Il 12 aprile 2019, a Londra, migliaia di sudenti si sono riuniti per esortare il governo a dichiarare l'emergenza climatica (foto di Dan Kitwood/Getty Images)

Attualità | Ambiente

Avere figli ai tempi del cambiamento climatico

Il 2050 non sembra così lontano, se hai bambini. Ma che diritto abbiamo di mettere al mondo bambini, se il 2050 sarà così terribile?

di Anna Momigliano

Una mattina di febbraio ho finalmente capito cosa intende la gente quando parla di felicità. Era una giornata splendida e avevo portato mia figlia di pochi mesi al parco: lei, che non aveva mai visto un sole così, si godeva i raggi che picchiavano sul viso e sulle manine, e rideva, e io sorridevo a lei, pensando, cavolo, allora questa felicità esiste, e sapere che esisteva è stata la sensazione più bella. Seguita, nel giro di pochi minuti, dalla sensazione più brutta, quando ho realizzato che c’era poco da stare allegri, perché una giornata così calda a inizio febbraio non era affatto normale, infatti quello del 2019 è stato il terzo febbraio più caldo di tutti i tempi (il primo è stato nel 2014, il secondo nel 2016). Stiamo andando verso la catastrofe, una catastrofe di cui mia figlia soffrirà molto più di me.

Secondo le ultime stime dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, potremmo aspettarci grandi sconvolgimenti già nel 2040, con 50 milioni di persone esposte ai rischi di inondazione, cosa che a sua volta influenzerà la vita di molti altri perché, come ha detto uno degli autori del report, «puoi contenere con un muro 10 mila o 20 mila o un milione di persone, ma non puoi contenerne 10 milioni». La Public Library of Science ha pubblicato un paper secondo cui entro il 2080 un miliardo di persone in più saranno esposte a malattie tropicali, grazie alle temperature che si alzano. Poche settimane fa l’agenzia britannica per l’ambiente ha avvertito che l’Inghilterra, la piovosa Inghilterra, soffrirà di siccità a partire dal 2045. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che tra il 2030 e il 2050 circa 250 mila persone moriranno ogni anno per cause ascrivibili ai cambiamenti climatici.

Nel 2050 io avrò settant’anni, mia figlia pochi più di trenta, e questo solleva una serie di questioni. Quant’è scellerato fare un figlio adesso? Che diritto abbiamo di condannare i nostri figli a vivere in un mondo peggiore del nostro? E loro hanno diritto di volercene? I report apocalittici sul clima sono il migliore anticoncezionale dopo Netflix: il problema è che ho iniziato a seguire il tema soltanto dopo essermi riprodotta due volte. Da allora sono piombata in un’ossessione da riduzione dell’impatto ambientale: utilizzo pannolini di stoffa alternati a mono-uso compostabili, acquisto vestiti di seconda mano per tutta la famiglia, lavo ogni cosa a freddo, seziono i supermercati alla ricerca delle confezioni con meno plastica, ho ridotto drasticamente il consumo di carne e scaricato un’app danese per comperare dai ristoranti il cibo invenduto (dice che con ogni cena evito «l’equivalente in CO2 di una lampadina accesa per una settimana intera», evviva). Ormai non prendo più la macchina, anche perché non riesco a fare entrare la carrozzina nel bagagliaio.

Nel 2050 io avrò settant’anni, mia figlia pochi più di trenta, e questo solleva una serie di questioni. Quant’è scellerato fare un figlio adesso? Che diritto abbiamo di condannare i nostri figli a vivere in un mondo peggiore del nostro?

Ho buoni ragioni per sentirmi in colpa. Le generazioni di oggi, cioè i Millennial, la Generazione X e i Baby boomer, hanno provocato e continuano a provocare danni per cui pagheranno le generazioni future: è un po’ come se ci stessimo rimpinzando al ristorante utilizzando la carta di credito di qualcun altro. Non c’è da stupirsi se le generazioni future sono un po’ incazzate e se la lotta ai cambiamenti climatici sta diventando sempre più una questione generazionale, bambini contro adulti, più che giovani contro vecchi. C’è Greta Thunberg, certo, l’adolescente svedese che ha mobilitato i suoi coetanei in tutto il mondo, ma ci sono anche i ragazzini portoghesi, un gruppo di età compresa tra gli 8 e i 18 anni, che hanno fatto causa a 47 nazioni europee: ci state rubando il futuro, è l’accusa, che potrebbe sembrare un po’ astratta ma in realtà si basa sull’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che impone agli Stati di mettere in atto leggi che proteggano il diritto alla vita e alla salute. In America sta succedendo qualcosa di simile con “Our Children’s Trust”, un’associazione di under-23 che sta facendo causa al governo federale per l’emissione eccessiva di gas serra.

