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L’immortale Andreotti

I diari pubblicati da Solferino sono sorprendentemente uno dei casi editoriali dell'estate.

di Francesco Caldarola

Giulio Andreotti mentre ascolta la testimonianza dell'ex mafioso Tommaso Buscetta, Padova, 9 gennaio 1984 (Merola / Getty Images)

No, non c’è il famoso episodio in cui chiede alla moglie di sposarlo durante un funerale al cimitero. E non c’è neanche il passaggio dove, in diretta da Maurizio Costanzo a Bontà Loro nel 1976, ha ammesso di aver tirato qualche calcio ai compagni di scuola (un passaggio epocale della tv perché prima di allora un politico non aveva praticamente mai raccontato del suo privato, pensa te che tempi). In compenso, in questi Diari Segreti appena pubblicati da Solferino (420 pagine, un librone, ma gustoso) Giulio Andreotti – sette volte presidente del Consiglio, 32 volte ministro, per quattro elezioni il più votato d’Italia – qualche sopracciglio comunque lo fa alzare: sugli amici, su nemici, sui personaggi, sui tempi che ha vissuto. Sopracciglia alzate, quindi, ma in questi giorni anche occhi strabuzzati, visto che – in maniera sorprendente – il volume è quarto in classifica nelle vendite della saggistica, davanti ai best seller Augias, Calenda e Recalcati, e persino davanti all’Harper Collins Su Harry e Megan.

«Mi piacerebbe sapere la fascia d’età prevalente dei lettori», mi dice Alessandra Sardoni, il volto che tutti conosciamo del Tgla7 e una delle giornaliste più preparate sulla politica italiana. «Ma credo che contino due diversi fattori: la popolarità del personaggio, che resta per almeno un paio di generazioni anche nel negativo, e che è stata rivitalizzata dal film di Sorrentino: Andreotti ha della commedia e della cronaca, del grottesco e della politica. E poi penso influisca il fatto che sia talmente centrale nella letteratura, nel genere giornalistico dei “misteri Italiani” da catturare altri lettori. Infine ritengo che l’idea del diario segreto documento apparente disintermediato sia un richiamo forte. La parola segreto, insomma, funziona».

Che il Divo prendesse appunti lo sanno tutti, aveva iniziato subito, nel 1944, su consiglio di Leo Longanesi. La storia poi è quella che potrebbe capitare ad ognuno di noi: un trasloco e quei vecchi scatoloni che nessuno sa mai cosa ci sia dentro. Nei nostri finisce sempre che ci trovi le foto sfigate delle comunioni e gli addobbi dei vecchi alberi di Natale; Stefano e Serena Andreotti, due dei quattro figli del Senatore, invece hanno aperto i loro e ovviamente dentro c’era la storia d’Italia. Pubblicarla tutta sarebbe stato troppo, ma anche in questa parte, che racconta più o meno tutti gli anni Ottanta, in cui incredibilmente Andreotti non aveva incarichi di Governo e che non riguardano il processo per associazione a delinquere di stampo mafioso, di aneddoti se ne trovano, figurarsi: «Al comunista D’Alema, che parla di un mio carteggio con il mafioso Gambino, dico che mi ha rotto le scatole. Quando ci vuole, ci vuole», come se fosse una roba perentoria, senza sapere che da lì a poco sarebbero volati i vaffanculo in allegria anche tra i suoi colleghi.

A proposito, sul tema colpisce un altro passo: «Vengono a studio per una foto di gruppo Vittorio Gassman, Enzo Biagi, il presentatore Corrado Mantoni, il cantante Zucchero Fornaciari, il comico Beppe Grillo e il calciatore Gianluca Vialli. Siamo stati indicati dai lettori della rivista Sorrisi e Canzoni TV come personaggi dell’anno e riceveremo il premio Telegatti». Era il 22 dicembre del 1987, vabbè.

«Non mi meraviglia questo interesse per Andreotti come per le grandi personalità della Prima Repubblica», spiega, tranquillo, Pier Ferdinando Casini, l’ultimo vero democristiano ancora in Parlamento, 37 anni di seguito sugli scranni (il Nostro invece 68), che pure in gioventù fu al fianco dei dorotei di Bisaglia e poi con Forlani, quindi non proprio nell’inner circle del Divo. «La gente sta capendo ora, dopo l’antipolitica degli anni scorsi, i prezzi che si pagano al dilettantismo e all’incompetenza. Andreotti era un uomo che la politica la conosceva, che la professionalità politica la sublimava, che i contatti internazionali mettevano al centro dell’arena. Tutto sommato questo fatto delle vendite è la dimostrazione specifica che c’è un processo di revisione critica in atto: viva Andreotti e viva la politica costruita sulle competenze, perché i dilettantismi ci hanno già quasi scavato la fossa».

Tornando alle cose di oggi, ad un certo punto scrive: «Si discute del numero dei parlamentari. Sono troppi? Quale è il riferimento con gli altri Paesi, eccetera. Fa impressione in effetti il rilievo che lo stesso lavoro è compiuto a Palazzo Madama da 323 persone e a Montecitorio da 630. Ad un capo di Stato che domandava quante persone lavorassero in Vaticano Giovanni XXIII rispose “la metà”». E chissà perché nessuno del comitato del SI’ al taglio dei parlamentari oggi si avventuri in un “lo diceva già Andreotti!”.

Dentro il libro c’è il mondo visto dagli occhi speciali di un uomo di potere cui abbiamo ora accesso nel profondo dell’intimità: il rosario recitato insieme a Madre Teresa di Calcutta («Un momento di Paradiso»), la festa a casa di James Stewart a Los Angeles in occasione della festa per i suoi 35 anni di matrimonio («Nel settore i giubilei postnuziali sono rarissimi», osserva perfido), o quando deve scrivere una lettera all’accademia svedese per caldeggiare il Nobel per la Pace a Pertini, che evidentemente se ne moriva per averlo.

Ci sono racconti che davvero sono interessanti per gli storici, come quando parla a lungo con Gheddafi (che gli consegna due suoi libri da regalare a Reagan, Andreotti il postino), o come quando va a Mosca per i funerali di Andropov, intermezzati da osservazioni di costume: «Nel volo di rientro Pertini esclude me e Berlinguer dal tavolo dello scopone nel quale, andando, avevamo avuto un certo successo (pensava, sbagliandosi, che il giovane D’Alema fosse meno agguerrito) e ci invita, invece, a parlare un po’ di politica».

C’è, insomma, questa vena ironica, che ha dello straordinario. Dice di Prodi, neo Presidente dell’IRI, il più importante ente pubblico di politica industriale: «Se è vero che l’amico Prodi di tanto in tanto si diletta di spiritismo (la seduta con il riferimento a Gradoli durante il sequestro di Moro), avrà forse modo di farsi indicare dai grandi presidenti passati, come Beneduce o Paratore, la via per decurtare i forti deficit IRI, che sarebbe però davvero ingiusto addebitare all’ultima gestione. E già che c’è, chieda anche a Enrico Mattei come si fa a riportare l’ENI a guadagnare e a non a perdere migliaia di miliardi come oggi avviene». Insomma: dopo 420 pagine di auto racconto uno si convince che, forse, Andreotti non era proprio come Il divo di Sorrentino che lo fece – pare – così incazzare. Di sicuro, però, antipatico non doveva esserlo.