Attualità

Cannibalismo, parliamone

La biologia, la fame, le pulsioni recondite e i miti coloniali. Come mangiare i nostri simili è diventato il tabù definitivo: una storia culturale.

di Anna Momigliano

In uno dei passaggi più angoscianti de La Strada, padre e figlio trovano, nel ripostiglio di una casa che credevano sicura, un prigioniero con le gambe amputate e cauterizzate di fresco: i suoi carcerieri si stanno cibando di lui. Avrebbero potuto ucciderlo, però il corpo sarebbe marcito prima che del tempo necessario per mangiarlo tutto, dunque meglio tenere l’uomo in vita e consumarlo un pezzetto per volta. Nel romanzo di Cormac McCarthy il cannibalismo è una conseguenza del collasso sociale, sintomo della riduzione dell’uomo a bestia. Lo stesso vale per un racconto di Yann Martel dello stesso periodo, “We ate the children last”: il titolo rende bene l’idea di un’umanità perduta per gradi, ma è fuorviante, perché i bambini sono mangiati per primi.

A dieci anni di distanza, il cannibalismo resta un tema ricorrente, ma con allusioni diverse. Raw, il film splatter-femminista della francese Julia Ducournau che è stato definito «uno dei migliori horror dell’ultimo decennio», mette in scena il risveglio dei sensi di una studentessa vegetariana che scopre il piacere della carne, in ogni senso: la protagonista si appropria del suo corpo divorando quello altrui. In Santa Clarita diet, la sit-com di Netflix con Drew Barrymore, una mamma di provincia ritrova lo slancio perduto grazie a una dieta a base di smoothie di carne umana. L’estetica e il tono non potrebbero essere più lontani, il tema è lo stesso: il cannibalismo come potenza vitale. In altri contesti, è una scorciatoia per indicare il male assoluto, la reductio ad anthropophagiam funziona un po’ come la reductio ad hitlerum: si prende qualcosa che, tutti concorderanno, è il peggio del peggio, per sfruttarla a mo’ di avvertimento o provocazione, come H.G. Wells ne La macchina del tempo (un giorno i poveri mangeranno i figli dei ricchi) e Jonathan Swift in Una modesta proposta (nutriamo gli irlandesi coi loro neonati, addio fame e sovrappopolazione).

Tavola imbandita

Da dove arriva la nostra fascinazione per il cannibalismo? Un libro uscito a febbraio e di cui s’è molto parlato negli Stati Uniti, Cannibalism: A Perfectly Natural History di Bill Schutt, aiuta a capire come cibarci dei nostri simili sia diventato il tabù definitivo, ma anche qualcosa che suscita reazioni ambivalenti perché, in un certo senso, ci riguarda da vicino. Schutt, che di professione fa lo zoologo ma qui si occupa anche di antropologia e fatti di cronaca, parte da due argomentazioni controintuitive. Primo, il cannibalismo non è affatto “contro natura”, ed è anzi una strategia evolutiva piuttosto efficiente, presente in diverse specie. Secondo: per l’uomo il cannibalismo è un tabù universale, non esistono cioè, con buona pace di una certa etnografia e dei romanzi d’avventura, le tribù di cannibali.

Verrebbe da pensare che il cannibalismo giochi a sfavore della sopravvivenza della specie, invece, spiega Schutt, per alcuni animali nutrirsi dei loro simili, o persino di prole e fratelli, è la regola, non l’eccezione: esistono squali che praticano il cannibalismo in utero, mangiandosi i fratelli prima di nascere; ci sono girini che si nutrono solo di altri girini; nei pesci dove le femmine covano le uova in bocca, una parte della nidiata finisce nello stomaco delle madri. Papparsi figli e fratelli non è poi così irrazionale, quando sono prodotti in abbondanza e con scarsa fatica, ed è pure pratico, visto che sono a portata di mano. Nei mammiferi, che investono tempo ed energie nel parto, il cannibalismo infra-familiare è raro, ma resta quello infra-specie. È fatto documentato che i maschi di orso polare mangino i cuccioli, preda facile e nutriente. Tra le creature a noi geneticamente vicine, dei Neanderthal si sa che praticavano il cannibalismo in condizioni estreme, mentre pare che l’Homo antecessor, un loro antenato, mangiasse i propri simili anche quando il cibo era abbondante.

