Attualità | Coronavirus

Cambiare i nomi ai vaccini

Pfizer, Moderna, AstraZeneca: perché è sbagliato usare con un farmaco gli stessi meccanismi di scelta che usiamo con qualsiasi altro bene.

di Francesco Gerardi

Siamo tutti umarell appoggiati alla ringhiera della campagna di vaccinazione. Con le braccia incrociate comodamente dietro la schiena, il metro e ottanta centimetri di distanziamento sociale, la mascherina salda sopra il naso, l’igienizzante per le mani sempre in tasca (si usa ancora, l’igienizzante?), la comprensione delle operazioni che avvengono davanti ai nostri occhi, e il contributo alle stesse, è quella dell’umarell.

In questo anno di pandemia ci siamo divertiti a discutere di tutto, anche perché altro non si poteva fare: non di sola panificazione vivrà l’uomo, ma di ogni parola scritta sul profilo twitter di Roberto Burioni. La differenza tra la r con la t e quella con lo zero. Cosa si intende con letalità e cosa con mortalità. Che macchinari ci sono in un reparto di terapia sub-intensiva e in uno di intensiva. Cosa cambia tra virologo, infettivologo, immunologo, epidemiologo e microbiologo. Pregliasco è andato al Pio Albergo Trivulzio? Bel colpo, quest’anno vanno in Champions. Le siringhe, quelle di Arcuri che sono come la pistola di Cechov: se ci sono si useranno, se stanno lì è perché servono. A quante dosi equivale una fiala. E poi, da fine dicembre 2020, dall’approvazione del siero Pfizer/BioNTech da parte dell’Agenzia Europea del Farmaco, abbiamo parlato di vaccini.

C’è voluto poco a trasformare la soluzione in problema: meno di tre mesi (il 21 dicembre l’EMA autorizzava l’uso del vaccino Pfizer/BioNTech) e l’impazienza è diventata diffidenza, l’entusiasmo attorno ai vaccini è durato meno di quello riservato solitamente al nuovo segretario del Pd. Trenta casi di trombosi tra i cinque milioni di cittadini europei vaccinati con il siero AstraZeneca ed è stata subito «paura in Europa», come titolava La Repubblica di venerdì 12 marzo: un fine settimana di riflessione e ieri Germania, Francia e Italia annunciano la decisione di sospendere la somministrazione del vaccino AstraZeneca fino a quando l’indagine dell’Ema non avrà escluso nessi causali tra quelle trenta trombosi e l’inoculazione del vaccino.

Lo stop alle iniezioni di AstraZeneca è del tutto precauzionale, naturalmente: il vaccino è sicurissimo, al momento non ci sono differenze apprezzabili tra gli episodi trombotici nella popolazione generale e in quella vaccinata, a oggi per Ema e Aifa non c’è motivo di sospendere la somministrazione. Ma tant’è: AstraZeneca in custodia cautelare, innocente fino a prova contraria, detenuto in attesa di giudizio. E che nessuno vada in giro a dire che in Inghilterra ci sono stati 45 casi di trombosi tra le persone vaccinate con AstraZeneca e 48 tra quelle vaccinate con Pfizer, sennò all’immunità di gregge ci arriveremo sul lungo termine nel senso in cui lo intendeva Keynes.

Quanto sta succedendo attorno ad AstraZeneca dimostra che le premesse del nostro rapporto con i vaccini contro il Covid-19 erano sbagliate e le conclusioni non potevano che essere disastrose. Sin dall’inizio abbiamo ridotto questi vaccini a ciò che capiamo di biologia (niente), a quel che sappiamo delle aziende che li producono (poco) e a quel che pretendiamo per noi stessi (tutto, subito). Abbiamo usato con un farmaco gli stessi strumenti di comprensione e meccanismi di scelta che usiamo con qualsiasi altro bene/servizio, nella campagna di vaccinazione ci stiamo facendo guidare dalla stessa razionalità che ci guida tra gli scaffali del supermercato. Quel vaccino è fatto con rna messaggero? Figuriamoci, non fa per me, io non compro manco la Nutella perché c’è l’olio di palma dentro, per me solo crema di nocciole e cacao biologica Rigoni di Asiago. Quell’altro è fatto con l’adenovirus? Fammi scrivere una mail ad Altroconsumo, vediamo che ci dicono loro. Mi dia 0,5 ml di Moderna, grazie. Nella siringa ce n’è 0,7, che faccio, lascio? Ma Pfizer è quella del Viagra? Johnson&Johnson vedrai si potrà dare anche ai neonati, così completo il set: olio, talco, salviettine, crema liquida e vaccino baby. E questa AstraZeneca, cosa ci vuole dire con questo nome un po’ prossimo film di Christopher Nolan e un po’ secondogenito di Emily Ratajkowski? Identificare i vaccini con i nomi delle aziende che li producono ha inevitabilmente ridotto l’efficacia della medicina alla simpatia del medico. Ad AstraZeneca è andata male, malissimo: e prima il paziente brasiliano, dopo la mezza dose somministrata per sbaglio durante la sperimentazione e la scoperta di un conseguente aumento dell’efficacia, poi la mancata consegna delle dosi pattuite con l’Unione Europea, adesso le trombosi.

