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Incredibilmente il padiglione del Vaticano potrebbe essere il migliore della prossima Biennale di Venezia

È dai tempi di Papa Sisto IV che il Vaticano non usava l'arte per una simile operazione di softpower, potenziata anche dalla visita di Bergoglio alla Biennale, una prima volta storica.

di Riccardo Conti

Sarebbe bello immaginarsi Bergoglio arrivare alla Giudecca a bordo del suo Riva Aquarama papale e poi, per il giubilo dell’art crowd e dei fedeli vederlo apparire con quel piumino XL immacolato di cui solo le AI (per ora) ci hanno saputo fare dono. Se questa immagine da The Pope Drip rimarrà soltanto nell’etere, è però vero che Papa Francesco sarà ufficialmente il primo pontefice a visitare di persona una Biennale, in più di 130 anni di questa istituzione. Come è stato fatto intendere lo scorso 11 marzo nella conferenza stampa della Santa Sede, che ha dettagliato la visita di Bergoglio (prevista per il 28 aprile), la visita comporterà un complesso lavoro di intelligence e coordinamento per la città di Venezia in un momento già di per sé particolarmente affollato come quello che segue i giorni dell’apertura della mostra. Ma la presenza di Bergoglio è soltanto una delle soprese della partecipazione del Vaticano a questa 60esima edizione della Biennale.

La mostra dal titolo Con i miei occhi è stata annunciata dal cardinale José Tolentino de Mendonça, che oltre ad essere prefetto del dicastero per la Cultura e l’Educazione, è considerato un vero e proprio intellettuale della Chiesa e scrittore. A lui si deve senz’altro l’intelligenza delle scelte dietro questa operazione complessiva di softpower che, salvo altre soprese, si annuncia già come la partecipazione nazionale più interessante dell’imminente Biennale. Innanzitutto la location scelta è di per sé un’assoluta novità: la Casa di reclusione femminile della Giudecca, che nella sua storia fu un convento dove la Repubblica di Venezia mandava le “donne perdute”, per utilizzare fedelmente l’espressione impiegata in sala stampa. Il carcere, tutt’ora attivo, è perciò un luogo dalle particolarissime e complesse dinamiche, avendo regole di ammissione completamente diverse da quelle degli spazi dedicati all’arte. Ci vorrà infatti una réservation come ha elegantemente spiegato Chiara Parisi, abilissima direttrice del Centre Pompidou-Metz che insieme a Bruno Racine (direttore di Palazzo Grassi dal 2020) cureranno l’intero progetto espositivo. Sì, perché una delle esperienze senza dubbio più “innovative” di questo padiglione consisterà soprattutto nel visitare uno spazio contingentato dove l’incontro con le opere dell’artista avverranno senza alcuna possibilità di filtrare il proprio sguardo attraverso la lente degli smartphone e dei social: ogni device sarà trattenuto all’ingresso del carcere così come il documento d’identità, inoltre la visita potrebbe essere interdetta ad alcuni visitatori sulla base di precedenti penali.

È del resto un luogo di detenzione e di rieducazione delle donne lì ospitate, che tra l’altro saranno parte attiva del processo di creazione di alcune delle opere che gli artisti stanno ultimando in queste settimane. Non sfugge però che la limitazione di telefoni e fotocamere (proprio com’è successo per la sfilata di The Row, il brand delle gemelle Olsen, durante l’ultima settimana della moda di Parigi) si tradurrà oggi in un’esperienza quasi rivoluzionaria , perché il cambiamento tecnologico e antropologico del pubblico dell’arte per quanto rappresenti una storia piuttosto recente, ha rappresentato un cambio radicale e transgenerazionale (a tutti sarà capitato di vedere un barrage di nonne intente a mappare fotograficamente interi musei con i loro iPad) di guardare all’arte. Se quella del 2013 fu la prima Biennale “di Instagram” oggi è pressoché impossibile pensare a kermesse artistiche e visite ai musei e monumenti senza vidimare il nostro sguardo nell’iconosfera dei social.

Come hanno spiegato Tolentino de Mendonça questa scelta va nella direzione di uno sguardo meno distratto, che affiderà l’esperienza alla memoria, al raccoglimento al momento dell’incontro con le opere piuttosto che ai nostri tic digitali. Non sfuggirà a nessuno però che queste condizioni stiano già creando un certo hype attorno all’intera operazione. Gli artisti poi, individuati da Racine e Parisi, tratteggiano uno statement piuttosto chiaro su quanto l’immagine che il Vaticano voglia dare di sé quest’anno sia totalmente diversa rispetto al passato: niente di lontanamente iscrivibile in quel genere avulso da ogni contatto con il dibattito e i linguaggi del contemporaneo dell’arte sacra, sempre vagamente cimiteriale, che abbiamo visto anche in precedenti Biennali, ma una serie di artisti che per fama e per intensità della ricerca rivaleggiano con molti dei nomi che rappresenteranno i vari paesi in questa edizione, avvalendosi inoltre della partecipazione dell’über kurator svizzero Hans Ulrich Obrist che si occuperà del public program del padiglione.