Greta Thunberg ha incontrato Jeremy Corbyn e la leader del Green Party Caroline Lucas a Westminster il 23 aprile: a Londra il movimento ambientalista Extinction Rebellion ha bloccato la città chiedendo la mobilitazione nazionale sul clima (Foto di Leon Neal/Getty Images)

C’è qualcosa di calzante in queste storie di bambini che trascinano gli adulti in tribunale. Trovate mediatiche, si dirà, e invece le nostre responsabilità verso le generazioni future sono un argomento su cui si interrogano giuristi e filosofi. Già Thomas Jefferson si domandava «se una generazione di uomini abbia il diritto di vincolarne un’altra»: giunse alla conclusione che no, non si può, e perciò deve essere vietato contrarre debiti maggiori a quelli che possono essere ragionevolmente ripagati nell’arco della vita e che la terra deve essere considerata un bene «in usufrutto», anziché una proprietà. Gianfranco Pellegrino, docente di filosofia politica ed etica alla Luiss, ha giustamente notato che le riflessioni di Jefferson si prestano bene a due delle grandi sciagure dei nostri tempi, il debito pubblico e il riscaldamento globale.

Parlando al telefono, Pellegrino mi ha spiegato che esiste un acceso dibattito accademico sulle implicazioni, politiche e giuridiche, dell’impatto delle nostre azioni al di là del nostro orizzonte di vita: «In molti hanno provato ad argomentare quanto le decisioni attuali debbano tenere in conto le ricadute sulle generazioni future, per esempio con le scorie nucleari. È un argomento complesso e difficile da portare avanti finché non c’è un overlap tra le generazioni. Però nel caso dei cambiamenti climatici è chiaro che c’è un overlap, che stiamo parlando di una generazione che esiste già, anche se sono ancora bambini e dunque si pone la questione di chi può rappresentarli. Qualcuno invoca il “child enfranchisement”, dare il diritto di voto ai bambini, secondo il principio che chi è influenzato da ciò che si decide deve avere il diritto di votare. Altri parlano di voto ponderato: su alcune issues, il singolo voto dovrebbe avere un peso diverso in base alle stakes e dunque all’età». Tradotto, sulle emissioni di CO2, il voto di un ventenne conterebbe più di quello di quarantenne, e così via, perché più uno è giovane, più è toccato dal tema. Un dato interessante, osserva Pellegrino, è che i progressisti stanno «facendo loro un’idea conservatrice: la continuità della razza umana».

Migliaia di persone si sono riunite in piazza del Popolo a Roma venerdì 19 aprile per partecipare al corteo di Fridays For Future contro il cambiamento climatico (foto di FIlippo Monteforte/Afp/Getty Images)
Greta Thunberg parla agli studenti durante la manifestazione per il clima del 19 aprile in Piazza del Popolo a Roma (foto di FIlippo Monteforte/Afp/Getty Images)

