Cultura | Rassegna

Capire il camp per prepararsi al Met Gala

Alcuni articoli da leggere per approfondire il tema della grande mostra al Metropolitan Museum of Art di New York.

di Studio

Divine, David Lochary, Danny Mills, Mary Vivian Pearce, and Mink Stole in Pink Flamingos (1972)

Come ogni anno, il Metropolitan Museum of Art di New York organizza agli inizi di maggio una grande mostra di moda, realizzata in collaborazione con Vogue Us, che inaugura con un gala dove le celebrity presenti sono invitate a interpretare il tema sul tappeto rosso. Heavenly Bodies, la retrospettiva dell’anno scorso dedicata all’immaginario cattolico (ricorderete Rihanna vestita da papessa) è stata la più visitata nella storia del museo. La nuova mostra, Camp: Notes on Fashion, inaugura il prossimo 9 maggio ed è anticipata dal gala di lunedì 6: il tema scelto dal curatore Andrew Bolton e da Anna Wintour è nientemeno che il “camp”, un concetto tanto esteso quanto difficile da definire con precisione. Il testo di riferimento della mostra è l’omonimo saggio di Susan Sontag, pubblicato per la prima volta nel 1964 sulla rivista Partisan Review. La categoria del camp abbraccia universi estetici anche molto lontani fra di loro, muovendosi secondo una sorta di “principio della contraddizione” dalla letteratura al cinema, dalla televisione alla moda e definendo un immaginario che sembra inglobare tutto e il contrario di tutto. Ci sono personaggi, film, autori, registi e stilisti che associamo quasi istintivamente al camp, come Alberto Arbasino, John Waters, Franco Moschino ma anche Lady Gaga – che non a caso è host dell’evento del Met – Ryan Murphy e Alessandro Michele. Abbiamo raccolto alcuni articoli che inquadrano, definiscono, spiegano il camp: buona lettura.

“Why Susan Sontag’s 54-year-old essay on camp is essential reading”Quartzy
La mostra Camp: Notes on Fashion  si ispira al fondamentale saggio del 1964 di Susan Sontag, Notes on Camp, un trattato scritto più di 50 anni fa che è riuscito a prevedere le caratteristiche della scena culturale di oggi. Questo articolo spiega cos’è il camp nel 2019 a partire dal nucleo centrale delle riflessioni di Sontag: da Trump alle sneakers, da Lady Gaga alla moda.

“PopCamp”Doppiozero
Nel 2008 Riga, una rivista composta da numeri monografici su autori e movimenti del ventesimo secolo (fondata da Marco Belpoliti e Elio Grazioli), propone un doppio numero completamente dedicato al camp a cura di Fabio Cleto, un’ampia analisi che intendeva porre rimedio alle lacune italiane sull’argomento. Doppiozero ha pubblicato il bellissimo testo in cui Belpoliti e Grazioli parlano di questo numero speciale: «Tranne poche eccezioni, il camp non ha da noi conosciuto una spendibilità critica, non è entrato nel lessico dell’estetica e nella storia della cultura (…). Accoglierlo, tanto nella prassi quanto nella critica, significa confrontarsi con la possibilità di costruire un quadro di intelligibilità, non solo fra diversi ordini estetici, ma anche fra aree culturali, che comprenda l’eterogeneo senza dirimerne la differenza».

“Caro vecchio Kitsch. Chi ha detto che era una moda transitoria?” – La Repubblica
Nel 2014 Alberto Arbasino firma su La Repubblica una spassosissima recensione del saggio di Andrea Mecacci Il kitsch (Il Mulino) che più camp di così non si può, buttandoci dentro un turbinio di riferimenti letterari, artistici e gli immancabili aneddoti. Qui lo scrittore utilizza indifferentemente il termine kitsch per indicare tutto ciò che staziona nel camp e dintorni e a un certo punto scrive, con buona pace di Gillo Dorfles, che hanno sbagliato a considerarla una moda transitoria: essa è anzi «vispissima e duratura, nel concetto e nel termine». D’altronde: «Quante seriosità sulle stronzate, nel frattempo. Ben cinquantotto Note sul Camp di Susan Sontag, ad esempio».

