Attualità

Amori, disamori e il libro d’esordio di Adelle Waldman

Amori e disamori di Nathaniel P. è stato uno degli esordi letterari più incensati degli ultimi anni negli Usa. Ora esce per Einaudi, e abbiamo intervistato l'autrice, Adelle Waldman. Su, certo, relazioni sentimentali, ma anche freelance, femminismo e "come si scrive un libro".

di Clara Miranda Scherffig

Nell’agosto 2013 mi sono imbattuta quasi per caso nel libro The love affairs of Nathaniel P., di Adelle Waldman, che esce martedì 24 per Einaudi con il titolo Amori e disamori di Nathaniel P., nella traduzione di Vincenzo Latronico. Ricordo che Vincenzo era venuto a pranzo da me e per impegnare il tempo mentre io ero occupata in chissà quale faccenda, mi aveva chiesto di dargli qualcosa da leggere. Io gli passai la Waldman, senza però spiegare nulla di libro e autrice. Dopo venti pagine mi ha chiesto, «Wow. Come si chiama questo scrittore?». «È una donna», ho risposto io.

Quello che a molti lettori potrebbe sembrare un romanzo rosa per ragazze privilegiate, è in realtà un notevole romanzo d’esordio. Nonché un grande esercizio di analisi socio-sentimentale. Alcuni passaggi rivelano una capacità interpretativa eccezionale, e quasi tutti gli amici che l’hanno letto ci si sono ritrovati ogni tanto—non importa se in personaggi maschili e femminili. Ritrovarsi nella finzione è un’esperienza tanto bizzarra quanto emotivamente appagante: finalmente si trova una manifestazione concreta (seppur fittizia) alle nostre identità sentimentali, psicologiche. È insieme esperienza letteraria ed esistenziale. Ed è un po’ quello che ho vissuto leggendo Amori e disamori di Nathaniel P.

Quella che segue è un’intervista che ho condotto con Adelle Waldman nel novembre 2013.

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Dai gravosi tempi di Madame Bovary e anzi, probabilmente anche da molto prima, gli scrittori hanno raccontato storie di donne dal loro punto di vista. Se secoli fa questo stratagemma narrativo (che portava con sé, ovviamente, anche problematiche morali, di genere, nonché di forme e contenuti letterari) veniva accolto come un po’ scandaloso, ai giorni nostri ci abbiamo fatto il callo. Ci abbiamo tanto fatto il callo che i casi più recenti e noti non sollevano neanche più le critiche che dovrebbero sollevare, magari per disabitudine a pensare in termini di uomo/donna e magari perché oramai non c’è più niente di eccezionale in uno scrittore che scrive con voce di donna. Per citarne un paio, la Patty di Libertà rivela tutto un groviglio di confusione e malignità che spesso ritroviamo nelle altre donne di Franzen—laddove nell’uomo il lato oscuro è spesso solo un po’ di sfiga o povertà, che bisogna affrettarsi a giustificare con “ma questa è la complessa natura dell’uomo profondo” (penso a Chip di Le correzioni o al personaggio di Richard Katz). Jeffrey Eugenides, in un altro romanzo che ha avuto ottima accoglienza di pubblico e critica, La trama del matrimonio, racconta la storia molto godibile di tre neolaureati, due maschi e una ragazza: il perno attorno a cui si sviluppa la vicenda è lei, Maddy, che è un personaggio molto più piatto, timoroso e superficiale degli altri due, con cui pure dovrebbe condividere “uguaglianza di rilevanza” nella trama (giusta contro critica è però ricordare che Eugenides ha vinto il Pulitzer narrando la storia di un ermafrodito, e per di più in prima persona). Grande eccezione degli ultimi anni, almeno per quanto riguarda la mia memoria e l’inventario personale di libri letti, è stato Travels in Central America, di Clancy Martin, che non solo adotta un punto di vista femminile per una storia di adulterio con sesso selvaggio e amori viscerali, ma anche la prima persona. Ricordo che, durante quasi un terzo della lettura, la narrazione mi era sembrata tanto realistica (ma non da manualino, realistica in quanto complessa e problematica, piena di aperture irrisolte) da convincermi che la protagonista fosse in realtà un omosessuale—avanzando così la sbagliatissima presunzione che se un uomo scrive così bene con la prospettiva di una donna, il suo personaggio può essere effeminato ma non femmina. Ma qui, coi colpevoli o le eccezioni, siamo ancora da una parte della barricata: se il sopracitato progresso è senz’altro un grande passo per l’emancipazione femminile nell’universo della finzione letteraria, l’assunzione di un punto di vista maschile per uno scrittore donna è qualcosa che ancora fa sbalordire. Sorvolando però sulle diseguaglianze che tuttora sussistono tra scrittori e scrittrici, a luglio 2013 è uscito negli Stati Uniti un libro che, proprio per le sue “quote rosa”, ha fatto molto più che sbalordire.

