Attualità | Coronavirus
Senza mascherina, dalla parte del torto
In molte città la scelta di indossarla o meno è completamente affidata al singolo.
Roma, 29 aprile 2020: una donna indossa in modo improprio la sua mascherina (foto di Andreas Solaro/Afp via Getty Images)
Letizia Muratori ha ragione quando scrive, qui, che ti devi mettere la mascherina, punto e basta, senza tante storie. Voglio dirlo subito: lei è una scrittrice che amo moltissimo. E ha così innegabilmente ragione che mi sono chiesta a lungo se scrivere questo articolo. Ma il problema è che io questo articolo lo volevo scrivere già prima di leggere quello di Letizia Muratori nel quale Letizia Muratori ha semplicemente e innegabilmente ragione. E dal momento che lei è una scrittrice che amo moltissimo, non voglio sprecare questa occasione d’oro. Che mi è stata offerta dal virus, e dal suo articolo: quella di stare, senza possibilità di smentita, dalla parte del torto.
Ci sono persone che amano infrangere le regole, altre che pensano che infrangere le regole sia l’unico modo per far crescere una civiltà, imparare, vivere e quindi si applicano per farlo, anche se ne farebbero anche a meno. Ad altre invece le regole piacciono, seguire le regole, aggirarle per un istante in maniera furtiva, tornare a rispettarle con orgoglio. Provare il brivido della trasgressione, qualcosa che, dicono quelli che amano le regole, senza le regole non esisterebbe. Ma sto divagando, e la ragione per cui sto divagando è che, come dicevo, Letizia Muratori ha ragione, e non c’è niente che possa essere detto a qualcuno che ha ragione, tranne che ha ragione. E gli altri, quelli che dicono il contrario, hanno torto. Ma il torto ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
Sono una femmina, bianca, di mezza età. Sto a metà, nella classifica dei cattivi indicata da Letizia Muratori. Peggio di me – sulla questione delle mascherine – ci sono i maschi bianchi di mezza età, i corrieri, gli operai i netturbini e i postini, campioni del “leva e metti”. Meglio di me indiani, filippini, africani, perfino i rom ai cassonetti, oltre alle bruttine servili, in coda davanti ai negozi di alimentari e disciplinate con la loro mascherina perfettamente calzata, naso compreso.
Faccio parte di quella categoria di persone che talvolta indossa la mascherina e talvolta no. E quando non la indossa la tiene appallottolata in tasca. Mi pare meglio che tenerla al collo o al polso, non chiedetemi perché ma mi pare più dignitoso. Ma credo che tenerla ovunque tranne che nel posto in cui deve stare (sulla bocca e sul naso) la renda inutilizzabile. Le mascherine, se ho capito bene, sono come i preservativi, si usano una volta sola e poi si buttano. Poco importa che la tua performance sia stata breve, che tu l’abbia avuta addosso – sto parlando della mascherina – solo per qualche minuto. Se la riusi, proprio come il preservativo, lo fai per mostrare che la stai usando e non perché assolva al suo scopo.
Che è esattamente quello che faccio io. Mi metto la mascherina quando devo mostrare che la sto usando. Nei luoghi chiusi, nelle strade affollate, o quando, per esempio, dovessi incrociare Letizia Muratori che, giustamente, inveirebbe contro di me se mi vedesse sguarnita. Io vivo a Roma. Scriverei un articolo diverso se vivessi a Milano? Certo che sì. Ma non solo questo articolo. Scriverei sempre cose diverse, se vivessi a Milano. Perché vedrei cose diverse, incontrerei persone diverse. Per una questione oggettiva, non per una supposta diversità antropologica tra romani e milanesi. In questo caso, dal momento che stiamo parlando di mascherine, la questione oggettiva sono i numeri del contagio. Nel giorno in cui scrivo a Milano i contagi sono di nuovo raddoppiati, passando da 421 a 816. A Roma lo stesso giorno ci sono stati 19 contagi. Più della metà dei contagiati di oggi in Italia sono in Lombardia. Infatti indossare la mascherina a Milano è obbligatorio.
Mentre a Roma è auspicabile/consigliato/incoraggiato indossarla nei luoghi chiusi e in luoghi affollati (oltre che quando uno dovesse incontrare Letizia Muratori). Quindi, a meno che non si creda che c’è stato un errore nel decreto, a meno che non si metta in discussione la gestione dell’emergenza (e quindi nello steso modo l’obbligo e la discrezionalità), la questione della mascherina è affidata alle scelte del singolo. A quello che, in periodi di maggiore serenità pischica, si chiama “buonsenso”. È giusto? È sbagliato? Quali sono le scelte del singolo che dovrebbero essere affidate al buonsenso e quali regolamentate da leggi e decreti? Non aprirei, adesso, questa questione. Ma siamo tutti d’accordo sul fatto che l’uso della mascherina, a Roma, è una scelta.
