Attualità

Be Berlin

Reportage dalla metropoli più cool, economica, creativa e contradditoria d’Europa, ogni giorno più ricca ma non per questo più immobile.

di Cesare Alemanni

BERLINO – A prima vista Sankt Oberholz non offre molto di diverso rispetto a tanti altri Caffè di Berlino: arredamento curato, servizio amichevole e prezzi ragionevoli sono infatti la regola da queste parti. La clientela è perlopiù under-30 e confortevole nella propria hipness. Niente di strano trovandoci a un angolo di Rosenthaler Platz, sul confine tra la centralissima Mitte e il sofisticato Prenzlauer Berg, dove l’incontro di un sessantenne è da appuntare alla voce «avvistamenti» e la cura posta dai giovani al proprio vestiario è uno dei fattori omologanti più smaccati. Nemmeno stupisce la frequenza con cui da borse e zaini emergono iPad e MacBook: il Wi-Fi è di casa nella maggioranza dei locali ed è una pratica diffusa utilizzare i bar per lavorare in solitudine al proprio desktop. Nondimeno proprio questo mix tra centralità della location, qualità dei servizi e tecnologia fa di Sankt Oberholz un ambiente un po’ speciale, un polo magnetico e una metafora tangibile delle direzioni prese negli ultimi anni da Berlino in campo economico, sociale e culturale. Tra un Kappuccino e una videoconferenza su Skype qui convergono infatti alcuni dei giovani imprenditori europei di maggiore successo nel campo delle applicazioni per Web e Mobile a livello globale: una nuova generazione di ’start-uppers’ che ha guadagnato a questa fetta di città il nome di Silicon Allee (Allee: {f}. Viale). É da “St. O” che il corrispondente in Germania di Techcrunch – uno dei siti più letti al mondo tra quanti seguono l’innovazione tecnologica – si accomoda quando desidera fare qualche domanda ad Alexander Ljung, trentenne inglese cresciuto in Svezia che ha scelto Berlino come quartier generale di Soundcloud, una Web company per la condivisione musicale che conta dieci milioni di utenti e oltre cento dipendenti ed è la punta di diamante della scena tech del Brandeburgo. Una scena popolata da giovani creativi, IT e manager provenienti da tutto il mondo che, al pari di molti altri entrerprenaurial cluster attivi da queste parti (per esempio quello legato alle tecnologie ’green’), sta iniziando ad attirare l’attenzione degli investitori internazionali e a iniettare nuovi flussi di capitale nelle vene della città – si parla di 136 milioni di euro soltanto nel primo trimestre 2011.

«A lungo Berlino é stata un luogo eccezionale in cui vivere ma, purtroppo, un posto pessimo per fare affari. Ora però le cose stanno cambiando.»

Nel luminoso loft al 109 di Torstraße che fa le veci di sede temporanea di Earlybird, l’agenzia d’investimenti specializzata in Web start-up per cui lavora, Ciaran O’Leary mi racconta che: «A lungo Berlino é stata un luogo eccezionale in cui vivere ma, purtroppo, un posto pessimo per fare affari per via della grande povertà di capitali che esisteva. Ora però le cose stanno cambiando. Per quanto riguarda il campo delle App, anche grazie alla semplicità e all’economicità con cui è possibile avviare un’impresa, la città sta realmente diventando uno snodo internazionale sia dal punto di vista delle dimensioni degli investimenti sia da quello dell’ambizione dei prodotti. Ed è per questo che abbiamo deciso di spostare l’80 per cento della nostra sede tedesca da Amburgo a qui. La scena é ancora molto giovane ma sono convinto che in un futuro prossimo potrà rivelarsi un asset economico importante per Berlino, in grado di creare migliaia di posti di lavoro in linea con il cambiamento più generale della Germania, da un paese basato sulla produzione di beni a uno basato sullo sfruttamento di knowledge molto specifici. Anche se per carenze di comprensione dell’industria digitale, le autorità locali e gli investitori istituzionali non hanno ancora colto completamente la sua portata (Berlino è al secondo posto nel mondo dopo la Silicon Valley per numero di nuove start-up tecnologiche che nascono ogni anno ndA) credo che in futuro questa scena giocherà un ruolo di primo piano nel rendere la città più ricca ed economicamente rilevante».