Ricordo che ho prestato il libro ad un amico che, dopo dieci pagine, si è alzato dalla poltrona e con tono concitato ha esclamato “Ma questo sono io! Corro a casa a leggerlo”: quando gli ho detto che l’autore era una donna la sua espressione era effettivamente quella di una persona “molto stupita”. Adelle Waldman è una scrittrice di trenta e qualcosa anni, originaria di Baltimore ma residente a Brooklyn, e The Love Affairs of Nathaniel P. è il suo romanzo d’esordio. Libro del mese di luglio (2013) su Amazon, con ottime critiche ricevute ovunque (quella del New Yorker le riassume un po’ tutte), la storia di The love affairs of Nathaniel P. è anche ma non solo una storia d’amore. La materia principale del romanzo è una distesa di particolari precisissimi su come potrebbe funzionare il cuore (e la mente) di un giovane uomo (e dei suoi amici) mentre cerca costantemente di ri-negoziare il proprio status professionale, sentimentale e individuale in una Brooklyn iper-gentrificante, frequentata da altri che, come lui, hanno ricevuto un’educazione elitaria e, ciononostante, combattono (e non combattono) con i sensi di colpa per l’esistenza privilegiata che il mondo ha loro assegnato. Tre sono le donne che si aggirano intorno al protagonista scandendo i tempi del romanzo. Elisa, soprannominata “la Bella”, è fisicamente perfetta però frignona, egocentrica e molto infantile e ci introduce al rapporto conflittuale che Nate ha con la bellezza e l’intelligenza femminile. Hannah, dal carattere solido ma un po’ insicura, non bellissima ma sensibile e capace di capire Nate come nessuno, instaura con lui una relazione che è al centro del romanzo e la cui evoluzione è il fulcro dell’interesse dell’autrice. Infine Greer, molto attraente e anche brillante, ha difetti sostanziali ed è a volte impenetrabile nella sua differenza caratteriale; eppure è lei che chiude il percorso amoroso di Nate e ci fa intuire che forse l’anima gemella è qualcosa di completamente diverso da noi. Mentre Nate si chiede più o meno confusamente, o più o meno lucidamente—a seconda dei casi—che cos’è la bellezza femminile, qual’è la natura di una relazione stabile e quali le ragioni dei suoi comportamenti, sullo sfondo vediamo schiudersi l’irrequietezza di personaggi che potrebbero avere la chiave per capire le cose eppure non ci riescono. E il primo terreno su cui si coltiva quest’incertezza, è, ça va sans dire, quello amoroso.

Insomma, guai a dire che siamo nel campo della “chick lit”! Anche se a dirvelo è una lettrice, ho intervistato Adelle Waldman proprio per cercare di sostenere, tra le altre cose, che questo non è un romanzo di genere… ma che non ci sarebbe niente di male se lo fosse.

Clara Miranda Scherffig: Come prima cosa devo fare la domanda più ovvia, perché riguarda l’aspetto che colpisce più di tutti: da donna scrivi con il punto di vista di uomo. Come hai costruito la psicologia di Nate?

Adelle Waldman: Credo che il fatto di essere una donna mi abbia avvantaggiato. Mi sono concentrata su alcuni aspetti di Nate che sono molto diversi da me, su alcuni atteggiamenti che, nel corso degli anni, avevo intravisto in amici o fidanzati e che mi sembravano rivelare un modo molto diverso di pensare alle relazioni sentimentali. Mentre costruivo il suo personaggio, mi rendevo conto che non avrebbe mai pensato una cosa come “Ho trent’anni, voglio impegnarmi per stare con qualcuno sul serio” e che molti altri uomini la vedevano così. Mi è venuta voglia di immaginare quale tipo di riflessioni potessero giustificare quest’atteggiamento e così ho cercato di costruire una coscienza che desse ragione di un pensiero del genere. Ho utilizzato alcuni aspetti di uomini che ho conosciuto e che mi avevano colpito come molto diversi da me… e poi da lì ho costruito retroattivamente, cercando di spiegare un certo comportamento, una certa azione.

In un’intervista con GQ hai confessato che «molte delle osservazioni più brutali che Nate fa sulle donne, sono cose che io stessa temevo che gli uomini del mio passato potessero pensare di me». Mi sono chiesta se, adoperando questo tipo di materiale personale, non ci fosse il rischio di risultare meno verosimile.

Avevo ben in mente uno “standard” per il quale non volevo che Nate diventasse una caricatura, non volevo renderlo né migliore né peggiore di quello che era, volevo che tutti i personaggi fossero realistici e dunque mi sono sentita per così dire “fiduciosa” del mio metodo. In molti autori dell’Ottocento c’è la tendenza ad analizzare come e perché certi personaggi giustificano le proprie azioni di fronte se stessi e questo approccio è stato molto utile. Non ho lavorato avendo dei preconcetti nei confronti di Nate, mi interessava davvero capire come potesse razionalizzare il suo comportamento.

Ho letto Middlemarch quando avevo vent’anni e ho capito che conquistare una profonda comprensione dell’animo umano è possibile anche tramite la letteratura. Per me i libri sono utili quanto l’esperienza personale.

