Attualità

Come siamo finiti in un racconto di fantascienza

Lo "spettacolo" Cambridge Analytica: analisi letteraria di un affaire globale.

di Cristiano de Majo

Non voglio fare una critica etica al giornalismo contemporaneo. Voglio invece spalancare lo sguardo davanti a questo spettacolo. Lo “spettacolo” che adesso si chiama “Cambridge Analytica”, ma che aveva avuto dei prequel: il volume Wikileaks, la puntata Panama Papers… L’home page del New Yorker con la foto di sbieco di Alexander Nix sembra una citazione di Ipcress con Michael Caine; così come hanno una patina di fiction le interviste di Christopher Wylie al Guardian e a Channel 4, il modo in cui sono “costruite”, il modo in cui lui stesso appare – giacca militare, capelli rosa, anello al naso, t-shirt “politiche” – che ha ispirato GQ America a pubblicare un’analisi sullo “stile degli hacker”. Basterebbero solo i nomi: Cambridge Analytica (ma anche Piattaforma Rousseau), se non ci fossero le facce, le facce degli stessi Wylie e Nix, appunto, a materializzare quello che sembra un prodotto dell’immaginazione.

Mondo, anno 2018, mentre in Italia diventa primo partito un movimento che il suo capo-ombra definisce sul Washington Post: «La prima grande organizzazione politica digitale al mondo, nata e cresciuta online», mentre nella Russia neo-totalitaria, Vladimir Putin diventa per la quarta volta presidente con un grottesco consenso del 75%, e mentre a Salisbury, Regno Unito, un ex spia russa finisce in coma dopo un tentativo di avvelenamento con agenti nervini, un nerd dei dati – «I Make Things With Data», scrive sulla sua bio Twitter – decide di vuotare il sacco per il bene della trasparenza e della democrazia e spiega all’opinione pubblica globale come a partire da un’app con un nome apparentemente neutro e innocuo (myPersonality) sia riuscito a condizionare le elezioni americane con un’operazione che prende il nome da una merendina (Operation KitKat), e a chi obietta che forse esagera l’influenza del suo lavoro, il nerd giura che si possono convincere le persone su Facebook a fare quello che il tuo committente ti ha chiesto di ottenere: votarlo.

Siamo già nella fantascienza e non ce ne siamo accorti: in un racconto di William Gibson, o in un’opera-mondo di Thomas Pynchon, o in una di quelle lotterie dell’uomo medio partorite dall’allucinata immaginazione di Philip Dick. I soliti nomi di scrittori visionari, preveggenti come si dice, che sono riusciti a mettere sulla pagina il senso ultimo delle teorie del caos, l’eterogenesi dei fini di un mondo come «conseguenza non intenzionale di azioni intenzionali», e opache, dagli effetti incontrollabili, mosse non solo dal buon vecchio denaro, ma anche da una forma di cinismo che conosciamo bene, perché è di tutti noi, quello di diventare qualcuno – fosse anche un influente agente dell’invisibilità – a qualunque costo. Il quadro di insieme dell’Arcobaleno della gravità o di Giù nel cyberspazio è un’immagine dei Grandi Ingranaggi della Storia mandati fuori asse da un granellino di sabbia. In questo caso il granellino è un hacker “accademico” vestito proprio come ci siamo immaginati gli hacker nelle storie cyberpunk che abbiamo letto, un interprete della Macchina che intavola meeting col maître à penser della più pericolosa destra americana di sempre, con cui parla amabilmente di omosessualità e femminismo intersezionale, accompagnato da un londinese spigoloso che ha lavorato come analista finanziario in Messico e che ha delle reference letterarie non ancora post-moderne: un personaggio di Le Carrè, si direbbe, con il suo trench e gli occhiali rettangolari con montatura spessa (ma le vecchie spy-story sono d’altra parte un’influenza dichiarata sia di Gibson che di Pynchon).

Andrew O’Hagan è lo scrittore contemporaneo che ha capito meglio e prima di altri l’alto tasso di letterarietà che questi personaggi del nuovo paradigma si portano appresso. L’allure impiegatizia di alcuni (Craig Steven Wright, il presunto inventore del Bitcoin), o l’algida estetica postumana di altri (Julian Assange con la camicia bianca con completo scuro, i capelli bianchi che evangelizza i suoi discepoli in una mega-villa nella campagna inglese); vite nell’ombra ossessionate dalla trasparenza; personaggi che hanno sviluppato un’elevata capacità di maneggiare dati di mostruosa importanza che si scoprono troppo fragili per la loro ambizione di muovere le leve del mondo.

In questa realtà che prende la forma di un romanzo, come un naturale fenomeno di osmosi, i giornali e siti meglio fatti in Occidente virano il loro design in senso spettacolare. Non con i soliti caratteri cubitali o il solito senso di emergenza, ma con un’atmosfera. I Panama Papers sono stati l’esempio più lampante di questo nuovo linguaggio giornalistico. Sono un caso in cui addirittura l’atmosfera soverchia il contenuto. Sono una storia che al lettore trasmette più emozione che informazione.

Cosa si prova davanti a tutto questo? Si prova spavento e incertezza, ovviamente e, stupiscono molto i minimizzatori professionisti, che vogliono convincerci che ci troviamo di fronte alle solite vecchie lotte di potere, così come gli eterni ripropositori di ricette novecentesche – «ripartiamo dalle periferie!» – da usare per aggiustare un mondo che, nel frattempo è diventato qualcosa di radicalmente diverso. Per l’osservatore che riesca per un attimo a dedicarsi a questioni di minore importanza, quelle estetiche, sul tavolo si aggiungono ulteriori elementi a quella che dopo l’Undici settembre venne definita «estetizzazione della realtà» o in modi consimili.  Non si tratta di una realtà che supera l’immaginazione, come si era soliti dire, ma di una realtà che imita l’immaginazione. Come se la crepa nella parete che separa verità e finzione fosse sempre più larga.

 

Nella foto: Alexander Nix di Cambridge Analytica (Getty Images)