Attualità

Dentro al Vaticano

Lo Stato Pontificio, al centro delle cronache mondiali, e il mestiere di raccontarlo. Incontro con Benny Lai, decano dei vaticanisti.

di Michele Masneri

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Il “decano dei vaticanisti”

È una corte, conosciuta più all’estero che in Italia, è uno stato sovrano, con le sue ambasciate, il suo governo, i suoi tribunali e il suo (piccolo) esercito, e naturalmente il suo monarca, l’unico caso al mondo, come insegnano nei corsi di diritto internazionale, di monarchia assoluta elettiva. È il Vaticano, o meglio lo Stato della Città del Vaticano, 0.44 chilometri quadrati nel cuore di Roma, lo stato più piccolo del mondo, 832 abitanti, un prodotto interno lordo di 248,5 milioni di euro. Ce lo racconta Benny Lai, il “decano dei vaticanisti” come vuole la vulgata, unico ad aver raccontato ben quattro conclavi. Giornalista professionista dal 1946, “vaticanista”, appunto, dal 1951, come dimostra il tesserino di ammissione alla sala stampa vaticana, controfirmata dall’allora Sostituto alla Segreteria di Stato vaticana, Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI. “Vaticanista” è poi una parola che ha inventato lui. «Era il 1950, vivevo a Roma, non avevo soldi, e non avevo ancora un giornale dove lavorare. Federico Alessandrini, direttore del Quotidiano, il giornale dell’Azione Cattolica e poi vicedirettore de L’Osservatore Romano, mi notò e mi chiese se mi volevo occupare di Vaticano. Gli dissi che io non sapevo neanche che cosa fosse. Cominciai a scrivere che i giornalisti che seguivano il Vaticano erano “vaticanisti”, senza sapere che lo stesso termine era stato usato molti anni prima da Crispi per definire coloro che abitavano nei palazzi vaticani». Capelli bianchi, occhi azzurri, Benny Lai, neanche tanto nostalgico, lavora al suo iMac e riceve, nella sua casa dei Parioli, frequenti telefonate di nomi un tempo mitici. Ecco, adesso suona il telefono ed è il cardinale Silvestrini. «Come sta, eminenza». Lai è un expat in Vaticano da sessant’anni. «Ero giovane, fino a quel momento avevo seguito la politica a Montecitorio. Mi resi conto che la Sala Stampa vaticana chiudeva alle due del pomeriggio. Ciò significava avere sempre le sere libere. E per me che non ero certo immune da certe tentazioni delle nottate romane, andava benissimo».

La Sala Stampa allora naturalmente era un’altra cosa, ben prima dei tempi di Navarro Valls e dei papi comunicatori. «Uno stanzone in via del Pellegrino, la via dei sarti di Roma, con un lungo tavolo nero per la lettura dei giornali, due cabine telefoniche e un angolo riservato all’usciere. Via del Pellegrino era l’antica strada dei pellegrini verso San Pietro, vicino Campo dei Fiori ed era stata voluta apposta fuori le mura vaticane da Paolo VI, che non voleva giornalisti che scorrazzassero in giro per il Vaticano. Mentre invece Giovanni XXIII li incontrava volentieri». Un rapporto non facile quello con i media, appunto prima del big bang di Giovanni Paolo II. L’esigenza di un ufficio stampa arrivò nel 1939 con la morte di Pio XI, papa Ratti, il papa dei Patti Lateranensi, per «soddisfare le numerose richieste dei giornalisti italiani ed esteri circa le prossime cerimonie del conclave», come si legge sul bollettino del neonato Servizio Stampa, 20 febbraio 1939.

