Attualità
Cara razzista ti scrivo
Lettera aperta all'autrice di un post anti-immigrati diventato virale su Facebook. Che ha scritto di sé «sì, sono razzista. Me ne fotto».
Sabato notte prima di dormire scorrevo pigramente i post della sezione Notizie di Facebook. Una ex compagna dei tempi dell’università condivide un corposo intervento di Pippi Ferraro, «blogger e organizzatrice di eventi» secondo il Corriere del Mezzogiorno, in calce alla foto di un ragazzo nero seduto su un treno. Il nome poco noto dell’autrice del post non ha impedito al suddetto di raggiungere la ribalta della viralità: quando lo leggo ha già 44 mila condivisioni. Il mattino dopo, al mio risveglio, ha già passato il traguardo dei 130 mila “mi piace”. Nel testo, Pippi Ferraro lamenta un doppiopesismo di trattamento in favore degli immigrati a partire da una scena cui ha assistito giovedì scorso su un regionale diretto a Napoli, dove a un gruppo di giovani di colore è stato permesso di viaggiare senza biglietto, mentre un’anziana signora italiana è stata multata per lo stesso motivo.
Il post nel frattempo è stato rimosso dal profilo Facebook dell’autrice. Diversi siti web, non ultimo il già citato Corriere, l’hanno tuttavia ripreso condividendone ampi stralci. Tra le altre cose, l’autrice a un certo punto dice di essersi presa della fascista e della razzista, per poi concedere polemicamente ai suoi detrattori: «Sì, sono razzista». Luigi Manconi di recente ha scritto che coi fascisti non si discute, e probabilmente, come spesso gli capita, ha ragione. Questo però non significa che non si possa scrivere loro.
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Cara Pippi Ferraro,
mi permetto un tono colloquiale, da conoscente di vecchia data, perché rileggendo il tuo post ho sentito l’eco di discorsi coi parenti, rimbrotti di conoscenti e qualche amico, commenti di anziani e meno anziani in fila all’ufficio postale, preoccupazioni e paure di vicini di casa e di quartiere, retoriche abusate di amanti dell’ordine bolsi o rampanti. Quando, descrivendo la tua vicenda, dici che «otto ragazzi di colore» salgono sul tuo treno e «affollano» il tuo vagone parlando «una lingua rumorosa e gutturale», un campanello d’allarme inizia appena percettibilmente a suonare in me: è possibile che la tua percezione dei fatti sia stata alterata da una forma di pregiudizio nei confronti di questi neri vestiti con «cappellini da baseball, catene d’oro pesanti come i rapper, zaini Invicta, cuffie enormi appoggiate al collo e iPhone in mano»? «Nessuno di loro era più basso del metro e ottanta, ed erano tutti in carne», riporti, per poi chiosare il primo di una serie di sardonici «poveri profughi che fuggono dalle guerre. Davvero, poverini. Come soffrono, è evidente ai più» (però specifichi, dopo aver ricevuto critiche relative a questo commento, che ma sì, certo, era ovvio che tu volessi sottolineare che non erano profughi. La tua era evidentemente ficcante satira da Facebook).
Contesti un trattamento di favore goduto dal gruppo di africani, a cui un controllore si limita a chiedere «scendete a Salerno?» non obiettando nulla quando gli viene mostrato un singolo biglietto logoro. Poi c’è l’anziana signora italiana, una figura tragica davvero troppo già vista e salviniana per non considerarla il MacGuffin della tua storia, ma meriti un atto di cieca fiducia: il controllore torna, viene implorato dalla nonnina di soprassedere sulla di lei inadempienza (non aveva obliterato il biglietto per la fretta, ma si è autodenunciata) ma in un impeto di rinnovata crudeltà lui le fa la multa. «Poi ripassa vicino agli otto di colore senza biglietto e fa finta di non vederli, anche se sa benissimo che non sono scesi dove avevano detto e che non erano in regola». Dici di aver pensato «due pesi e due misure» e non te ne si può certo fare una colpa: il controllore ha effettivamente usato due pesi e due misure.
A questo punto vorrei cercare di capire con te il motivo di tanta disparità, però: pensi sia perché loro erano otto e «in carne», mentre la signora da sola e intimorita? O perché loro, al di là dei loro iPhone, delle loro cuffie e della loro lingua gutturale, avevano la pelle nera? Credi che il controllore abbia permesso loro di arrivare a Napoli gratuitamente perché aveva paura? Eppure non descrivi nulla di eclatante nel loro comportamento: sì, davano occhiate alle ragazze e sì, parlavano ad alta voce. Io al contrario di te non amo definirmi razzista, ma ho come l’impressione di poter concepire l’esistenza di persone bianche e italianissime abituate a squadrare le donne che passano e parlare a voce alta sui convogli che collegano Napoli al Cilento. In anni da pendolare, peraltro, non ho mai incontrato un controllore che abbia garantito un trattamento di favore a un gruppo di immigrati, o presunti tali. Anzi, in diversi casi ho notato una certa inclinazione all’aggressività verbale nel multarli, farli scendere dal treno e minacciarli di chiamare la polizia – la soluzione che tu auspichi con un entusiasmo à la Maroni.