“From Sun Kings to Drag Queens: Inside The Met’s Camp Extravaganza”Vogue Us
Hamish Bowles, uno dei volti e delle firme più conosciute di Vogue Us, racconta la gestazione della mostra curata da Andrew Bolton che il Met ospiterà dal 9 maggio all’8 settembre. L’allestimento è opera dello scenografo Jan Versweyveld, che ha voluto valorizzare gli abiti senza aggiungerci troppi orpelli intorno: on display ci saranno creazioni di Christian Dior, Cristóbal Balenciaga, Franco Moschino, Bob Mackie, Jeremy Scott e Donatella Versace tra gli altri. Per strutturare la mostra, Bolton è partito da tutte le cose che Sontag definisce come “camp” – l’artificio, la stravaganza, l’eccesso, l’ironia, il demodé, il superfluo, l’innocenza – e dalla loro declinazione nella moda. Oltre agli autori del passato, ci sono anche tanti designer giovani: c’è l’abito rosa a balze di Molly Goddard, per esempio, l’abito nero sui cui Virgil Abloh ha scritto “little black dress” e gli abiti con le stampe floreali anni ’50 di Richard Quinn.

“Why This Met Gala Will Be Both Uniquely Easy and Impossibly Hard to Dress For”Vanity Fair Us
Se il Met Gala è sempre stato il trionfo dell’assurdo e dell’artificiale, come vestirsi quando il tema della serata impone di scegliere un look che celebri proprio l’esagerazione? La situazione è molto più complicata di quanto sembra, avvisa Kenzie Bryant, che ci tiene però a rassicurarci con un motto che espirme al meglio l’estetica camp: e se il modo migliore per farlo bene fosse proprio sbagliare tutto?

“On the persistance of camp” – The Gay and Lesbian Review
Sottolineando la longevità del concetto di camp, questo articolo propone una breve storia del termine, sottolineando come un fenomeno che sembrava relegato al XX secolo – almeno per quanto riguarda l’espressione artistica – venga oggi ripreso per definire una delle categorie utilizzate più volentieri dai teorici queer per descrivere un certo tipo di sensibilità nella cultura gay.

“Notes on Art So Bad Its Good” – The Believer
In un approfondimento del 2004 su The Believer, Douglas Wolk rifocalizza il concetto di camp, ricostruendone e aggiornandone la storia. Scrive: «Ogni opera che non è diventata parte del canone culturale, dalla fine del regno della regina Vittoria al primo LP dei Beatles, può ora essere considerata camp: ogni pubblicità, ogni programma radiofonico, ogni gioco, ogni numero del Saturday Evening Post… ma è anche possibile escludere qualsiasi cosa dal camp, con un po’ di sforzo (…) non è possibile farne una divisione precisa». È solo accettando questa parzialità, questa contraddizione intrinseca al camp stesso, che possiamo provare a inquadrarne il fenomeno.

“Camp and campy: there’s a big difference” – Slate
Bryan Lowder spiega la differenza tra camp e campy. Riassumibile con le parole di Susan Sontag, che nelle sue Notes of Camp ha provocato in realtà una serie di fraintendimenti, il concetto di camp è “un modo di vedere il mondo come fenomeno estetico”. La campiness, invece, come stile e sensibilità, comprende un insieme di caratteristiche come la frivolezza, l’esagerato, l’istrionico e quella che Sontag chiama “serietà fallita”: caratteristiche che, però, spiega Lowder, non sono affatto intrinseche al camp. Il campy come estetica popolare potrebbe sbiadirsi, mentre il Camp resterà per sempre un certo modo di vedere il mondo.

“John Waters: I Love Women Who Hate Men and Hate Men Who Hate Women” – Lenny Letter
Se c’è un regista che ha fatto del camp la sua personale poetica, quello è sicuramente John Waters: Pink Flamingos, il film del 1972 che fece scalpore per le scene di sesso e coprofagia, e il rapporto artistico da lui instaurato con la sua musa Divine, sono un manifesto del camp più riuscito. In quest’intervista del 2017 si racconta a Kaitlyn Greenidge di Lenny Letter, la newsletter che tratta temi femministi fondata nel 2015 da Lena Dunham e oggi diretta da Jessica Grose. A 73 anni Waters non ha perso un grammo del suo bizzarro fascino: qui parla di donne che odiano gli uomini, Mike Pence e Valerie Solanas, l’autrice dello Scum Manifesto alla quale vorrebbe che tutte le ragazze assomigliassero.

“Gucci’s Reinassance Man” – The New Yorker
Spesso ci si riferisce all’universo estetico che Alessandro Michele ha creato da Gucci come a una grande “sinfonia kitsch”, all’interno della quale lo stilista mescola insieme moltissimi spunti e riflessioni che provengono da tradizioni, stili, periodi storici, film e libri diversissimi tra loro. Antiquario, intellettuale, collezionista, avido di novità, colto, innamorato del pop in tutte le sue declinazioni: il camp che Michele costruisce con le sue collezioni, sul suo profilo Instagram, attraverso tutte le installazioni performative che portano il suo nome è sempre profondo e leggerissimo. L’intervista di Rebecca Mead sul New Yorker è uno dei profili più belli finora scritti su di lui: racconta il suo metodo di lavoro e quell’universo con cui ci ha ubriacati tutti.