Da allora molto è cambiato. Per esempio in Vaticano non c’erano vie e piazze. «Fu Montini nel 1971 a ordinare al vicecomandante dei gendarmi di mettere ordine nella toponomastica vaticana». Il Vaticano, fino ad allora, era una sorta di regno misterioso: «c’erano cortili, non piazze». Senza nome. E oggi pur con le targhe rimane il mistero su una presenza che pure è pulsante, nel centro di Roma. «Era un vecchio borgo romano, dov’erano possibili i contatti umani. Si andava a prendere il caffè insieme ai monsignori della Segreteria di Stato. Non c’erano tante tessere, passi, controlli, gendarmerie. E noi corrispondenti accreditati sempre presenti, eravamo appena quattro o cinque».

Aneddoti

Pacelli proibì alla sala stampa che si usasse il termine “champagne” – siamo nel 1953

Pio XII, Pacelli, l’ultimo papa nobile romano. Che teneva particolarmente a una privacy che ancora si chiamava segretezza, che non vedeva di buon occhio la stampa e che non voleva che si sapessero i fatti suoi al di fuori delle mura vaticane. «Una volta, negli anni Cinquanta, un nostro collega scrisse che il Papa alle ore 17, quando era a Castel Gandolfo, sentiva passare il trenino e si affacciava perché nel silenzio questo rumore si notava. Quando Pio XII lesse il giornale reagì: ‘Come oggi sanno questo particolare possono sapere anche altri particolari della nostra politica e diplomazia: puniteli’». Sempre Pacelli proibì alla sala stampa che si usasse il termine “champagne” – siamo nel 1953 – per raccontare di un piccolo ricevimento offerto dal papa ai nipoti Giulio e Marcantonio Pacelli. Segretissimo anche il decorso della malattia – «Pacelli odiava che si parlasse di lui come di un papa malato» – e tragiche le cronache del decorso, con l’archiatra pontificio, Riccardo Galeazzi Lisi, l’unico di cui il Duodecimo si fidasse, nonostante fosse poco più che un oculista. L’archiatra sbaglia tutte le cure, mentre il medico Paul Niehans tenta di salvare il papa con le famose iniezioni di cellule vive (non c’era ancora il non expedit sulle staminali). Galeazzi Lisi sarà poi il famigerato responsabile dell’imbalsamazione del papa, talmente fallimentare che mentre il corpo era esposto in Sistina, iniziò a emettere miasmi fino poi a gonfiarsi e a scoppiare, con «diversi svenimenti tra la guardia nobile e gli svizzeri». Galeazzi Lisi vendette poi anche le foto del papa agonizzante a un giornale francese. Licenziato in tronco dal Collegio Cardinalizio, radiato dall’Ordine dei Medici per comportamento indegno e bandito a vita dal Vaticano da Giovanni XXIII. Alla morte di quest’ultimo, invece, il 3 giugno ’63, tutt’altro spettacolo. «Fuori, nella piazza e in tutto il mondo la gente seguiva con trepidazione, piangeva, pregava. Noi, in Sala Stampa vaticana eravamo rinchiusi lì da tre giorni: avevamo bivaccato ininterrottamente, giorno e notte. L’annuncio fu accolto da un grido liberatorio, motivato dalla carica e dalla tensione accumulata in quella clausura».

Non solo Papi

Ma non ci sono solo i papi, in vaticano. Essendo un regno, c’è una corte, o meglio c’era, e c’è un governo. «La corte è naturalmente la più antica d’Europa, ed era suddivisa in due settori: la Cappella Pontificia forniva assistenza al papa nelle sue funzioni di capo spirituale della Chiesa cattolica, specialmente nelle cerimonie religiose; la Famiglia Pontificia lo assisteva nella sua funzione di sovrano e capo di stato. Della prima facevano parte cardinali, arcivescovi e vescovi, oltre ai principi assistenti al soglio, il titolo più alto della corte pontificia, gli unici laici ad assistere alla destra del trono pontificio alle cerimonie papali». Il titolo spettava tradizionalmente ai capifamiglia delle case Orsini e Colonna, ma dopo il famoso scandalo del 1958 in cui don Raimondo Orsini, cristianamente sposato, fu colto in fallo con l’attrice inglese Belinda Lee, la sua famiglia venne privata (dal severissimo, solito Pio XII) del titolo che teneva dal 1724 e che andrà ai Torlonia (oggi dopo la morte di don Aspreno Colonna l’unico assistente è infatti don Alessandro Torlonia). Ma poi arriva Paolo VI, brescianamente, a democratizzare tutto. «Con il motu proprio Pontificalis Domus del 28 marzo 1968, abolisce la Corte Pontificia (da allora, Casa Pontificia) e tutti gli onori. Trasforma i Camerieri di Sua Santità in “gentiluomini” (tra cui, oggi, Gianni Letta) e da allora il potere delle grandi famiglie romane, quelle stesse che nel 1929 anno dei Patti Lateranensi tennero chiusi i portoni dei loro palazzi in segno di lutto, è finito».

