni molto convincenti. In un angolino della mente c’è anche però l’idea di azzerare tutto e dedicarmi solo ed esclusivamente a Dune di Frank Herbert, di cui mi hanno regalato la prima edizione italiana e che progetto da tempo di leggere senza avere mai ovviamente l’orizzonte molto libero per affrontare le sue 500 fittissime pagine. Mancano pochi giorni, potrei farmi condizionare da fattori esterni e azzerare la lista per pensarne una nuova. Vorrei trovare l’equilibrio perfetto tra le ristrettezze del bagaglio a mano e il realismo di non riuscire a leggere tutto il prefigurato, ma è una parola. (Cristiano de Majo)

Ho iniziato a leggere Una vita come tante circa quattro volte, nello spazio di tempo di almeno tre anni, portandomelo dietro dietro addirittura in una vacanza in giro per i Balcani, e non sono mai riuscita ad andare oltre le prime cinquanta pagine. Ci ho provato, con insistenza, e in quei quattro tentativi ho continuato a leggere sempre quelle prime cinquanta pagine, quelle in cui i quattro amici sono alla ricerca del nuovo appartamento di Jude e Willem, e il lettore non ha ancora ben chiaro di chi si stia parlando, chi sia chi, chi faccia cosa, o anche solo le facce dei personaggi, così come vuole la scrittura narcotica di Yanagihara. Alla fine, dopo estenuanti discussioni con amici e colleghi – «Non è il momento giusto, evidentemente, oppure oh, magari non ti piace e basta» – l’ho sempre accantonato snervata dalla delusione, fino allo scorso inverno. Sarà perché era uscito Verso il paradiso, e si era tornati a parlare di Yanagihara, sarà perché quel momento giusto era finalmente arrivato, complice TikTok che mi sottoponeva giornalmente analisi e discussioni alle quali avrei voluto partecipare, fatto sta che per la prima volta da quando avevo acquistato Una vita come tante ho iniziato a leggerlo, ho superato le cinquanta pagine quella stessa prima sera e l’ho finito in due settimane, leggendo e sì, spesso piangendo, fino a tarda notte. Mi ha fatto molto riflettere, ne ho parlato molto con persone che lo avevano letto da anni e che hanno avuto la bontà di sopportarmi, ho trovato conforto nei ragazzini di TikTok che avevano i miei stessi dubbi, ma soprattutto ho comprato con una certa sicumera Verso il paradiso pensando – ecco, questo lo finirò subito. E invece, era prevedibile, mi sono bloccata alle prime cinquanta pagine. Da febbraio. Quest’estate ovviamente me lo porto dietro, insieme ad altre letture che voglio recuperare, tra cui Heaven di Mieko Kawakami (il suo Seni e uova, invece, l’ho divorato, ed è probabilmente uno dei miei libri preferiti in assoluto). Sono ancora alle prime cinquanta pagine, ma agosto è pur sempre il mese più lungo di tutti. (Silvia Schirinzi)

Le dipendenze non riguardano soltanto l’alcol, le sostanze, e gli amori, ma capita che si sviluppino anche con i luoghi. Di vacanza. Sono un abitudinario e mi piace tornare, estate dopo estate, in un luogo da chiamare casa. Quest’anno, per la prima volta dopo anni, non andrò al Circeo (nonostante il virtuoso “Modello Terracina” in questi giorni sponsorizzato dalla futura premier per il rilancio sovranista del Paese), e alcuni dei libri che mi porterò dietro, su spiagge eoliane forse ugualmente borghesi ma molto, molto diverse da quelle pontine, hanno l’eco dei pini marittimi di vedetta sull’Appia. Casualmente, mi sono accorto poi, furono entrambi Premi Strega, in anni in cui il Premio Strega era molto diverso da quello odierno – con meno tournée, social e cinquine allargate. C’è naturalmente La scuola cattolica (Rizzoli), finalmente affrontato, forse spronato in modo decisivo dall’irrecuperabile bruttezza del film. Comprato due volte in due versioni: la prima in libreria, della collana tascabile Aleph, con pagine più sottili di quelle dei Meridiani Mondadori, 1200 pagine condensate in 5 centimetri di spessore, praticamente illeggibile. Rizzoli, se leggi queste righe: ripensaci. Quindi riacquistato in edizione originale su MareMagnum, hardcover scomodo ma leggibilissimo, e pazienza per la comodità, che si mostra d’altronde sempre più per quello che è: la strada per la rovina del mondo. Successivamente, incuriosito da un account Instagram che spesso ne fotografava passaggi sottolineati (vedete, editori: funziona!), ho ordinato tre libri di Giorgio Montefoschi, a cominciare da La casa del padre (Bompiani, Premio Strega 1994), ambientato tra Roma, Anzio e Sabaudia, per continuare con i due precedenti, Il volto nascosto (ancora Bompiani, che ha scelto copertine finalmente bellissime: quadri di Felice Casorati e Cagnaccio di San Pietro) e La terza donna (La Nave di Teseo). Eppure l’estate è anche un mese perfetto, penso, per immergersi negli anfratti più buî del Novecento, e quindi, recuperato dalla libreria, mi porterò dietro anche Forse Esther (Adelphi) della scrittrice tedesca-ucraina Katja Petrowskaja: una storia familiare (reale) che inizia dal massacro di Babij Jar – il fossato  di Kiev in cui i nazisti trucidarono quasi 40mila ebrei in due giorni, nel 1939, poi bombardato da Putin per non lasciare dubbi – e che si snoda poi tra Odessa, Varsavia, ghetti, campi di sterminio e sterminate pianure sovietiche alla ricerca di radici spezzate e sparpagliate dalle ripetute invasioni che hanno toccato l’Ucraina. (Davide Coppo)