Si parte dal collettivo Claire Fontaine (nell’immagine l’opera “Siamo con voi nella notte”, 2007), dal cui lavoro, Adriano Pedrosa direttore artistico della Biennale, ha preso spunto per il titolo di questa 60esima edizione: Stranieri Ovunque. C’è poi l’artista francese Claire Tabouret che realizzerà dipinti partendo dalle fotografie a lei inviate dalle detenute che le raffigurano da bambine o in compagnia delle loro madri. L’ottantenne artista libanese Simone Fattal, già invitata alla precedente Biennale curata di Cecilia Alemanni, per la Giudecca sta realizzando imponenti sculture ispirate alle poesie delle carcerate che accoglieranno i visitatori nel viale interno della struttura. E ancora, c’è spazio per il pop e anche per il vagamente tamarro con l’artista e regista italiano Marco Perego che insieme alla moglie, l’attrice Zoe Saldana (I Guardiani della Galassia, Avatar) hanno girato un corto attorno al tema del desiderio che sarà proiettato nella sala per le visite alle detenute. L’artista Brasiliana Sonia Gomes insieme al ballerino hip-hop francese Bintou Dembélé stanno invece preparando una coreografia che vedrà la partecipazione di alcune detenute.

C’è poi Maurizio Cattelan, l’artista italiano più famoso al mondo che ha al suo attivo svariate Biennali. Dopo 25 anni dalla sua partecipazione alla XLVIII Biennale di Venezia con la performance Mother, dove le mani giunte di un fachiro erano le uniche parti del suo corpo ad emergere dal suolo, per il carcere della Giudecca l’artista ha realizzato una grande opera sulla facciata della cappella del penitenziario, questa volta dedicata al “paterno”. Nel corso della conferenza stampa è stato domandato se la partecipazione di Cattelan, soprattutto in relazione alla sua famosa opera La Nona Ora (1999), la scultura iperrealista con le fattezze di Giovanni Paolo II schiacciato da un meteorite, non fosse provocatoria o poco opportuna. Ora: al di là del giornalista Rai che ha sollevato questo interrogativo, tutto il resto del mondo ormai è arrivato a comprendere con strumenti propri quanto Cattelan sia completamente inscritto nella tradizione artistica del suo secolo, del Novecento e quanto anche la Nona Ora fosse in fondo un omaggio non servile, ma spontaneo alla figura di “popestar” come quella di Wojtyła che già aveva folgorato anni prima Andy Warhol. Cattelan consolidò ancora di più l’icona Wojtyła a differenza di artisti realmente disruptive come Félix González-Torres o eroine come Sinéad O’Connor. Il Cardinale circa la partecipazione di Cattelan ha precisato, citando la grande poetessa contemporanea Adília Lopes: «l’iconoclasta / ricostruisce l’icona», suggerendo forse la migliore definizione mai accostata all’arte di Cattelan.

Sorprende, infine, il vero jolly di questa selezione: l’unica artista non vivente scelta dai curatori è Sister Corita Kent (1918-1986), una suora californiana che si impegnò in un’intensa produzione di opere grafiche contro la guerra in Vietnam e serigrafie che mischiavano pop e spiritualità, che ebbe una grande influenza su artisti e grafici degli anni Cinquanta, fu anche accusata di essere comunista e abbandonò il monastero per vivere con la sua amante.

Con la ovvia eccezione di Corita Kent, Tolentino de Mendonça ha voluto ricordare l’incontro che avvenne il giugno dello scorso anno tra gli artisti e Papa Francesco proprio nella Cappella Sistina e la raccomandazione che Bergoglio in quella sede fece agli artisti, spronandoli a lavorare pensando “ai deboli e ai poveri”. Difficilmente l’arte contemporanea riesce a esprimersi come un linguaggio e un sistema inclusivo, ma al di là di quelle parole è carica di suggestione questa “chiamata” alle armi nel luogo-simbolo del rinascimento dove Papa Sisto IV chiamò a raccolta i migliori artisti del suo tempo per contrastare sul piano delle immagini, lo stra-potere dei Medici di Firenze.

Ogni Biennale, al di là dell’ingenuità che può albergare in ogni visitatore, è da sempre uno spazio di politica e di potere: i temi scelti dal curatore (quest’anno, va detto, la conferenza stampa che ha lanciato il progetto di Adriano Pedrosa è stata assai sotto-tono) e le partecipazioni nazionali, restituiscono in tempo reale i conflitti e le crisi internazionali; per la seconda volta mancherà la Russia e, come è noto, è stata pubblicata una lettera aperta del collettivo internazionale ANGA per chiedere l’esclusione del padiglione Israeliano che ospiterà la mostra di Ruth Patir dal titolo emblematico Motherland. Perciò, ben lontano dall’essere una versione scanzonata di Jeux sans frontières dell’arte, ogni scelta ha un peso specifico ed esprime rapporti di forza politici ed economici ben precise. Celebre è il caso del Leone d’Oro che il Padiglione Americano vinse nel 1964 con Robert Raushemberg, attirando aspre critiche sulle modalità con le quali Gli Stati Uniti presentarono surrettiziamente opere dell’artista facendole transitare dal consolato americano ai Giardini della Biennale; ma con quel premio, come titolò al tempo la rivista francese Arts «A Venezia, l’America proclama la fine della scuola di Parigi e lancia la Pop Art per colonizzare l’Europa», cosa che in effetti avvenne e che poi fu estesa al sud America con la sproporzionata partecipazione degli Stati Uniti alla 9° Biennale di Sao Paulo nel 1967.

Come leggere dunque il grande impegno della Sante Sede in questa edizione della Biennale, e lo spendersi attivamente di Bergoglio, un Papa che non sta facendo mistero delle sue posizioni anti-atlantiste o quantomeno non allineate alla gran parte dei paesi occidentali? Difficile rispondere. Quel che è certo è che al momento Il padiglione della Santa Sede è già l’evento più desiderabile di questa Biennale, e anche il capolavoro artistico-diplomatico di José Tolentino de Mendonça.