La segreteria di Stato

È una conversazione con Giuseppe Siri, il “Papa non eletto” che ha registrato le ultime conversazioni di questo cardinale

Della Casa Pontificia fa parte poi “il “cervello” del Vaticano: la Segreteria di Stato, «cioè il governo, l’esecutivo». Luogo di finezze diplomatiche ormai escluse dai governi repubblicani, almeno così sembra trasparire dai racconti di Benny Lai: «Viatico di monsignor Palazzotti che entrava a far parte dei funzionari vaticani: il Vaticano sta allo stato maggiore di un esercito come la parrocchia alla prima linea. L’azione eroica che puoi trovare sul campo è assurdo cercarla nello stato maggiore, che è il cervello delle operazioni, quindi raziocinio. La purezza di cuore non disgiunta dall’ingenuità è virtù sul campo e deficienza per il raziocinio. Ma ricordarsi che stato maggiore e prima linea operano per lo stesso scopo». La Segreteria è quella che fa la politica del Vaticano, che è soprattutto politica estera. «È anche una grande scuola per fare i papi. Grandi segretari di stato diventati papi: Pio IX, Pio X… Pacelli, Montini. Gli ultimi due papi invece non hanno fatto questa scuola. Lai mette su un mp3 sul suo iMac. E’ una conversazione con Giuseppe Siri, il “Papa non eletto” secondo il titolo di una famosa biografia scritta dallo stesso Lai, che ha registrato le ultime conversazioni di questo cardinale che per tre conclavi è stato il papabile. Considerato grande politico e grande diplomatico. Una voce stentorea esce dal computer. “il Segretario di Stato è una figura necessaria… serve adeguatezza ai posti… perché non tutti hanno studiato da papi». «Infatti la caduta del comunismo l’ha fatta il cardinale Casaroli, mica Paolo VI e Giovanni Paolo II. L’Östpolitik del Vaticano l’ha fatta lui, Wojtyla se l’è trovata bell’e pronta». Gli ultimi due papi non sono stati neanche nunzi – altra scuola di politica e di cortigianerie, a cui pure avevano studiato anche un insospettabile papa buono (Giovanni XXIII, nunzio in Grecia, Turchia, Francia). Ormai conquistati alla causa, si chiede al vaticanista: ma come si può fare, se non il papa, almeno il (forse più affascinante) Segretario di Stato? «Intanto studiare alla Pontificia Accademia Ecclesiastica, già Accademia dei Nobili Ecclesiastici. Due anni di “master”(dopo la laurea in diritto canonico) con studio delle lingue, storia, relazioni internazionali. È in piazza della Minerva, a Roma». Ottima dunque anche come location. Ma – serve essere sacerdoti – abbandonando i propositi diplomatici, per entrare semplicemente in Vaticano, da turisti? «Non si può. Serve un visto, e non è concesso facilmente. La Gendarmeria vaticana non fa passare. Un trucco però c’è. Munirsi di ricetta, e andare alla famosa farmacia vaticana, dove si trovano tutti i medicinali, anche quelli più introvabili».