I miei più felici ricordi legati all’estate non contemplano mare, amici, flirt o esplorazioni, ma infinite giornate passate da sola a leggere. Ho una mia tradizione: mi fisso su un autore e leggo tutto quello che ha scritto, o quasi. Ho iniziato per caso, rubando i libri a mia madre, e un’estate mi ritrovai a leggere tutto di Isabel Allende. L’ultima volta che sono riuscita a farlo è stato credo 7 anni fa, quando ho letto tutto di Virginia Woolf – ma veramente tutto, anche Flush che è la biografia di un cane (molto bello, lo consiglio) – poi non ci sono mai più riuscita, anche perché quando ho iniziato a lavorare seriamente la mia “estate” si è rimpicciolita e i tre mesi sono diventati le due settimane centrali di agosto. Due settimane di vacanze forsennate in cui mi sono ritrovata a leggere un solo libro senza manco riuscire a finirlo. Due anni fa Il taccuino d’oro di Doris Lessing, l’anno scorso Dio di illusioni di Donna Tartt. Entrambi stupendi, ma non ho idea di come finiscano e temo che morirò senza saperlo. Quest’anno mi impongo di leggere un mattone che mi è stato regalato mesi fa e non ho mai nemmeno aperto: i diari di Patricia Highsmith. Ah, se potessi tornare alla splendida inedia della mia giovinezza da introversa, quest’estate, oltre ai diari, mi sparerei tutte le sue opere “minori”: Piccoli racconti di misoginia, Il riscatto di un cane, La spiaggia del dubbio, ecc. Partirei da Acque profonde del 1957, il libro che ha ispirato quello schifo di film con Ben Affleck e Ana de Armas apparso su Amazon Prime qualche mese fa. E concluderei con l’ultimo che ha scritto, Idilli d’estate (titolo perfetto), uscito nel 1995, che la sinossi definisce come il «ritratto di un’umanità alla sbando, apatica e priva di volontà nei confronti della vita» (amo noi). Non ce la farò mai: molto più realisticamente mi costringerò a leggere qualche pagina a caso del diario (in tutto sono 1000), e soddisferò la mia fame di thriller ascoltando gli scioccanti casi di cronaca raccontati da Elisa True Crime mentre faccio le pulizie. (Clara Mazzoleni)

Quando si tratta di scegliere i libri giusti per le vacanze non ho un criterio vero e proprio che mi aiuti nella decisione. Di solito vado a peso: devono essere libri grossi, spessi, con molte pagine. È allo stesso tempo un modo di illudermi e di giustificarmi. Ogni volta mi illudo che in vacanza avrò finalmente il tempo per leggere che mi manca nel resto dell’anno: ovviamente è una bugia, il tempo non mi manca in nessuna stagione. Consapevole di questa illusione, faccio in modo di avere già la scusa pronta: ho scelto libri troppo grossi, è normale non sia riuscito a leggere tutto. Quest’anno per la scelta del “libro grosso” ho indugiato su tre antologie: I Premi Hugo 1976-1983, I gangster di W.R. Burnett (Longanesi) e Cyberpunk. Antologia assoluta (Mondadori). Alla fine ho scelto l’ultima, perché la notizia che Google alla fine ha deciso di licenziare Blake Lemoine – l’ingegnere che ha raccontato che l’intelligenza artificiale alla quale stava lavorando per Big G è diventata senziente – mi ha fatto venire voglia di tornare nello Sprawl. Alla fine credo che rileggerò solo Neuromante di William Gibson, ma in questo momento coltivo l’illusione di completare la santissima trinità del cyberpunk rileggendo anche Snow Crash di Neal Stephenson e La matrice spezzata di Bruce Sterling. Siccome passerò l’estate a Milano, ho pensato sarebbe stato saggio leggere anche qualcosa sulle conseguenze dell’esposizione prolungata ad alte temperature sulla mente umana: Il vecchio della montagna (Adelphi), la storia di Hasan i-Sabbah, fondatore dell’Ordine degli assassini, mi è sembrato il titolo giusto. Per bilanciare la sabbia e il sole del medioevo persiano, nella lista di letture estive ho aggiunto anche un libro di avventure tra il buio e i ghiacci del Nord: Atlante leggendario delle strade d’Islanda (Iperborea), che è anche un omaggio a uno dei miei tiktoker preferiti (@greipjokes). Infine, essendomi trasferito a Milano da tre mesi, ho deciso che ferragosto è il momento migliore per conoscere la città oltre il tratto di strada che collega casa mia con la redazione di Rivista Studio. Ovviamente di uscire prima del tramonto non se ne parla, e quindi ho deciso di farmi raccontare Milano da Dino Buzzati: Antonio Dorigo, il protagonista di Un amore, passa gran parte del tempo a vagare per la città alla ricerca della Laide, e seguirlo nelle sue passeggiate ossessive mi è sembrata una buona idea. Certo, quella di Un amore è la Milano degli anni Sessanta e Antonio Dorigo è una specie di Humbert Humbert italiano, ma da qualche parte dovrò pur cominciare. (Francesco Gerardi)