Attualità

Camerette — Case della Vetra

La terza puntata di una rubrica su Instagram: la Milano del passato, quartieri in costruzione, vite che non sono le nostre.

di Davide Coppo

 

Camerette è una rubrica di brevi interviste a profili Instagram. È caratterizzata da alcune domande standard, come un questionario, e da altre (evidenziate in blu) che variano da puntata a puntata. Qui la prima, Iris Humm, qui la seconda, Casa Futura.

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Guardare le vecchie fotografie mi rende triste. Ancora di più guardare le vecchie fotografie della città in cui vivo, che in questo caso è Milano. Il passato, nelle fotografie, diventa ingenuo: i ragazzi con i jeans azzurri a vita alta che fanno breakdance in Corsia dei Servi negli anni ’90 mi fanno pensare a quanto possono essere scomodi dei jeans a vita alta per fare breakdance, e mi fanno pensare a come sono diventati quei breakdancer di allora, e domandare se si vergognerebbero a vedere la foto oggi. Se nella fotografia ci sono delle persone, immagino come devono essere oggi, a trenta o sessanta anni, e penso alle cose che potrebbero aver fatto nella vita, e penso sempre a tutti i loro rimpianti. Se si tratta di palazzi, penso alle persone che ci sono passate dentro, alle ambizioni e agli entusiasmi che avevano, e che a distanza di vent’anni, cioè oggi, non hanno più, in pensione e con i figli lontani. E poi penso alle fotografie mie e dei miei amici, e colleghi, e ai selfie cretini, e immagino un me del futuro che guarda il selfie che mi sono fatto ieri sera e pensa le stesse cose che ho scritto io qui, e a sua volta si figura i miei rimpianti e fallimenti. Guardare le vecchie fotografie mi fa pensare alla vecchiaia. Tuttavia e allo stesso tempo, è una cosa che mi piace fare, soprattutto quando si tratta di archeologia urbana. Case della Vetra è uno dei miei account preferiti.

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Che rapporto fotografico hai con la città in cui vivi?

Vivo in due città da quasi 13 anni, la mia giornata è equamente divisa tra Milano e Pavia. Se a Milano fotografo ossessivamente i palazzi e l’architettura, a Pavia tocca al fiume, alle spiagge di sabbia, alla natura. Poi, a dire il vero, non è neppure così netta questa divisione. La verità è che fotografo moltissimo, ovunque, da sempre: dettagli, brutture, bellezza. Quasi mai cibo perché non mi smuove molto in termini visivi.

Se guardi le tue foto dall’alto, cosa vedi? Hai una visione d’insieme che ha qualche significato?

Se guardo le foto di Case della Vetra vedo tutta la nostalgia del non vissuto, il sentimento cardine della mia vita. Niente di vecchio, niente di triste, niente di retromaniaco: più che altro una pulsione istintiva che mi piace godermi felicemente nella mia matta contemporaneità.

Ci sono due foto che hai postato vicine e che mi hanno colpito: questa del quartiere Gallaratese in costruzione, con palazzi come scatoloni, senza una strada né un parco. Mi sembra che rispecchi la crudeltà delle periferie, dell’espansione delle città. Poi questi bambini che vanno a scuola tutti insieme, accompagnati da una maestra giovane. E in un’altra foto lì vicino c’è il centro commerciale Bonola in costruzione. E tutto questo, la giovinezza di quei bambini, alcuni vestiti alla moda, i quartieri in espansione e 30 anni dopo già brutti e vecchi, mi fanno pensare: come saranno ricordati e come li ricorderemo noi, quando saremo vecchi, questi anni milanesi, di giovinezza e nuovi quartieri, grandi promesse, grattacieli?

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Li ricorderemo forse con lo stesso senso di noncuranza che sovrasta i ricordi di alcune delle persone che abitavano quella Milano di cui stiamo parlando. Una noncuranza molto leggera che attraversa un po’ tutte le cose mentre le viviamo e che solo in caso di sturm und drang acuta, si trasforma in nostalgia quando la realtà si fa ricordo. Io sono affetta in modo congenito da questa malattia e quindi guardo quel mondo così ma non è un obbligo e non è meglio di non farlo e di dimenticare. Sono solo modi diversi di stare sul piccolo pianeta in cui stiamo. Mi colpisce il fatto che tu abbia badato a questa vicinanza tra le fotografie, al loro ordine. Il modo in cui metto insieme il materiale di Case della Vetra sfugge un po’ al mio controllo. Magari sto preparando una frittata e penso: «Chissà se a Milano nel ’65 c’era un ristorante famoso per le frittate» e allora inizio a cercare, a navigare, a perdermi nel flusso di immagini, fotografi enormi e ignoti per scoprire che sì, c’era questo posto in periferia con questa signora che preparava fantastiche frittate ai porri. E magari il ristorante degli anni ’60 è nel quartiere Gallaratese e quando lo scopro la ricerca successiva diventa per istinto più ampia, sul quartiere in quegli anni. Non mi interessa in alcun modo dare un ordine che non sia questo, un po’ anarchico, a queste fotografie, penso che anche l’ordine con cui poi tutto viene postato sia lo specchio di come io sono arrivata lì. Si passeggia per Milano, un giorno in un posto, un giorno in un altro.

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L’idea di Case della Vetra è arrivata da qualche ispirazione?

