Cultura | Letteratura

Mario Desiati, vincere uno Strega cercando la propria identità

Intervista all'autore di Spatriati, romanzo vincitore del Premio Strega 2022.

di Arnaldo Greco

Nonostante non esista praticamente più nessuno al mondo che non consulti almeno un paio di app di meteo al giorno, la serata conclusiva dello Strega è andata in onda sotto un nubifragio, senza che un set al coperto fosse stato allestito e senza che perfino i gessetti sulla lavagna funzionassero per bene e c’è voluta tutta l’abilità di Geppi Cucciari per far apparire la pioggia un simpatico diversivo, fin da subito intervistando lo Strega uscente, Emanuele Trevi, sotto un ombrello. E poi bravissima anche a contenere l’entusiasmo del pubblico che con troppa disinvoltura occupava i tavoli appena spiovuto, come in quelle presentazioni dove in fondo alla sala ci si distrare mentre sul palco si parla.

Il Premio è andato, come da pronostico, a Spatriati di Mario Desiati (edito da Einaudi). Nel romanzo Desiati spiega come “spatriato” significhi allo stesso tempo irregolare e fuori dalla patria, dove con “patria” si intende il modo di vivere della maggioranza. Ma “spatriato” è anche un modo per insultare qualcuno, perché irrispettoso delle regole convenute. Il romanzo racconta la storia di Francesco e Claudia. I due si conoscono al liceo di Martina Franca, quando hanno circa quindici anni. Sono due ragazzi dai temperamenti molto diversi: Claudia è da subito definita da tutti “spatriata”, mentre Francesco, solo conoscendola, impara a capire che, forse, è spatriato anche lui.

C’è stato un momento in cui l’aspetto agonistico del Premio Strega ha preso il sopravvento sull’aspetto letterario? O un momento in cui eri stufo di parlare del libro?
Questa edizione no, e dico per fortuna. Anzi, alcuni ci hanno “rimproverato” il troppo fair play. Però davvero trovo poco elegante che si parli di vinti e vincitori in letteratura, è solo un gioco. Un gioco serio per autori ed editori che partecipano, ma un gioco. Anche se siamo stati messi a dura prova. Decine di incontri in un mese e mezzo, e una convivenza obbligatoria in pullman, alberghi e convivi di varia natura. Negli ultimi incontri provavamo a cambiare i nostri discorsi sul libro, a punzecchiarci amichevolmente, a rinfacciarci quando qualcuno ha sforato.

Tu avevi partecipato alla gara già nel 2011: quanto è cambiato il concorso da allora? E in che modo quell’esperienza ti è stata d’aiuto stavolta?
Arrivai penultimo con Ternitti, ma tutte le esperienze aiutano se vengono elaborate. Fui felice per il romanzo, perché molti lettori scoprirono la storia degli emigrati italiani che si sono ammalati dopo essere partiti per trovare un lavoro e una vita migliore. Facemmo pochi incontri, nulla di paragonabile a ora, ma ho un bel ricordo perché ho trovato un amico come Edoardo Nesi, vincitore di quell’edizione. E poi c’era casa Bellonci in via Fratelli Ruspoli. Le serate delle cinquine in quell’appartamento sono fonte di aneddoti di metà editoria italiana.   

E quanto sei cambiato tu?
All’epoca non avrei mai pensato di poter scrivere romanzi come Candore o Spatriati. Sono cambiato un sacco, lavoravo nell’editoria, ero dentro la società letteraria, ma soffrivo il doppio ruolo di editore e autore. Bisogna avere un rigore e una lucidità per tenere distinte le cose ed è una cosa che non ho. Ho una mentalità e una formazione editoriale novecentesca, dunque completamente obsoleta nel 2022. Ho mollato tutto alla fine del 2013 e ho iniziato a spatriare nel senso che intendo nel romanzo. Prima con il lavoro, poi con le mie idee e la mia identità, infine anche con le gambe quando sono andato a vivere a Berlino.

E quando pensi al te stesso del passato come lo guardi?
Oggi non posso scrivere un romanzo senza il suo tempo giusto, che è fatto anche di lunghi passaggi a vuoto, di mesi che non si scrive niente, ma si medita e si accumulano vite e personaggi. Quando ero giovane corteggiavo i demoni, ossia quelle ossessioni o energie indefinibili che ci spingono anche a scelte impulsive. Ma amare i demoni non conduce solo alla passione, porta anche alla distruzione. Oggi ci sto più attento.