Già, la ricchezza. A più di venti anni dalla caduta del Muro (“die Wende”: La Svolta), la definizione di ’Povera ma sexy’, elargita nel 2003 dal tuttora sindaco Klaus Wowereit, inizia a stare stretta a una metropoli che, dal 1993, è tornata a essere la capitale della nazione più produttiva e potente d’Europa ma anche l’unica, tra le grandi capitali del continente, a “vantare” un PIL pro capite più basso (32.000 a 38.000 €. In crescita) e un tasso di disoccupazione più alto (12,7 contro 6,6. In diminuzione ) della media nazionale. Senza dimenticare un debito pubblico intorno ai 50 miliardi di euro, il più elevato tra tutte le città tedesche, che l’ha spinta più volte sull’orlo dell’emergenza fiscale. Riuscire a mantenere condizioni di vita sufficientemente economiche e seducenti da allettare tanto i turisti occasionali (Berlino è la terza città europea più visitata all’anno, dopo Londra e Parigi) quanto i nuovi residenti (meglio se portatori di qualche talento monetizzabile) e rendere Berlino al contempo abbastanza stabile e strutturata per accogliere investimenti di tipo corporate ed emanciparsi così dall’assistenza delle casse statali, che mette la città in una posizione “complicata” agli occhi del resto della Germania, è la sfida che i Berliner stanno affrontando fin dai tempi dell’unificazione.

È l’unica, tra le grandi capitali del continente, a “vantare” un PIL pro capite più basso e un tasso di disoccupazione più alto della media nazionale.

Non senza alterne fortune, se è vero che i primi tentativi, compiuti tra la metà degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, di restaurare la grandeur prussiana hanno dato esiti molto al di sotto delle aspettative. È sufficiente recarsi a Potsdamer Platz e osservare le vestigia simboliche di quell’epoca, nella forma di grattacieli e architetture avveniristiche disegnate da alcune delle più celebri matite del mondo (Piano, Kollhof, Jahn), per tornare al periodo in cui Berlino, ritrovato lo statuto di Bundeshauptstadt della Germania, presunse con troppo ottimismo di poter occupare rapidamente anche quello di capitale economica della Mitteleuropa, adescando – con la spinta della politica da una parte e il fastidio di larghe fette dell’opinione pubblica dall’altra – grandi capitalisti tedeschi e mondiali come Mercedes e Sony, i quali acquistarono vaste sezioni di quelle strutture. Bastarono tuttavia pochi anni per capire che le cose non stavano andando così, che l’atteso fiume di denaro non sarebbe arrivato, che appena otto delle cinquecento maggiori imprese tedesche avevano spostato il loro quartier generale in città, che tra l’89 e il ’98 erano andati bruciati 270.000 posti di lavoro nel settore industriale (quasi tutti all’Est) e che le finanze erano in stato comatoso. Che, insomma, Berlino avrebbe dovuto costruirsi, tramite altre vie meno fastose, una strada per il proprio rilancio. E fu così che da buoni tedeschi, i berlinesi fecero quello che i tedeschi sanno fare meglio. Pianificarono.

