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Belfast e le memorie dei registi

L'ultimo film di Kenneth Branagh è un'autobiografia, un racconto della sua infanzia in Irlanda che fa pensare a Roma di Cuarón e a È stata la mano di Dio di Sorrentino.

25 Febbraio 2022

Su Vulture, Bilge Ebiri ha scritto che Belfast è un film coraggioso perché ci ricorda che «la vita va avanti». È vero: non è facile fare un film disimpegnato in un epoca in cui ogni cosa è posizionamento. Quella di Ebiri è una banalità che descrive però alla perfezione un film banale come solo certi racconti autobiografici sanno essere: banali perché esperienze collettive e per questo rassicuranti, consolatorie, necessarie, dolci, calde.

Belfast è l’autobiografia del suo regista, Kenneth Branagh, che a nove anni lasciò la capitale dell’Irlanda del Nord per trasferirsi a Londra assieme alla sua famiglia. L’anno era il 1969, i Troubles stavano per cominciare (o ricominciare, a seconda della lettura che si dà della storia locale), tutti gli irlandesi si chiedevano come fare per assicurarsi che la vita andasse avanti. La famiglia di Branagh decise che la vita sarebbe proseguita in Inghilterra, dove suo padre faceva l’operaio e già passava la metà del tempo. Belfast, ormai, non è più sicura: le macchine cominciano a prendere fuoco e le vetrine a infrangersi, si comincia a pretendere che un protestante viva con fastidio il vicinato con un cattolico e contribuisca attivamente alla “causa”. Per gli irlandesi, l’emigrazione è un’esperienza talmente comune da diventare identità: spesso si parla di diaspora, degli irlandesi nel mondo che sono più di quelli in Irlanda. In uno degli scambi più riusciti del film, una donna di Belfast dice a un’altra che se gli irlandesi non emigrassero, nel resto del mondo non ci sarebbero i pub. E il mondo è pieno di pub, invece. «Tutto quello che ci serve per sopravvivere è un telefono, una pinta e lo spartito di “Danny Boy”», spiega la donna, raccontando le abitudini sia di quelli che restano che di quelli che vanno via. Che è un altro modo di dire che la vita va avanti, ma spesso a fatica, talvolta con dolore, sempre con nostalgia. «So come back Billy, won’t you come on home?/Come back Mary, you’ve been away so long/The streets are empty, and your mother’s gone/The girls are crying, it’s been oh so long/And your father’s calling, come on home/Won’t you come on home, won’t you come on home?», cantavano i Simple Minds in “Belfast Child”.

Il protagonista di Belfast è, appunto, un bambino, e quindi il film non può che essere una storia di nostalgia. Il bambino si chiama Buddy ed è interpretato da Jude Hill, che ha il ciuffo spettinato e i denti grandi che mettono di buonumore, un viso e una voce che, grazie anche al bianco e nero, fanno venire in mente i bambini-prodigio del cinema hollywoodiano della prima metà del Novecento. «Ne ho avuto abbastanza di Dio per oggi», dice a un certo punto del film, ponendo fine alla guerra tra Cattolici e Protestanti. Buddy viene da una famiglia protestante ma è innamorato di una compagna di classe che è cattolica: in questo film i Troubles appaiono e scompaiono così, come appaiono e scompaiono tutti i problemi della vita di un bambino. Buddy è Kenneth Branagh, che attraverso di lui mette in scena la sua nostalgia, il suo desiderio per i giorni vissuti prima che la vita andasse avanti. Belfast è un film quintessenzialmente irlandese, quindi pieno di telefoni, pinte, spartiti di “Danny Boy”, pezzi di Van Morrison, gente che balla per la strada e padelle in cui sfrigolano gli ingredienti dell’irish weekend fry-up, gioia e malinconia, privazioni ed esagerazioni. In parti uguali commedia e tragedia: la commedia è Buddy che partecipa suo malgrado al saccheggio di un negozio, riporta a casa una confezione di detersivo e prova a giustificarsi dicendo che «è ecologico». Il dramma è sua madre che rischia la vita sua e del figlio pur di insegnare a quest’ultimo come si fa la cosa giusta. Attraverso Buddy, Branagh mette in scena la sua infanzia e quindi la sua famiglia, i suoi genitori, i suoi nonni. Per estensione, una comunità intera contenuta tutta in una strada, unita sempre dallo stesso dubbio, il dubbio degli emigranti: stare con chi resta, unirsi a chi va via, rischiare di finire tra quelli che si perdono. Uno scenario influenzato anche dalle settimane di lockdown, dai ricordi del passato che inevitabilmente si mescolano alle sensazioni del presente. «Questo periodo è stato per me il momento di introspezione che negli ultimi anni non mi ero mai potuto permettere», ha detto Branagh.