Non che sia stata una scelta, questa di far del nome dell’azienda il nome del prodotto: come tutto il resto in questo anno di pandemia, è conseguenza del tempo che manca e di un’urgenza alla quale rispondere. Anche rischiando il burnout dei dipendenti, le firm che si occupano di trovare il nome giusto al farmaco nuovo ci mettono in media tre mesi ad arrivare a una scelta. Poi bisogna aspettare il tempo della burocrazia: se un nome va bene o no, se rispetta la norma di legge e i diritti dei consumatori, questo lo decidono le agenzie del farmaco nazionali e internazionali, che si prendono mesi per deliberare. Normalmente, solo per sceglierne il nome ci vuole il tempo che questa volta abbiamo impiegato per trovare, sperimentare, approvare, produrre e distribuire i vaccini.

C’è una ragione se Russia e Cina hanno scelto i nomi che hanno scelto per i loro vaccini: a fare lo Sputnik V sono sicuro che un russo si senta in orbita accanto a Gagarin, e anche se in quel caso il programma era il Vostok non fa niente, la sensazione di essere davanti agli americani resta; a vaccinarsi con il Sinopharm son certo che si formi nella mente di un cinese l’immagine di Xi Jinping che fa il dito medio a Trump, altro che chinese virus.

C’è una ragione anche se ogni anno le case farmaceutiche spendono milioni di dollari per farsi aiutare a battezzare i loro prodotti: evitare che chi assume un farmaco pensi ad altro, dubiti della sua scelta nel momento dell’acquisto, dell’assunzione, della somministrazione, si illuda di saperne quanto basta per decidere quando invece l’unica possibilità è fidarsi, si balocchi con l’illusione della scelta quando alle sue spalle c’è la fila. Non c’è solo la necessità di rispettare le stringenti norme del regolatore in materia: bisogna trovare un nome che sia abbastanza diverso da quelli già esistenti in modo da evitare confusione nel medico e nel paziente, e già solo per questo ci vorrebbe Don Draper; poi tocca inventarsi una parola che sia comprensibile e convincente senza essere fuorviante e ingannevole: la Fda americana disse che un farmaco contro le calvizie non si poteva chiamare “Regaine” (che suona come regain, recuperare) perché non a tutti i pazienti che lo assumevano la chioma tornava folta come prima. Quindi, nelle farmacie di mezzo mondo chi comincia a stempiare chiede il Regaine, in quelle degli Stati Uniti compra il Rogaine.

«Un nome molto peculiare che nel tempo si spera arrivi a simboleggiare la speranza e l’innovazione che stanno dietro al farmaco stesso», questo è ciò che vuole Big Pharma dai professionisti del brand naming secondo Scott Piergrossi. Piergrossi è President of operations and comunications del Brand Institute, vale a dire l’azienda dietro all’80 per cento dei nomi di farmaci approvati dalla FDA e al 75 per cento di quelli autorizzati dall’EMA. Latisse, il farmaco per stimolare la crescita naturale delle ciglia, lo hanno battezzato qui: «Deriva principalmente da Matisse, il pittore e scultore, e poi c’è il prefisso LA, cioè “lash” (ciglio in inglese)». Creative indeed, dice bene il suo profilo LinkedIn.

È negli uffici di downtown Miami del Brand Institute che si è deciso il nome proprio del vaccino anti-covid19 di Pfizer, che all’anagrafe del farmaco si chiamerà Comirnaty: dentro questa parola c’è l’immunità dalla malattia all’inizio, una menzione della tecnologia mrna nel mezzo, un rimando all’idea di comunità (community) alla fine. Quattro sillabe che sono il risultato di un lavoro che di solito comincia con duemila nomi proposti che nel corso di mesi vengono ridotti alla dozzina poi mostrati al cliente: nel caso del vaccino Pfizer sono stati considerati anche Covuity, RnaxCovi, Kovimerna (questo il Italia potrebbe andare molto bene o molto male), RNXtract. Tra le migliaia di proposte iniziali e l’unica approvazione finale ci sono un’infinità di dettagli che riguardano copyright, tecnologia, linguistica, psicologia, comunicazione, design, font, colori: il nome deve essere facile da pronunciare e da ricordare, deve contenere la natura della malattia e gli ingredienti della cura, deve essere à la page (secondo Piergrossi quest’anno vanno fortissimo le doppie consonanti e le doppie vocali, l’alternanza tra maiuscole e minuscole è l’accessorio che tutti vogliono, i neonati si chiamano tutti Qvar, Vfend e Xpovio) e deve apparire a suo agio in tv perché quei sette miliardi di dollari che l’industria farmaceutica spende ogni anno solo in pubblicità televisiva non possono andare buttati.

Una modesta proposta per i governi: visto che ormai ci siamo, sospendere la campagna di vaccinazione quel tanto che serve a scegliere dei nomi nuovi per tutti i sieri, unica maniera per far dimenticare le differenze e interrompere le telefonate di gente che proprio all’ultimo si è resa conto che oggi non può passare a farsi inoculare l’AstraZeneca, ma che domani una mezz’oretta libera per Moderna ce la potrebbe avere. L’Unione Europa metta su una task force e affidi a un supercommissario che tutti sappiamo può essere solo Silvio Berlusconi (ormai interessato alla nobiltà del padre della patria, cosa che lo farebbe costare sicuramente meno di Piergrossi) il compito di scegliere i nuovi nomi dei vaccini. Al Ceo di AstraZeneca, Pascal Claude Roland Soriot, un amichevole consiglio: guardi quell’episodio di The Wire in cui Stringer Bell chiede al suo professore di macroeconomia quali sono le opzioni disponibili nel caso in cui si abbia un prodotto inferiore in un mercato aggressivo, senza la possibilità di acquistare quote di mercato dalla concorrenza e diminuire il prezzo del prodotto. La conclusione alla quale giunge String: cambiare il nome. «Avete mai sentito parlare di WorldCom?».