Fino a undici anni fa Berlino era divisa in ventitre Bezirke, ovvero distretti, ognuno dei quali poteva vantare una propria assemblea eletta e un proprio amministratore di quartiere; nel 2001 si è deciso di portarli a dodici in quanto era troppo oneroso mantenerli così numerosi. Tra questi Bezirke, quello di Charlottenburg è uno dei più benestanti e politicamente conservatori. Rispetto ad altre zone della città dotate di una forte identità, i paraggi qui hanno qualcosa di più genericamente teutonico: potremmo trovarci ad Amburgo, Colonia o Francoforte. In piena Charlottenburg, al numero 85 di Lasanenstraße, al terzo piano di un imponente edificio ovale in vetro e acciaio che ricorda vagamente un’astronave aliena pronta al decollo ci sono persone che di lavoro fanno proprio ’quelli che pianificano’. Ne incontro una: Cristoph Lang. Cristoph, un uomo nei suoi quaranta che oggi porta un gessato grigio su grigio e i capelli brizzolati tenuti molto corti, è il direttore della comunicazione di Berlin Partner: un’agenzia privata che opera in stretta sinergia con le istituzioni pubbliche. Fondata nel 1994 (con il nome, più local, di Partner für Berlin) oggi conta oltre 160 soggetti associati, inclusi la Camera di commercio locale e Deutsche Bank, e principalmente si occupa di definire e rendere sempre più appetibile l’immagine di Berlino e di semplificare la vita di chi ha intenzione di investire o di intraprendere delle attività in città, tramite un’ampia gamma di servizi che comprende, tra l’altro, la completa consulenza per le pratiche legali e l’assistenza nella ricerca di uffici e personale. Berlin Partner ha anche curato le due maggiori campagne di place marketing degli ultimi 15 anni: l’ormai storica “Das Neue Berlin” e l’attuale “Be Berlin”. Come nel loro logo e sulle loro brochure, anche negli uffici di Berlin Partner i colori predominanti sono il rosso e il bianco, gli stessi che compaiono sullo stemma cittadino. Mr. Lang mi fa accomodare in una meeting room occupata da un lungo ed esile tavolo da riunioni in legno chiaro, con il centro presidiato da una disposizione ordinata di bevande, zollette e brocche di caffè e alla fine dell’intervista scompare un attimo nel suo ufficio per riemergerne con un voluminoso plico di depliant in lingua inglese che illustrano le ultime iniziative di “Be Berlin”, la campagna lanciata nel 2008 per enfatizzare l’apertura al cambiamento della città e dei suoi abitanti.

«In un certo senso l’intera Berlino è una sorta di start-up. Non sai esattamente dove sta andando ma senti che sta andando in una buona direzione.»

La ragione per cui ho voluto incontrare uno di questi professionisti della pianificazione è che probabilmente nessuno meglio di loro può dirmi dove sia diretta la città all’intersezione tra business, sviluppo urbano, cultura e turismo e aiutarmi quindi a chiarire un mio dubbio circa un punto: ovvero se una Berlino più ricca e strutturata non corra il rischio di diventare una Berlino meno creativa e liberale, qualità a cui deve la sua fama nel mondo (un dubbio sollevato lo scorso autunno anche della Berliner Zeitung: «Il dramma di Berlino é che la sua ricchezza creativa è inseparabile dalla sua povertà economica»). Herr Lang mi fa capire che non percepisce questa eventualità come un pericolo, anzi: «Probabilmente Berlino diventerà più ricca, e questa è innegabilmente una buona cosa, e leggermente più “expensive” (tra il 1999 e il 2009 il prezzo medio degli affitti é cresciuto del 30 per cento, restando comunque tra i più bassi d’Europa, ndA) ma di certo non sarà meno ’sexy’, semmai il contrario visto che, tutto sommato, non c’é niente di ‘sexy’ nell’essere poveri. Proseguiremo a lavorare per far sì che la qualità della vita e dell’istruzione proposte da Berlino continuino a portarci alcune delle migliori menti creative e dei migliori studenti del mondo. Il talento delle persone che vengono qui è uno dei nostri principali asset. Non avendo grandi capitali non possiamo attirare il talento con i soldi, come altre grandi metropoli e aree del mondo e quindi dobbiamo puntare a offrire qualità. Dopodiché, una volta che hai raggruppato tanto talento, è questo a portare gli investimenti: esattamente quello che sta accadendo ora. Dubito però che questo ci renderà necessariamente meno “aperti” e dinamici. Berlino è ancora una metropoli molto giovane e, storicamente, l’unica cosa stabile che l’ha caratterizzata é stato appunto il cambiamento». Gli stessi concetti echeggiano anche in un pensiero del già citato Alexander Ljung: «In un certo senso l’intera Berlino è una sorta di start-up. Si muove rapidamente, è caotica. Non sai esattamente dove sta andando ma senti che sta andando in una buona direzione. E questo è ciò che si prova quando si fa parte di una start-up».