In Belfast, ai personaggi principali non viene dato nemmeno un nome: sono Pa’ (Jamie Dornan, all’interpretazione che speriamo gli stacchi finalmente di dosso l’etichetta di “quello di 50 sfumature), Ma’ (Caitríona Balfe), Pop (Ciarán Hinds, candidato all’Oscar nella categoria “Miglior attore non protagonista”) e Granny (Judi Dench, candidata al premio per la migliore attrice non protagonista), il mondo visto dal punto di vista del bambino, tant’è che in più di un’intervista Branagh ha raccontato che una delle sfide tecniche di questo film è stata trovare il modo di tenere la cinepresa sempre “in basso”, posizione necessaria per forzare l’immedesimazione con lo sguardo di Buddy. Pa’ è l’uomo più bello e più forte del mondo, oggetto delle uniche esagerazioni estetiche di un film altrimenti discretissimo, l’esempio migliore di quell’impostazione teatrale dell’immagine e della messa in scena che Branagh predilige sempre e comunque quando si allontana dalle grandi produzioni. In Belfast ci sono scene in cui Jamie Dornan sembra alto dieci metri e altre in cui diventa Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, solitario nelle stradine di Belfast mentre affronta i teppisti di sempre che approfittano di una guerra nuova per nobilitarsi come soldati di Dio, in sottofondo la voce di Tex Ritter. Ma’ è la donna più forte e fragile della città, protagonista delle scene che sono il centro emotivo del film: quelle in cui deve decidere se lasciare Belfast e far continuare la vita in un posto in cui nessuno capisce il suo dialetto, quelle in cui scopre la verità sui debiti che la famiglia deve ancora restituire, quella in cui salva il figlio dalle sassaiole, dalle molotov, dalle spranghe, quelle in cui si riappacifica con Pa’ ballando sulle note di Everlasting love (una scena talmente bella che su Internet si è diffusa la teoria che non sia vera, che sia soltanto un sogno di Buddy o di Branagh). Pop e Granny sono i due vecchietti più divertenti e innamorati di tutta Belfast, lui ha sempre una perla di saggezza da regalare al nipotino e lei ha sempre pronta una battuta per ridurre quella saggezza a cialtroneria.

Kenneth Branagh è ormai un uomo di mezza età e come tanti altri uomini di mezza età tende a essere l’oggetto delle sue stesse riflessioni: è la ragione per la quale Belfast è un’opera personale che non potrà che deludere chi si aspetta, chi pretende una presa di posizione storico-politica. Negli ultimi anni sono stati tanti i registi della generazione di Branagh che si sono concessi la passeggiata lungo il viale dei ricordi: ha cominciato Alfonso Cuarón con Roma, Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio si è guadagnato la seconda nomination all’Oscar, Branagh di candidature, con Belfast, ne ha raccolte addirittura sette (tra cui quella per il miglior film e per la miglior regia). A un certo punto della loro vita, tutti hanno deciso di o sono stati costretti a “disunirsi”, come urla Antonio Capuano nella scena madre di È stata la mano di Dio. A un certo punto della loro vita, tutti hanno deciso di tornare, anche soltanto in parte, anche solo per poco. «Il desiderio di scrivere qualcosa su Belfast me lo porto dentro sin da quando ho lasciato la città, perché fu una tale rivoluzione nella mia vita, che trovare la maniera di raccontarla, per usare un cliché, era per me una cosa fondamentale», ripete Branagh a tutti quelli che in questi mesi gli hanno chiesto perché proprio questo film, proprio adesso, proprio così.

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