Volevo scrivere un racconto su Milano, che non solo è la città che appassionatamente amo di un innamoramento che si rinnova sempre e non finisce, ma che per me è una specie di scrigno dei gioielli delle origini, di spazi sentimentali familiari, storie di genitori, nonni, infanzia, strade non perdute. La mia idea di raccontare qualcosa, qualsiasi cosa, in un buon 80% dei casi, finisce col passare almeno un attimo da Milano. Ho cominciato a cercare e ho trovato cose bellissime, immagini, testimonianze, passi di libri, insegne, vecchie pubblicità, insomma: le solite cose che oggi finiscono col popolare Tumblr e dalle quali siamo emotivamente bombardati ogni giorno. Ho pensato che avrei potuto assemblare tutta questa roba, mettere insieme le immagini e le parole, scrivere sempre piccole didascalie più o meno narrative, offrendo un’informazione ma sempre provando a suggerire soprattutto un sentimento. Così è nato casedellavetra.tumblr.com diversi anni fa, e poi una pagina Facebook e infine il profilo Instagram. Tutto questo perché naturalmente sono un po’ pazza, i social network mi piacciono e questo gioco con la città ragnatela per eccellenza non poteva non essere, lui stesso, a forma di ragnatela.

E il nome?

Piazza Vetra è da sempre uno dei miei punti preferiti della città, credo che sia il miglior riassunto di cosa è Milano, nel suo insieme: il Parco delle basiliche, Sant’Eustorgio dietro l’angolo, muri dipinti, muri rovinati, street art, vecchie panchine per nonni di oggi e tossici di ieri, il massacro dei peggiori happy hour, la distensione delle case, le bellissime case piastrellate all’esterno, le bellissime ma per molti bruttissime case dell’edilizia civile del boom e poi degli anni Settanta. Una posizione strategica, un silenzio inaspettato. A Vetra Platz, come la chiamano i Chrisma in una delle loro più belle canzoni, ci si comprava la droga tutta la notte fino alla grande pulizia fine anni ’90, tossici da party ed eroinomani alle cozze ci compravano le dosi in totale relax, ma molti secoli prima, lì, proprio in quello stesso spazio di scambio illegale, venivano bruciavate le streghe. Insomma, un bellissimo mix di ispirazioni e battiti. Quando ho letto Le Case della Vetra di Giovanni Raboni, la sua prima raccolta di poesie pubblicata da Mondadori nel 1964, mi è parso non casuale scoprire che anche lui avesse deciso che quel posto fosse quello deputato ai suoi versi tutti mossi e inarcati dentro Milano. Quindi il nome è venuto da Giovanni Raboni ma è venuto prima da una naturale spinta a pensare che Milano fosse tutta lì. Un annetto fa, per caso, proprio il giorno dell’anniversario della morte di Raboni, ho incontrato in un locale Patriza Valduga, sua moglie e poi vedova. Le ho raccontato di Case della Vetra e la notte stessa ci siamo scritte un po’ di cose in merito a quella piazza e tutto il resto. In questa città le cose si arrotolano e si abbracciano quasi sempre.

C’è qualcosa che Milano possiede, e che altre città in Italia non hanno? E il contrario?

Non ha un fiume, non ha il mare, non ha l’effetto bomboniera che strega il mondo. Ha molte cose in meno e, ai miei occhi, grazie a ciò che non ha è quel che è. Non ha niente di perfetto e per questa ragione mi viene voglia di conoscerla sempre. Ha tante dimensioni, un paio di cieli almeno, due modi di rappresentarsi a sé stessa. Non ho mai pensato a questa città come alla città di cui si legge: moda, fashion, coolness. Non ce l’ho con quelle cose, figuriamoci, solo non mi attraversa il pensiero di questi spazi connessi a quei mondi e mi viene da dire che la pratico e la penso anche oltre tutta la bella narrativa di sé che ha ospitato, da Jannacci a Testori, a tutto quel che sappiamo. Mi interessano le viscere, una certa nudità.

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Uno dei tuoi profili preferiti?

Parlando di non-foto, cioè di assemblamento materiali direi Stereocrazia, @individuello. Vorrei toccare quello che posta, che è un po’ il “vorrei morderti il labbro” dell’era del web.

Cosa vuoi fare da grande?

Restare piccola.

La foto di piazza Vetra, oggi centrale e borghesissima, con le falci e i martelli. Qualche tempo dopo sarebbero arrivate le siringhe, poi i cancelli di Formentini e l’imborghesimento, lo status di “centro”. C’è sempre un riscatto per le periferie?

Non so se l’imborghesimento sia automaticamente un riscatto. In realtà il riscatto esiste in una forma di benessere un po’ più profondo di quello del profitto e delle restrutturazioni. In ogni caso sono processi molto lunghi, il processo della felicità è in potenza infinito, non so se ne vedremo i frutti ma sì, l’eroina si è un po’ nascosta e non vedere più cumuli di siringhe nel parco ci suggerisce che qualcosa va meglio. Anche se poi, come dice sempre una mia amica, al posto delle siringhe ci vedi i blister di Gaviscon.

In Case della Vetra c’è sì Piazza San Babila, c’è il Monumentale, ma c’è soprattutto via Meda, Rogoredo, il Gallaratese, la Ghisolfa, l’Idroscalo: come mai zone così periferiche (allora)?

Per lo stesso motivo per cui, con assoluta banalità, mi fa tremare di più un palazzo di 16 piani in Bovisa della fontana di Piazza San Babila. Ma ti ripeto, dipende sempre dai giorni e dal mio umore.

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Piatto preferito

Quei calamari ripieni che ho mangiato a dieci minuti dal mio primo arrivo a Palermo. Non esisteranno mai più così. Ci siamo amati.

Libro preferito

I Canti di Giacomo Leopardi

Città preferita

Milano, ma pure Louvain la Neuve, piccola e orribile dove stavo da bimbetta.

E se cambi città che succede?

Ho una passione innata per le storie a distanza, continuerò a struggermi.

 

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