Non tutti però sono così entusiasti circa il sentiero intrapreso dalla città. Quelli che un tempo erano i Berlinesi dell’Est, per esempio, nati e cresciuti dalla parte sconfitta della Storia, sperimentano ancora oggi una disoccupazione di massa difficilmente risolvibile nel contesto di un’economia post-industriale e di unaknowledge society che, per la sua stessa natura, coinvolge soltanto professionisti altamente qualificati e perlopiù residenti nelle zone centrali della città. «A chi non ha particolari qualifiche, Berlino offre comunque molti posti di lavoro. Per esempio nel settore del turismo e della vita di quartiere», assicura Mr. Lang. In assenza di un piano industriale, forse persino anacronistico, e di una consolidata rete di PMI restano solo il turismo e il piccolo commercio ad assorbire la domanda d’impiego di alcune delle periferie cittadine. Per chi non riesce ad accedere nemmeno a essi, l’ “ultima chiamata” é quella del Welfare che qui funziona bene ma presenta alcune cifre allarmanti: a fine 2009 circa 600.000 residenti (170.000 dei quali minorenni) vivevano di aiuti nel quadro di Hartz IV, la riforma del mercato del lavoro e dello stato sociale promossa tra il 2003 e il 2005 dal governo Schroeder che, a seconda delle casistiche, prevede l’accredito di un assegno mensile fino a una cifra massima di 374 euro per persona, oltre a un alloggio pubblico garantito dallo Stato (nel caso di coppie con figli a carico la cifra viene versata singolarmente a tutti i membri della famiglia).

Passeggiare la sera per Marzahn, profonda periferia Est, è un’attività sconsigliata ai non tedeschi, a causa dei sentimenti di xenofobia che vi hanno trovato un terreno fertile.

Per cercare di sollevarsi, almeno in parte, dagli ingenti costi di un assistenzialismo tanto oneroso, nel periodo 2007 – 2013, il Comune di Berlino ha attivato dei Fondi Sociali Europei, spesi per organizzare programmi di formazione in grado di dare qualifiche minime e versatilità professionale a chi si trova senza lavoro. In presenza di una disoccupazione giovanile che nelle aree più disagiate supera il venticinque per cento questo però non sembra essere stato sufficiente a frenare l’emergere, negli ultimi vent’anni, di populismi ed estremismi politici in alcuni dei Bezirke più critici e colpiti dall’assenza d’impieghi. Non è un segreto che passeggiare la sera per Marzahn, profonda periferia Est, è un’attività sconsigliata ai non tedeschi, a causa dei sentimenti di xenofobia che vi hanno trovato un terreno fertile. Per le formazioni di giovani neo-Nazi di Berlino il nemico numero uno sono, come quasi ovunque, gli immigrati e in particolare i turchi (Berlino è la seconda città con più turchi al mondo, dopo Istanbul), specialmente localizzati nel quartiere di Neukölln – zona sud della città – dove si celebrano più matrimoni tra turchi che tra tedeschi. L’assortimento retorico contro l’immigrato è quello ben noto: lavoro, donne, criminalità, valori, religione e di certo non ha avuto effetti distensivi un’esternazione del Premier turco Recep Erdoğan, nel corso di una visita ufficiale ad Angela Merkel nel marzo 2011: «I turchi in Germania devono integrarsi economicamente ma non farsi assimilare culturalmente». Facendo leva su queste asprezze, la scorsa estate, l’Npd, un partito di estrema destra attivo dal1964, ha destato scandalo con un manifesto elettorale che ritraeva Udo Voigt – ex leader del partito ed ex consigliere nel distretto berlinese di Treptow-Köpenick – a bordo di una moto di grossa cilindrata accompagnato dalla scritta «Dare gas!». Il doppio senso non é sfuggito a nessuno e il manifesto è stato immediatamente censurato. Il fastidio di alcune minoranze di berlinesi per gli stranieri può tuttavia assumere anche contorni più sfumati e fare capolino in contesti sociali meno duri di Marzahn. Una lamentela diffusa tra i residenti storici di alcune aree della città é quella che riguarda i cosiddetti Party-Touristen, una categoria che nella mente di chi ne fa uso include tanto i giovani Easyjetters che trascorrono un solo week-end low-cost a Berlino (ormai quasi il doppio dei visitatori a più lunga permanenza), magari con la speranza di passare la notte al Berghain – il gigantesco e celeberrimo club ricavato all’interno di una vecchia centrale elettrica – quanto i giovani studenti e professionisti stranieri che si fermano per qualche mese o più. Per tutti i capi d’accusa sono gli stessi: fare chiasso fino a tarda notte, produrre un eccesso di rifiuti e, soprattutto, far lievitare il prezzo degli affitti e il costo della vita nelle aree più economiche della città. Anche per questo, nel civilissimo Prenzlauer Berg – un tempo a Est del Muro, oggi uno dei quartieri di maggior richiamo di Berlino – può capitare di imbattersi in un vecchio bar, risalente a prima dell’unificazione, il cui gestore si rifiuta di servire gli stranieri a meno che non siano accompagnati da un volto di fiducia.