Dice un verso molto noto di Giovanni Pascoli, il verso che quasi tutti i professori usano per spiegare l’anacoluto: «Io, la mia patria, or è dove si vive…» tu quanto ti senti “spatriato”?
Sono spatriato in tutto e credo di aver vissuto male fino a quando non ho imparato ad accettarlo. Spatriato è una parola con tanti significati, ma sento che mi appartiene proprio perché, nel suo essere sia italiana che dialettale, è indefinibile: ha tante sfumature.

Hai vissuto a lungo e sei spesso in Germania, così come accade ai protagonisti del libro. In tedesco si usa “heimat” che non ha una traduzione precisa in italiano… qual è la tua?
Come la protagonista della foto in copertina su Spatriati, col mare accanto, ma non di fronte.

L’impressione generale è che il romanzo, come strumento d’indagine della contemporaneità, ceda sempre più il passo al memoir o al reportage… tu cosa credi accadrà?
Ogni scrittore cerca la voce per la storia che vuole raccontare. Dipende dal momento e dalla vena, dallo stile e dall’ispirazione. Se è una storia che ha una base di verità le opzioni sono quelle che dici, ma si può anche trasfigurare e reinventare tutto. Credo che tutto dipenda dal momento che vive l’autore quando lavora su quell’idea. Credo ancora nel romanzo e anche il mio prossimo libro sarà una storia di invenzione.

La mia impressione è che molti scrittori affianchino al proprio mestiere di scrittori anche una serie di ruoli (giornalista, podcaster, influencer o altri ancora) che magari sono redditizi, ma che di fatto limitano anche l’aspetto puramente letterario del loro lavoro…
Credo che ognuno sia diverso dall’altro, e che sia una questione di rigore e lucidità. Se si riesce a tenere separate le cose e a usare quella giusta distanza, si può riuscire a essere autorevoli su tutti i fronti. Io non ci riesco e ammiro chi ce la fa. Calasso disse che un libro è compiuto quando si avverte che è successo qualcosa a quello scrittore mentre lo scriveva. Forse non è importante che succeda, ma che lo si faccia credere.

Persiste pure l’idea che uno scrittore in quanto interprete della realtà debba esprimersi necessariamente sull’attualità e, magari, perfino predire cosa accadrà in futuro. Tu hai diradato molto la tua presenza su quotidiani o riviste…
Diceva in un suo romanzo Rodrigo Fresas che uno scrittore scrive perché non sa nulla, quindi è inutile chiedere pareri sulla guerra e la fame del mondo. È ovviamente un paradosso, ma coglie un punto interessante per me. Un poeta o un romanziere che lavora con l’invenzione e deve essere comunque ispirato, fuori dal suo campo rischia di essere sciatto, retorico e, soprattutto, di non aggiungere sguardi.

Hai fatto parte di quello che, qualche anno fa, è stato chiamato “Movimento TQ”. Ti pare che il rinnovamento che auspicavate si sia in parte avverato o sia stato assorbito dal meccanismo?
Lo presi alla leggera. La vidi come un’occasione di scambio di idee e di nuove amicizie, perché sono cresciuto nel mondo delle riviste letterarie dove gli sguardi si formano con la dialettica. Ma non stavo bene, ero già entrato in una fase di stanchezza e rifiuto, ricordo che nella riunione iniziale nella sede di Laterza me ne andai durante la pausa dei lavori. Non fu elegante da parte mia, visto che avevo firmato il primo documento. Purtroppo, quando sono insofferente divento impulsivo.

In Spatriati si avverte la forza della natura e dell’ambiente della Puglia. È doloroso vedere quanto il cambiamento climatico sta incidendo sul Sud dell’Italia? In parte rovinando perfino la stessa idea di estate che da stagione più attesa dell’anno si sta trasformando nella stagione della preoccupazione…
Scrisse la grande Maria Marcone in Pugliesi nel bene e nel male, oggi introvabile, ahimè come tante sue opere, che i pugliesi sono «individui dal Dna speciale a causa dei geni provenienti da ogni punto cardinale. Sono paragonabili al millenario ulivo, l’uno diverso dall’altro, tutti, però, con umile ma titanica dimostrazione di vitalità, miracolo di fantasia e spesso di bizzarria che li accomuna». Proprio come quegli ulivi che oggi si arrugginiscono nelle crepe della terra, esposti al vento e al mare, aspettano la stagione giusta per dare i loro frutti e quando muoiono sono torti, rugosi ma sono ancora legna per scaldare le case.