In seguito parli del terribile caso di cronaca di queste ore, quello che ha visto un controllore milanese attaccato a colpi di machete da un gruppo di ragazzini di El Salvador, membri di una gang di latinos della periferia. «E allora ripenso all’episodio capitato a me», dici, ma non è chiaro come una banda di assassini possa essere accostata a un gruppo di ragazzi che non ha fatto un biglietto su un treno regionale. Scrivi, poi, che «stiamo subendo un’invasione senza precedenti» (di salvadoregni?) e qui, oltre al qualunquismo, ti si deve rimproverare una falsità assoluta. Nei primi quattro mesi del 2015 sono sbarcati in Italia circa 25 mila immigrati, dato sostanzialmente in linea – se non leggermente in calo – con quello dello scorso anno. Delle 62 mila persone passate da Milano lo scorso anno, nel capoluogo si sono fermati in 207. Questi sono i numeri dell’«invasione», cara Pippi Ferraro. Il resto è sapiente propaganda elettorale.
Dovresti provare ad andarci, in quelle stazioni che nel tuo j’accuse definisci «ridotte a campi di accoglienza»
E credimi, dovresti provare ad andarci, in quelle stazioni che nel tuo j’accuse definisci «ridotte a campi di accoglienza con gente buttata per terra nello sporco, piscio, pannolini di bambini e spazzatura ovunque». Io l’ho fatto spesso negli ultimi tempi, l’ultima volta giusto ieri. Non troverai gang di criminali dall’atteggiamento strafottente o ragazzi in carne che ridono rumorosamente; avrai intorno persone dall’aspetto macilento e dallo sguardo segnato, bambini e madri ridotti a spettri dal volto umano, osserverai «il silenzio dei torturati, più duro d’ogni macigno» di cui parlava Piero Calamandrei. Non ci saranno i «cinquecento malati di scabbia» di cui parli perché non esiste quell’«allarme scabbia» creato a uso e consumo del piccolo circo politico e mediatico che lo brandisce con fare garrulo, e anche se li trovassi non sarebbe un grosso problema, perché per contrarre la loro malattia dovresti dormire nelle loro lenzuola per giorni e giorni. Se vorrai andare alla stazione Centrale di Milano per verificare i tuoi assunti avrai intorno madri che cercano di addormentare i propri figli su una panchina di marmo, padri di famiglia e giovani che non mangiano da giorni ma rifiutano il poco cibo delle associazioni di volontariato perché credono di avere soltanto più una cosa di loro proprietà esclusiva, e quella cosa si chiama grosso modo dignità.
E no, Pippi Ferraro, non è vero nemmeno che «quelli di colore e i rom e i clandestini viaggiano gratis, mangiano gratis, alloggiano gratis, non pagano le tasse, non pagano l’occupazione del suolo pubblico, non necessitano di documenti, non vanno in galera, non rispettano le leggi», queste come altre sono cose che hai sentito dire, berciate in talk show e telegiornali, che vivono nelle conversazioni al bar e nei discorsi delle persone suggestionabili. Ma la realtà con questo non c’entra nulla. I famosi 40 o 45 (o 50, in altri casi) euro di cui godrebbero giornalmente i nuovi arrivati sono pura fantasia: 35 euro è la somma media per richiedente asilo che viene erogata dai Comuni direttamente ai centri di accoglienza e alle associazioni, e spesso basta a malapena per il vitto, la manutenzione e la pulizia degli stabili. E si tratta, cara Pippi, di soldi erogati da un fondo del ministero dell’Interno, una disposizione che esiste pressoché ovunque e si rifà direttamente alla Convenzione dei diritti dell’Uomo. Agli immigrati vengono offerte sì e no le chiamate in patria per avvisare i familiari che hanno avuto la fortuna di non morire durante la traversata. Credi che si accaniscano «sempre e solo contro di noi», sottinteso noi italiani, ma forse non sai che molte di queste persone – spesso medici, studenti universitari, artisti – trovano soltanto porte sbarrate e trattamenti ben poco di favore. Succede da anni a Pozzallo, nel ragusano, e ora per motivi diversi anche al Brennero, a Ventimiglia. Anche in quei posti troverai persone che in Italia non solo non vogliono delinquere o vivere «gratis», ma non intendono nemmeno rimanere.
Sentenzi «me ne fotto», tu, ma bisognerebbe ricordarti che da «me ne frego» e succedanei in questo paese non è mai venuto fuori nulla di particolarmente buono. Sei esasperata e parli di una «guerra» di cui dovremmo accorgerci, ma non ti rendi conto tu stessa di esserti resa il megafono di auspicati pogrom che servono da trampolino di lancio per carriere di politicanti spregiudicati. In un altro post recente citi la frase di un romanzo che hai letto: «I libri la proteggono dalla stupidità». E viene da sé, a questo punto, esortarti a proteggere te stessa: puoi cominciare da Primo Levi sul Corriere nel maggio del ’74: «Ogni tempo ha il suo fascismo […] A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione […] e diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine». Leggi, informati come si conviene, tocca con mano, e solo dopo armati per la guerra. E un’ultima cosa: se ti capiterà, com’è successo a me, di andare a vivere per un periodo all’estero, non sorprenderti o risentirti per quegli sguardi straniti oppure direttamente ostili. È per via di quella «lingua rumorosa e gutturale» che parli.