«Quando sono arrivato qui per la prima volta, Prenzlauer Berg era letteralmente un ammasso di case in rovina, in alcuni edifici mancavano le finestre e si vedevano ancora i segni dei proiettili sparati durante la Seconda Guerra Mondiale. Le strade non erano illuminate e in certi casi non arrivavano né acqua né riscaldamento» mi racconta James Guerin. James è un irlandese energico e simpatico sulla quarantina, nato nel Galway e trasferitosi a Berlino diciassette anni fa da Londra. Laureato in ingegneria architettonica è venuto qui senza un’idea precisa di quello che avrebbe fatto. Oggi è una delle persone più facoltose del Mitte, colleziona pezzi originali di Banksy e altri famosi Street-artist e, insieme al suo gatto Gomez, abita a Prenzlauer Berg, in un edificio che ha costruito in luogo di una vecchia fabbrica di cioccolato e dove si é riservato un loft su due livelli con un piccolo cinema al suo interno. Per rilassarsi legge poesie di Carver e ascolta i dischi di Elliot Smith. Gli uffici della sua società di sviluppo immobiliare, la Natulis, occupano gli ultimi piani di un palazzo in pieno centro da cui si vede tutta la città e si ha la sensazione di poter toccare con mano Alex, la torre delle comunicazioni che è uno dei più celebri simboli di Berlino. Tramite Natulis, James riqualifica palazzi e aree dismesse per edificarvi complessi residenziali di alto profilo. Segue progetti in tutto il mondo, da Milano a Shangai. A volte prima di abbattere uno degli stabili che vuole ricostruire organizza al suo interno happening artistici temporanei. È il primo milionario che conosco a guidare una Maserati con ai piedi delle Converse di diverso colore oltre che la persona giusta con cui parlare di gentrificazione: quel fenomeno per cui l’arrivo di artisti prima e professionisti creativi poi, attratti dai bassi affitti iniziali, cambia il volto di un quartiere e rapidamente la macelleria o il verduraio di zona vengono soppiantati da cool-bar e piccole gallerie, con il risultato di portare persone sempre più benestanti e investimenti sempre più considerevoli che producono un’impennata degli affitti e delle offerte d’acquisto, rendendo impossibile agli autoctoni permettersi di continuare a vivere nel loro vecchio quartiere. A partire dalla caduta del Muro questo fenomeno ha rappresentato una costante di Berlino tanto che, ogni X mesi, una delle curiosità più trasversali in città è proprio quella che risponde alla domanda «A quale zona toccherà adesso?».

La gentrificazione è una delle principali ragioni per cui molti residenti guardano con poca simpatia i giovani stranieri che si spostano ad abitare nel loro quartiere.