Indossarle sempre, ovviamente, garantisce una protezione maggiore. Voglio essere chiara: non mi importa niente dei motivi misteriosi per cui le mascherine non sono state rese obbligatorie fin dall’inizio e ovunque, dei traffici e delle inefficienze. Voglio giocare pulito: senza alcun dubbio indossare la mascherina protegge dal contagio molto più che andarsene in giro cantando a bocca aperta. Anche a Roma. Tutte le pratiche di sicurezza che abbiamo acquisito in questi anni, dalla cintura al divieto di fumare in luoghi chiusi, dal casco per la bicicletta alla scritta sulla bottiglia di varichina che vieta di berla (cit. Ricky Gervais) servono a proteggerci. È una corsa senza fine a tentare di tappare le infinite falle che si aprono continuamente sotto i nostri piedi, allo scopo di prolungare la nostra vita più a lungo possibile, a mantenerci integri. Siamo tutti d’accordo sul fatto che tra bere la varichina e non berla è meglio non berla. Molto meglio.
Allora perché scrivo questo articolo? Non mi sarà mica venuta voglia di passare dalla parte di quei guastatori, gli hooligans texani di cui parla Letizia Muratori che esercitano la propria libertà prendendo a calci in culo le persone con la mascherina? Io amo le persone con la mascherina, le rispetto, persino a Roma. Un po’ meno quelle che indossano la mascherina nera e gli occhiali neri, anche perché nascondere il volto è contrario, quello sì, alle nostre leggi. E in ogni caso incontrare Batman all’Esquilino, mentre scendi la sera a portare il cane, mi inquieta.
Lo scrivo perché quello che scrive Letizia Muratori è talmente ragionevole, che nessuno può obiettare niente. E in questo momento, forse mai come in questo momento da quando sto al mondo, si è aperto uno spazio di vero dissenso. Molte cose non potranno più esser come prima. Chi dovrà decidere come saranno? Spero che potremo farlo noi, tutti noi. Spingere da una parte o dall’altra, alzare la voce, dissentire. Abbiamo taciuto per settanta giorni circa, siamo stati in casa, in silenzio. I migliori sono stati così generosi da offrire gratis il proprio talento, sia pure in modo rabberciato, per alleggerire la solitudine degli altri. Abbiamo cantato, registrato poesie, inventato hashtag, fatto lezione su Zoom, impastato torte a beneficio di chissà chi. Adesso basta. Siamo nella fase 2. I giorni che vengono saranno un corpo a corpo. Tra la razionalità e il pericolo necessario, tra il bisogno di mantenersi in vita (e non affollare le terapie intensive, non far scoppiare l’algoritmo del contagio, lo, lo so…) e la vita stessa. Tra le pratiche culturali necessarie a ogni comunità, c’è anche il riconoscimento dell’altro. Quello che fa scelte diverse dalle tue, mettendoti a rischio. Ma, forse, facendo una piccola battaglia anche per te.
Io vivo a Roma, e ho due cani, due setter inglesi. Avevo due cani, una è morta. Ma questa storia risale a quando ne avevo due. Avevo due cani ma non avevo la macchina. Così, i miei due cani li portavo in motorino. Sono due cani grandi, e si divertivano molto a venire in motorino con me. Orecchie al vento, i musi che spuntavano dai due lati dello scudo. Quando portavo i miei cani in giro la gente ci faceva le foto, i turisti pensavano che fosse molto, molto romano. Al semaforo la gente rideva, mi si avvicinava, accarezzava i cani. Altri invece mi mandavano a fanculo. Perché pensavano che in quel modo mettessi a repentaglio la vita dei cani, la loro, dei loro figli, di chissà chi e in un ultimo, ma meno importante, la mia. E, oltretutto, avrebbero potuto multarmi, perché è vietato portare due setter inglesi in motorino. Non sono mai caduta coi miei cani, ma sarebbe potuto succedere. Potevo uccidere i loro figli investendoli con un motorino carico di cani, ma non è successo. Ma poteva succedere, certo. Però in tutti quegli anni, fin quando Mina non è morta (per un tumore, non perché sia caduta dal motorino) credo di aver regalato momenti di trascurabile felicità (cit.) a tante di quelle persone in questa città che non me ne pento. Penso a Mina in tutte quelle foto, ai ragazzini che strattonavano la mamma e dicevano: guarda quella! E poi ridevano. Lo so che avevo torto, ma era bello. E la bellezza non solo non salva il mondo, ma, come nel caso del motorino, e della mascherina, potrebbe addirittura ucciderlo. Ma spesso non accade. E in quel caso, rimane solo la bellezza. E quel po’ di smarginatura dalle regole dentro la quale sta la vita stessa.