Bene, parliamo di continuità della specie. Uno dei problemi è che siamo troppi, sette miliardi e mezzo, e continueremo a essere sempre di più: nel 2050 la popolazione globale sfiorerà i dieci miliardi, secondo le stime dell’Onu. Population Matters è un’associazione britannica che promuove il controllo delle nascite per ragioni ecologiche: il loro messaggio non è di non fare figli perché stiamo andando verso un’apocalisse climatica, ma di non fare figli, o farne meno, per evitarla. Sul loro sito, raccontano storie come quella di Kevin, che ha scelto di sottoporsi a una vasectomia all’età di 23 anni perché «ci sono troppi esseri umani nel pianeta e se voglio un bambino posso sempre adottarlo». Una loro attivista, Emma Oliff, ha detto al Guardian che preferiva essere «gravida di idee rivoluzionarie anziché di bambini». L’obiettivo, dicono, è raggiungere «un livello sostenibile di popolazione». Già, ma cosa significa? Quanti esseri umani sono troppi? Dipende, mi ha spiegato il portavoce di Population Matters, Alistair Currie, in uno scambio di email: «Consumando le riscorse e producendo emissioni di carbonio come facciamo oggi, serve una popolazione minore di quella attuale. Infatti il Global Footprint Network stima che stiamo consumando le risorse di 1,7 pianeti Terra; dunque su quella base una popolazione sostenibile sarebbe di 4,5 miliardi». E se cominciassimo a inquinare meno? «Il rapporto della EAT-Lancet Commission ha concluso che è improbabile riuscire a nutrire una popolazione di più di 10 miliardi, anche in presenza di cambiamenti fondamentali nella produzione e nel consumo di cibo».

Riprodursi è la cosa più inquinante che un essere umano possa fare. Uno studio del 2017 di cui si è molto parlato stimava che rinunciare ad avere un figlio risparmia quasi 60 tonnellate di emissioni CO2 all’anno: trenta volte più che rinunciare del tutto alla macchina e settanta, dico settanta, volte in più rispetto a diventare vegani. Al confronto, accorgimenti come riciclare i rifiuti e passare a un’auto ibrida sono trascurabili. La cifra è stata calcolata sommando le emissioni di un ipotetico figlio e dei figli che potrebbe avere e dividendo il totale per gli anni di vita dei genitori: siamo considerati responsabili del 50 per cento delle emissioni di ogni figlio e del 25 per cento delle emissioni di ogni nipote. Questo significa che non importa quanto io mi sbatta lavando pannolini di stoffa o ritirando tofu a orari improbabili: inquinerò sempre più del primo tamarro che prende il Suv per fare duecento metri.

Migliaia di studenti hanno preso parte alla manifestazionei del 12 aprile 2019 a Londra (Foto di Dan Kitwood/Getty Images)

Noi genitori siamo proprio persone orrende, peggio di chi butta la plastica nel generico. In realtà le implicazioni morali delle emissioni di CO2 non possono essere ridotte alla semplice quantità di gas pro-capite. La filosofa Rivka Weinberg, docente al Scripps College, in California, e autrice del saggio The Risk of a Lifetime: How, When, and Why Procreation May Be Permissible, mi ha spiegato che «la colpevolezza di un individuo non dipende soltanto da ciò che fa, ma anche dalle alternative che ha a sua disposizione e dal costo di rinunciare a un atto desiderato, tra le altre considerazioni». Venendo al nostro caso: «Rinunciare ad avere figli è un grande sacrificio, mentre separare la pattumieraè cosa da poco. E non riuscire a sopportare un piccolo sacrificio è moralmente peggiore che non riuscire a sopportarne uno grande». Bene, ora mi sento quasi a posto con la mia coscienza, però non riesco a non pensare che al pianeta della mia coscienza non importa nulla, una tonnellata di CO2 è sempre una tonnellata CO2.

Non tutti, poi, sono convinti dall’argomento che siamo responsabili delle emissioni dei nostri figli e nipoti. «Quello di cui siamo responsabili è crescere i nostri figli con i giusti valori, e siamo responsabili, suppongo, del semplice fatto che la nostra prole emetterà CO2. Però se, una volta adulti, inquineranno in modo eccessivo nonostante i nostri sforzi a crescerli come persone ecologicamente responsabili, questo non è una nostra responsabilità. Inoltre questo non significa che saremo responsabili per i nostri nipoti, che peraltro saranno il risultato delle scelte procreative dei nostri figli, non nostre», mi ha scritto Weinberg in una mail. Aveva mosso un’obiezione simile David Roberts su Vox: «Se io sono responsabile delle emissioni dei miei figli, allora i miei genitori sono responsabili delle mie. E se è così, io sono responsabile soltanto di quelle dei miei figli, perché altrimenti staremmo contando la stessa cosa due volte».