Gli ultimi quattro o cinque sono stati gli anni ruggenti della ’turca’ Neukölln che attrae sempre più giovani grazie ai caffé di Weserstraße. I prossimi, dice qualcuno, saranno quelli di Wedding, nella periferia nord. Quando accenno a questa possibilità, Mr Guerin mi guarda con l’espressione di chi sta pensando ’Non credo proprio’ e poi aggiunge: «Io punterei più sulla zona intorno ad Hauptbanhof e Hamburger Banhof, stanno succedendo cose interessanti laggiù». La gentrificazione è una delle principali ragioni per cui molti residenti guardano con poca simpatia i giovani stranieri che si spostano ad abitare nel loro quartiere. Il loro arrivo implica un potenziale pericolo, tanto che, negli ultimi mesi, in alcuni Bezirke, si sono verificati degli atti di piromania contro la proprietà che sono stati associati all’insofferenza per il fenomeno. Una delle prime zone a venire gentrificata, all’inizio degli anni ’90, è stata proprio Prenzlauer Berg. Principalmente perché era abbastanza vicina al centro e l’emigrazione di molti dei suoi residenti originali verso altre città dell’Ovest aveva lasciato un numero enorme di appartamenti vuoti, rapidamente occupati dietro il pagamento di una ridicola somma mensile o, a volte, anche di nessuna. Intorno a Prenzlauer Berg si concentrò così ben presto una nuvola di squatter e artisti, alcuni dei quali hanno fatto la storia della recente arte contemporanea tedesca e dato involontariamente vita all’hype del quartiere. Abbastanza ironicamente, oggi molti di loro, ormai non più giovanissimi, sono gli stessi Bohémien Bourgeois in prima linea contro le nuove ondate edilizie che si riversano sulla zona. James si è trasferito da queste parti proprio intorno a quel periodo di fermento e lo ricorda con un po’ di nostalgia ma a chi si oppone alle trasformazioni del “panorama” immobiliare contrappone una logica molto pragmatica: «È stato senza alcun dubbio un momento irripetibile per quanto riguarda le energie creative, ma era chiaro che non sarebbe potuto durare per sempre. Le condizioni in cui si viveva erano insostenibili sul lungo termine, mancava tutto, non c’erano nemmeno i lampioni in strada. Se passeggiavi di notte non riuscivi letteralmente a distinguere il profilo della tua mano a trenta centimetri di distanza. Era ovvio che prima o poi qualcosa sarebbe stato fatto e che il quartiere non poteva restare in quelle condizioni. Io la vedo semplicemente così, in un certo senso Prenzlauer è cambiato esattamente come sono cambiati i suoi primi occupanti. Non abbiamo più vent’anni e molti di noi con il tempo sono diventati artisti affermati, musicisti famosi, giornalisti importanti o businessman come me. Il quartiere é cambiato, e noi con lui. E viceversa». Mentre lo ascolto sorseggiamo un Vodka Mule da Soho House, un club inaugurato nel maggio del 2010 riservato ai soli membri e ai loro ospiti che è presente anche in altre grandi città del mondo. Per essere accettato come socio si deve contare qualcosa e superare una selezione basata essenzialmente sulla convivialità («Per tante ragioni, a Berlino un posto del genere sarebbe stato impensabile fino a solo pochi anni fa» mi fa sapere James). Gli iscritti vengono qui a leggere, lavorare o a rilassarsi chiacchierando e per questo l’uso del cellulare è bandito in quanto comportamento asociale. Al piano interrato c’è una SPA, all’ultimo una piscina con vista su tutta Mitte, nel mezzo un lounge bar in stile newyorkese e un albergo da quaranta stanze. All’ingresso, su un lenzuolo bianco di un paio di metri è disegnato uno squalo con la firma di Damien Hirst in calce. «È una specie di presa in giro del famoso squalo sotto vetro di Hirst?» chiedo al mio accompagnatore. «In realtà l’ha fatto Damien in persona. Era qui per l’inaugurazione».