Ora, la carne umana non è un gran che dal punto di vista nutritivo: siamo molto meno calorici della selvaggina. Allora, perché mangiarla? Per l’Homo antecessor, Schutt ipotizza che forse «gli piaceva e basta». Quanto all’homo sapiens, le alternative sono tre: l’uomo mangia l’uomo perché non c’è altro cibo a disposizione, per follia criminale o, secondo alcuni, per finalità rituali.

Dinner For Four

Sull’esistenza del cannibalismo rituale, Schutt è scettico. Certo, abbondano i resoconti di missionari ed etnografi  sulle pratiche antropofaghe di tribù in Africa, Oceania e America latina, popoli guerrieri che pasteggiano dei nemici sconfitti per acquisirne la forza, o assai devoti al culto degli antenati: mi mangio un pezzetto del nonno per farlo vivere dentro di me. La parola “cannibale”, del resto, viene dalla stessa radice di “Caraibi”: i “carib” erano una tribù delle Antille, qualcuno però, confondendosi, li chiamava anche “canib”, con la N. Il problema è che tutte queste storie si basano su testimonianze indirette: nessun antropologo ha mai visto coi suoi occhi un capo villaggio banchettare col cuore di un rivale. Forse ci siamo immaginato tutto noi, perché dipingere i non-europei come mangiatori di uomini offriva un pretesto per dominarli. C’è chi pensa che il cannibalismo rituale non sia stato altro che un costrutto coloniale, tanto che nel suo Manifesto Antropófago il brasiliano Oswald de Andrade professava l’orgoglio cannibale in chiave anti-imperialista.

Non mancano però i serial killer che, oltre a essere serial killer, sono anche cannibali: Hannibal Lecter è ispirato a una persona reale, Alfredo Ballí Treviño. L’antropofagia per necessità, poi, non solo esiste, ma in condizioni estreme è quasi una costante: l’antropologo Robert Dirks ha osservato che, quando la morte per inedia incombe, i gruppi attraversano tre fasi, un momento di solidarietà, poi la tensione, e infine il collasso, ed è in quel momento che i forti cominciano a mangiare i deboli. Durante l’assedio di Stalingrado duemila persone furono fucilate per cannibalismo: erano poveracci che, spinti dalla disperazione, avevano addentato i cadaveri di altri poveracci morti sotto le bombe, volevano vivere e non hanno ucciso nessuno, allora perché le autorità li hanno puniti con tanta severità? La risposta è che il cannibalismo, anche quando è dettato dalla necessità e non comporta lo spargimento di sangue, tocca troppi nervi scoperti.

Freud vedeva nell’antropofagia un tassello del parricidio: il delitto primordiale era quello dei figli-sudditi che uccidono il padre-capo tribù, reo di tenere tutte le donne per sé, e che poi se ne cibano per assorbirne la forza. Non c’è bisogno di condividere alla lettera quest’interpretazione per cogliere la verità che sottende: come per l’incesto, l’altro tabù universale, l’orrore per il cannibalismo nasconde un desiderio recondito. Una pulsione repressa, pronta a riemergere quando l’ordine delle cose viene a mancare, che sia per psicosi individuale o per il collasso della civiltà. Tutti, nelle condizioni giuste, potremmo diventare cannibali; tutti possediamo, nascosta da qualche parte, la memoria genetica di un ominide che mangiava carne umana non come ultima spiaggia, ma perché era buona. L’animale che ci portiamo dentro è cannibale e ha ancora la capacità, ogni tanto, di metterci a disagio.

Nelle immagini: Illustrazione dal manuale di economia domestica dell’alta società, 1860 (Hulton Archive/Getty Images); Un centrotavola degli anni 50 (Chaloner Woods/Getty Images); una tavola imbandita, in bianco e nero, sempre degli anni 50  (W. F. Lowman/Fox Photos/Getty Images)