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Come Anna Delvey è diventata una star

È iniziato il processo alla truffatrice che si è infiltrata nell'alta società newyorchese e che diventerà la protagonista di una serie Netflix.

di Clara Mazzoleni

Un selfie di Anna Delvey, dal suo profilo Instagram @theannadelvey

Se posso vantarmi di qualcosa nella mia vita, è di aver cominciato a seguire Chiara Ferragni fin dai primi post sul suo blog The Blonde Salad, quando ancora aveva i capelli bruciati dai colpi di sole e la pelle arancione. Con il fiuto per il successo che da sempre mi contraddistingue, avevo pensato: «A chi potrà mai fregare cosa indossa questa tizia per andare a lezione alla Bocconi o viaggiare (viaggiava sempre già allora) insieme al suo fidanzato? Perché si sente in diritto di “aggiornarci” (noi chi, poi) su tutto quello che fa, in italiano e in inglese? Perché questo “Richie” si presta a farle uno shooting al giorno come se fosse una star? Ma chi si crede di essere?». Mi ponevo queste domande, e per trovare una risposta tornavo in continuazione a guardare le sue foto e a leggere le brevi didascalie mezze sgrammaticate e a sorbire uno ad uno i commenti delle prime fan, che le domandavano timidamente dove aveva acquistato quegli orecchini con i teschi.

Il motto “Fake it till you make it” rimanda a un concetto fondamentale della psicoterapia cognitivo-comportamentale, nata proprio nello stesso periodo in cui la frase comincia a diffondersi, gli anni Settanta. Semplificando moltissimo, la terapia cognitivo-comportamentale suggerisce di non perdere troppo tempo ad analizzare le cause profonde del proprio malessere ma di agire sul presente cambiando il proprio comportamento hic et nunc, ad esempio comportandosi come se (“act as if” è un altro concetto chiave) le proprie emozioni fossero diverse, addirittura opposte. Esempio: se ti svegli e ti senti depresso, non dovresti soffermarti a chiederti il perché e il per come, ma dovresti alzarti di scatto, iniziare a vestirti ballando e ammiccare a te stesso allo specchio. È tutto molto più complesso, ovviamente, ma si basa su una legge comprovata dalla realtà: quando un essere umano finge con costanza e passione può essere in grado di ingannare non solo il prossimo, ma anche se stesso.

Se la storia di Anna Delvey ha destato tanto scalpore è perché, come ha sottolineato il Guardian, riassume perfettamente questo concetto, ma a differenza di molte altre storie “fake it till you make it” finisce male. Perché Anna Sorokin, questo il suo vero nome, non si è limitata a giocare con Instagram (l’aveva fatto anche l’artista Amalia Ulman, ne avevamo scritto qui), postando immagini sapientemente studiate per sembrare ricca e cool (prima dell’arresto aveva raggiunto 40mila follower, adesso ne ha 55mila) o a darsi importanza quando ancora non ne aveva (ma non è forse una cosa che facciamo tutti, oggi, sui nostri profili social?). Nata nell’ultimo anno di vita dell’Unione Sovietica, il 1991, figlia di un autista di camion, negli anni trascorsi a New York Sorokin ha accumulato debiti per circa 270.000 dollari.

Col falso nome di Anna Delvey si è spacciata per una ricca ereditiera tedesca in procinto di aprire una fondazione di arte contemporanea. Che la truffa sia avvenuta a scapito dell’ambiente culturale newyorkese è un dettaglio molto importante: in un altro ambiente il gioco di Sorokin non avrebbe funzionato per più di due giorni, ma il mondo in cui ha agito si basa su un sistema di leggi non scritte: basta poco per essere accettati, ma per farlo occore sapere esattamente come comportarsi, come vestirsi, che musica ascoltare, cosa e chi desiderare. La storia di Anna Delvey è esplosa grazie a un lungo racconto di Jessica Pressler uscito su The Cut (costruito grazie alla testimonianza di Neffatari Davis, la  migliore amica della truffatrice) e un articolo pubblicato da Vanity Fair, firmato invece da una vittima, Rachel DeLoache Williams, che durante una vacanza in Marocco con una facoltosa “collega” – almeno, così credeva – si è ritrovata in mezzo a una serie di insospettabili “imprevisti” e ha dovuto sborsare 62mila dollari.

Giudo Cacciatori, Gro Curtis, Giorgia Tordini e Anna Delvey durante un evento al The Jane Hotel il 9 settembre 2014 a New York (foto di Dave Kotinsky/Getty Images)

Il migliore articolo sulla storia di Anna Delvey, però, l’ha scritto Rachel Tashjian per Garage. Tashjian analizza con cura lo stile di Delvey e sottolinea come nel corso degli anni sia risultato credibile proprio perché abbastanza random. Per essere accettati all’interno dll’ambiente artsy, infatti, bisogna vestire con capi firmati dando però l’impressione di esserseli messi addosso un po’ a caso, senza pensarci troppo. Come a dire: ne ho talmente tanti che per me non fa differenza, voglio solo divertirmi e trascorrere tutto il mio tempo libero a mangiare in ottimi ristoranti.

Oltre alla capacità di postare, vestirsi, mangiare, parlare e divertirsi come “loro” (Sorokin conosceva bene le leggi dell’ambiente anche grazie ai suoi studi – mai portati a termine – alla Central Saint Martins di Londra e a uno stage nella redazione di Purple, il magazine fondato da Olivier Zahm), la ragazza ha avuto il coraggio di inventare diversi partner d’affari (primo fra tutti Peter W. Hennecke, avvocato spacciato per consulente depositario del “patrimonio Delvey”, incaricato del compito di sbloccare i pagamenti). Contraffazione di documenti per ottenere un prestito da 66 milioni di dollari, conti non pagati in hotel e ristoranti di lusso, assegni a vuoto per centinaia di migliaia di dollari. «Volevo solo essere presa sul serio», ha detto Sorkin in sua difesa, e adesso rischia fino a 15 anni di carcere.

Ma è stato proprio il processo, iniziato il 27 marzo, a mettere in luce il suo grande talento, di cui finora avevamo soltanto letto (e a quanto pare leggeremo sempre di più: gli articoli apparsi sulla stampa americana dopo l’udienza non si contano – adesso sì, è diventata una star). Tutti hanno parlato del suo tubino (era Miu Miu, come ha riportato il New York Post o Michael Kors, come ha scritto GQ?), degli occhiali da vista, della scollatura, del chocker che aveva al collo, della sua stylist personale. Dalla psicologa della moda che ha colto l’occasione per elencare i migliori look sfoggiati dai Vip durante i processi, all’acuta osservatrice che su The Outline ha sottolineato il dettaglio grazie al quale, secondo lei, chiunque avrebbe dovuto smascherarla – i capelli di merda – tutti parlano di lei.

La povera Anna (come non essere dalla sua parte? “We are all Anna Delvey”, si diceva su Vice) potrebbe dover scontare molti anni in carcere. La sua storia, però, non sembra priva di un lieto fine: verrà trasformata in una serie Netflix diretta da Shonda Rhimes (ScandalGrey’s Anatomy). Sorokin ha già scelto chi le piacerebbe vedere nella sua parte: Jennifer Lawrence o Margot Robbie. A riportare i nomi è stata Neffatari Davis – l’amica che ha aiutato Pressler a scrivere il pezzo di The Cut. Anche Neff Davis, aspirante regista, è stata coinvolta nel progetto Netflix: secondo lei, la storia di Anna dovrebbe essere raccontata dal suo punto di vista.