La controversia intorno alla gentrificazione non si limita però a una schermaglia tra idealisti, nostalgici di una supposta epoca dell’oro, caratterizzata da una maggiore autenticità e pragmatici convinti dell’ineluttabilità del cambiamento. Sempre di più, negli ultimi tempi, il tema è diventato un vero e proprio banco di prova politico, capace di muovere equilibri elettorali e far scricchiolare coalizioni all’interno del governo cittadino; in particolare da quando un articolo molto discusso è apparso nel febbraio 2011 sulle pagine di Der Spiegel e ha offerto all’opinione pubblica una prospettiva inedita e più allarmante da cui guardare il problema. Quella cioè delle persone che, a causa di questo fenomeno, sono costrette a trasferirsi lontano dal centro, all’interno di complessi di edilizia pubblica contraddistinti da malesseri sociali sempre più acuti. Il pezzo è riuscito a urtare la sensibilità politica di molti anche perché raccontava storie di violenza, alcolismo e tossicodipendenza sotto i 13 anni e l’autore concludeva chiedendosi se non si corra il rischio che le periferie di Berlino finiscano come le Banlieues parigine. Nonostante contenesse anche un attacco diretto al sindaco Wowereit, per la vendita di oltre 110.000 appartamenti pubblici a privati (è sempre più diffusa la tendenza di italiani, greci e spagnoli di acquistare casa a Berlino, come bene rifugio a prezzi relativamente stracciati) e diverse accuse di aver governato il settore immobiliare solo per rimpinguare le finanze cittadine, ignorando uno degli storici principi guida dell’urbanismo berlinese, e cioè quello di preservare il più possibile un buon mix sociale in ogni quartiere per scongiurare fenomeni di segregazione; nonostante tutto questo, il 18 ottobre 2011, la Spd si è riconfermata il primo partito di Berlino (anche se con un – 2,5 % rispetto a cinque anni prima) e Klaus Wowereit il suo primo cittadino, giungendo così al terzo mandato consecutivo dal 2001. A subire il maggiore danno politico è stata Die Linke (letteralmente: “La Sinistra”) che ha lasciato sul terreno molti voti (- 4,2 % rispetto al 2006), in gran parte andati, nello stupore generale, ai giovani esordienti del Piratenpartei (giunti all‘8,9 %), il partito nato in Svezia come costola della battaglia anti-copyright di Pirate Bay e che si sta rivelando un interlocutore credibile anche per quanto riguarda questioni politiche non strettamente connesse alla rete. La grave emorragia subita da Die Linke ha messo Wowereit in una posizione scomoda, quella di dover trovare dei nuovi partner di coalizione per poter contare su un solido appoggio al Preußischer Landtag, la sede del parlamento cittadino.

L’ultima volta che Spd e Cdu hanno governato insieme la città, tra la metà dei ’90 e l’inizio 2000, viene ricordata come un periodo di scandali e  sprechi di soldi pubblichi che spinsero Berlino sull’orlo del crack.

Dopo un breve abboccamento con i Verdi, impantanatosi per via di divergenze sulla costruzione di un nuovo raccordo autostradale, Wowereit ha dovuto fare spallucce e rassegnarsi a formare un governo con i rivali della Cdu: una coalizione centrista dopo due mandati spostati a sinistra. L’ultima volta che Spd e Cdu – quella che in Germania chiamano Große Koalition – hanno governato insieme la città, tra la metà dei ’90 e l’inizio 2000, proprio negli anni della costruzione di Potsdamer Platz e prima del decennio di Wowereit, viene ancora ricordata come un periodo di scandali bancari e  sprechi di soldi pubblichi che spinsero Berlino sull’orlo del crack. I berlinesi temono che ora la storia si ripeta e che l’asse centrista si preoccupi maggiormente di ascoltare le ragioni delle componenti più “tradizionaliste” dell’establishment, desiderose di rendere Berlino la capitale commerciale dell’area che si estende dal Brandeburgo a gran parte dell’Europa dell’Est, anziché cercare soluzioni alle problematiche sociali ancora in sospeso o dare fiducia a business giovani ma di respiro globale. In numerose interviste Wowereit ha assicurato che questa volta andrà diversamente e che la Grande Coalizione non farà soltanto gli interessi di chi “pesa” di più ma diversi berlinesi sono ancora incerti se dare fiducia al loro sindaco, delusi dal fatto di ritrovarsi con un governo centrista in una città che anche alle ultime elezioni ha votato al 70% per partiti di sinistra. Secondo Lang di Berlin Partner il colore politico di una coalizione non è però un grande problema: «Non credo che la politica conti così tanto quando ci sono già dei processi in atto». Di certo, con la gestione di questo insidioso mandato, Wowereit si gioca una fetta di avvenire, se è vero che sempre più insistentemente si vocifera di lui come prossimo candidato Spd alla Cancelleria Federale.