Studenti in marcia durante lo YouthStrike4Climate, il 12 aprile 2019 a Londra (Foto di Dan Kitwood/Getty Images)
Giovani manifestanti si riposano con i loro cartelloni (Londra, 12 aprile, foto di Dan Kitwood/Getty Images)

Un’altra critica al “non riproduciamoci perché inquina” si basa sull’idea che concentrarci sulle scelte individuali è poco efficace, e persino ingiusto, visto che i principali colpevoli del riscaldamento globale sono le grandi industrie e il modo migliore per combatterlo è convincere i governi a cambiare norme e standard. Secondo un report pubblicato dall’associazione CDP un paio di anni fa, 100 grandi società rappresentano, da sole, il 71 per cento delle emissioni del mondo. Il politologo Fibieger Byskov arriva a sostenere che gli individui sono «statisticamente senza macchia». Weinberg, la filosofa, la mette giù così: «I cambiamenti climatici possono essere combattuti solo a livello istituzionale, governativo e corporate. Le scelte individuali fanno poca differenza ed è irragionevole chiedere alla gente di non avere figli, un grande sacrificio che porterebbe a un beneficio minuscolo per l’ambiente».

Ci sarebbero almeno due ottime ragioni per evitare di fare figli nell’era dei cambiamenti climatici. La prima è che tra qualche decennio il mondo sarà un posto orribile, la seconda che figliare inquina terribilmente, dunque non fa che accelerare lo schianto. Entrambe sono riedizioni contemporanee di due questioni antiche: da un lato l’angoscia esistenzialista del perché creare nuova sofferenza, dall’altro il controllo delle nascite a fronte delle risorse finite, già invocato nel Settecento da Thomas Malthus. La novità è che, a questo giro, c’è una catastrofe dietro l’angolo ampiamente preannunciata, e il risultato è che quelle che ieri sembravano questioni filosofiche relativamente astratte oggi ci angosciano un po’ tutti. In tutta questa storia però c’è un grandissimo paradosso. Perché se c’è una cosa che ti sensibilizza sui cambiamenti climatici, qualcosa che ti fa cambiare radicalmente prospettiva, è proprio avere figli piccoli.

Magari potremmo smetterla di riprodurci tout court, così potremmo consumare le risorse della Terra fino in fondo e senza angosce, l’ultimo spegne la luce e lascia le chiavi sul comodino.

Qualcuno ha fatto notare, e non del tutto a torto, che informare il pubblico sul riscaldamento globale è praticamente inutile: non è che l’informazione non passa, è che non si traduce in cambiamenti pratici, perché sembra tutto così astratto, tutto così lontano. Insomma, uno legge il rapporto Ipcc e si mette un’ansia pazzesca, poi però continua a prendere l’automobile come prima perché ci sono tante piccole cose che sul momento sembrano più urgenti, va bene la catastrofe che incombe, però io devo sempre arrivare in orario al lavoro. Quando uno è preso dalla quotidianità, il 2050 è molto lontano. Quando si hanno figli piccoli, però, il tempo assume un significato nuovo, e il 2050 non è più così distante, è quando i tuoi bambini avranno trent’anni, è il futuro prossimo.

A volte provo a immaginarmi come guarderei il mondo se non fossi una madre. Provo ad osservare la questione dall’alto e mi domando se non sarebbe meglio chiuderla qui e porre fine alla parentesi della razza umana: magari potremmo smetterla di riprodurci tout court, così potremmo consumare le risorse della Terra fino in fondo e senza angosce, l’ultimo spegne la luce e lascia le chiavi sul comodino.  Rivka Weinberg, la filosofa, mi ha fatto notare che è un ragionamento del cazzo, perché abbiamo comunque delle responsabilità nei confronti delle altre forme di vita senziente, che ovviamente risentirebbero del nostro inquinare come pazzi, senza contare che «alcuni potrebbero sostenere che gli esseri umani sono speciali, visto che siamo capaci di moralità, pensieri profondi e grande creatività, e sarebbe moralmente problematico cancellare questo valore unico».

Quello che mi resta sono le giornate sempre più calde e una bambina piccola che ride quando c’è il sole. Me lo sono goduto tutto questo inverno che è sembrato una primavera, con gioia e gratitudine. Come il tizio di quella storiella buddista, che, inseguito da una tigre, finì davanti a un burrone e proprio lì, tra il precipizio e la belva affamata, trovò una fragola: non gli restò che assaporare la fragola.