Zum goldenen Hahn è un vecchio Pub fumoso che, a giudicare dal marcire di certi legni, potrebbe trovarsi qui – in questo angolo di Kreuzberg vicino a Goerlitzer Banhof – addirittura da prima della guerra. Durante la settimana è frequentato da pochi esemplari di quelli che in Germania vengono chiamati Lumpen – ilProletariat tedesco che si fa riconoscere per essere rimasto congelato in una frazione del secolo scorso collocabile a quando il mullet e i jeans decolorati erano considerati di moda – mentre nel weekend si riempie di giovani hipster in cerca del brivido ironico dell’autenticità. Una sera qui conosco Marthe, 27enne da Dortmund, pelle chiarissima, occhi verdi, capelli ramati e una lunga esperienza di studio nel nostro paese che le ha lasciato un italiano praticamente impeccabile. È qui da un anno e mezzo per svolgere un Phd in filosofia alla Humboldt e chiacchieriamo a lungo scambiandoci opinioni sulla città. A un certo punto accenna un pensiero che mi colpisce, forse perché lo associo a qualcosa che mi è già stato detto da qualcuno mentre mi trovavo qui: «Nelle zone centrali della città a volte provi una sensazione… come se intorno a te ci fosse un piacevole involucro protettivo che ti fa sentire a casa e ti garantisce un’enorme libertà e questo rischia di farti dimenticare che, fuori da qui, la realtà funziona diversamente. Molti giovani da tutto il mondo si trasferiscono inseguendo i propri sogni artistici e professionali, poi però, se e quando questi sfumano, restano accettando lavori che non hanno nulla a che fare con le loro aspirazioni precedenti, semplicemente perché ormai non possono più fare a meno di Berlino, non riescono più a staccarsi da questa città. Capita spesso ed è un po’ triste a vedersi». Qualche ora dopo, rincasando sotto un’abbondante nevicata, cerco senza successo nella mia memoria una qualche associazione mentale con queste parole ed è solo una volta tornato a Milano che, mentre riascolto una delle interviste che ho svolto, ricollego il tutto a una frase di Cristoph Lang, pronunciata con tono asciutto e distaccato. «La scena delle start-up è una scena che seguiamo con interesse e curiosità, dopodiché è chiaro che ci sarà una selezione naturale. Ci saranno start-up che riusciranno a emergere e altre no. Ma chi non ce la farà potrà sempre riciclarsi all’interno della vita di quartiere, come barista o cameriere». La riascolto più volte e mi convinco sempre più del fatto che Lang sembra non riuscire assolutamente a concepire la possibilità che una volta fallite le proprie aspirazioni a Berlino, un giovane voglia riprovarci altrove o ritornare a casa. Come se chi ogni giorno pianifica il volto più seducente di questa città fosse pienamente consapevole anche del lato più perverso e pericoloso di questa seduzione. Il giorno dopo l’incontro con Marthe, conoscerò James Guerin, uno che a Berlino ha trovato una fortuna in tutti i sensi, e, mentre sfrecciamo a bordo della sua decappottabile per la lunghissima Karl-Marx Allee, James mi dirà una frase che a sua volta mi ricondurrà alla sera prima: «La libertà che ti offre Berlino ti porta a desiderare cose sempre nuove e diverse rispetto a quelle che altrove sono considerate “normali”. Ti permette di essere ogni volta quello che vuoi; in un certo senso qui puoi invecchiare e persino diventare ricco, come nel mio caso, senza mai diventare adulto. Conosco cinquantenni che si reinventano ogni giorno come se avessero venti anni di meno ma che letteralmente si sono dimenticati di farsi una famiglia».

Mentre attendo la chiamata per il mio gate, ripenso a una frase di Karl Sheffler, uno dei più grandi intellettuali prussiani d’inizio ‘900 «Berlino è una città condannata a divenire sempre e mai a essere» e mentalmente compilo una lista di alcune affascinanti contraddizioni di questa metropoli. Un luogo in cui convivono tracce della vita colta e decadente degli anni ’20 e della follia del Nazismo; un’università il cui edificio principale è intitolato a John Ford e un mausoleo dedicato ai caduti sovietici che occupa quasi un intero parco; i giovani dalla bellezza levigata e dall’acuta intelligenza imprenditoriale che stazionano da Sankt Hoberholz e gli sguardi pieni di risentimento degli adolescenti in tuta acetata e capelli rasati a zero di Mahrzan; il sogno della Silicon Valley e l’incubo delle nuove Banlieues; i gentrificatori e i gentrificati. «È impossibile dire ora quello che sarà Berlino tra venti anni» mi aveva detto Mr. Lang. È impossibile perché da sempre questa città sembra poter diventare tutto e il contrario di tutto, in un attimo. Vive agli estremi. Dove la vita è più interessante.
 

Immagine in evidenza di Guido Gazzilli