Ho davvero apprezzato il fatto che il romanzo mi sembra privo di rivendicazioni di genere, non ho visto un atteggiamento da “attivismo pseudo-femmenista” o moraleggiante. Che tipo di materiale hai usato, oltre alla tua esperienza personale?

In termini di materiale… Libri, direi! Ho letto e imparato molto a proposito delle persone e della loro psicologia—da Tolstoj a George Eliot, ho conosciuto mentalità diverse e le ho trovate convincenti e piene di intuizioni. Leggere altri libri ha semplicemente accelerato l’esperienza diretta, laddove invece osservare altre persone prende molto più tempo… Ho letto Middlemarch quando avevo vent’anni e ho capito che conquistare una profonda comprensione dell’animo umano è possibile anche tramite la letteratura. Per me i libri sono utili quanto l’esperienza personale.

Per quanto riguarda la mancanza di giudizio, era cruciale cercare di tenermi fuori dal libro, sotto molti punti di vista. Sono una persona piuttosto moralista ma non volevo fare affidamento a questo lato del mio carattere, mi stava a cuore solo il fatto di dover sottoporre tutto a questo “test” che doveva definire il grado di realismo, per cui non mi sono preoccupata di capire se Nate mi piaceva o meno. Spesso sento l’urgenza di sottolineare il fatto che ho utilizzato le mie insicurezze come fonte iniziale —nelle interviste come quella con GQ che hai citato—perché non voglio che nessuno creda che io appoggi Nate ma allo stesso tempo non voglio si pensi che io abbia scritto il libro per risolvere le mie insicurezze!

E invece, a proposito delle ragazze? Perché per esempio Elisa è un tipo di ragazza che esiste davvero—con enormi problemi di emancipazione, è un tipo di persona che non vorrei assolutamente come amica… come hai creato le donne del libro?

Sì, neanche io credo che Elisa sia una bella persona, ma credo anche che non si rifletta molto bene su Nate il fatto che lui abbia avuto una relazione con una donna per cui prova veramente poco rispetto ma trova molto attraente. Questo ha il suo lato lato di verità—ci sono uomini che si comportano come Nate e io non penso che vada bene. Parte del problema era che si trovava in una relazione con una donna che gli sembrava giustamente viziata, nevrotica e non abbastanza intelligente nel momento in cui si è esaurita l’iniziale attrazione. Penso che oggigiorno tendiamo a trattare l’attrazione amorosa come qualcosa che succede e che non possiamo impedire. Un altro lato di me invece fa riferimento a un gruppo di scrittori “moralisti” dell’Ottocento. Jane Austen per esempio era molto dura nei confronti di coloro che prendono decisioni sentimentali sulla base dell’aspetto altrui. Riguardo agli altri personaggi femminili, mi sono innamorata di Aurit [amica di Nate, una specie di grillo parlante che spesso lo consiglia contro il suo volere, nda], è stata davvero divertente da creare. Quando mi sono messa a scrivere il libro, sapevo che c’erano alcune opinioni che volevo inserire ma non potevano essere di Nate… e allo stesso tempo non volevo lo stereotipo dell’amica saggia che svela la verità al ragazzo immaturo e incasinato. Così faccio contestare a Nate qualsiasi cosa dica Aurit, in modo da creare una specie di dialettica. In questo senso credo che il libro fosse anche una sfida alla mia tendenza a moralizzare ogni cosa.

E Hannah e Greer?

Quando mi è venuta l’idea di scrivere il libro dalla prospettiva del personaggio maschile, la situazione che volevo adattare era la seguente: un ragazzo e una ragazza si frequentano, le cose sembrano andare benissimo per un po’ e poi la donna si avvicina e l’uomo perde interesse e si allontana per ragioni che nessuno dei due riesce davvero ad isolare ed è triste per tutti, non capiscono cosa sta succedendo, le cose peggiorano, si lasciano. Ma l’altro aspetto di questa situazione è che spesso, dal punto di vista della donna, loro rompono e lei pensa “Che delusione, però lui senz’altro ha paura d’impegnarsi, è un suo problema”. E poi un mese dopo lui è già insieme a una donna che sembra molto meno adatta per lui, sulla carta… Ho visto succedere questa situazione, si ripete spesso, e mi sembra un meccanismo abbastanza verosimile. Ecco perché ho voluto drammatizzarlo. Quindi fin dall’inizio sapevo che Nate sarebbe finito con Greer. In più non volevo ridicolizzare Greer perché sarebbe stata una presa in giro per Nate. Credo che Nate e Greer siano problematici per ragioni che dipendono dai difetti di Nate. Greer gli piace più di Elisa, ma lui si fa andare giù una certa mancanza di rispetto che prova nei suoi confronti, nel senso che rispetta la sua intelligenza emotiva ma non la rispetta come qualcuno alla pari di lui. Ma questo è un problema della psicologia di Nate.

Per descrivere il declino della relazione tra Nate e Hannah, utilizzi una conversazione che avviene via email solo in un senso (cioè Hannah scrive ma Nate non risponderà mai). È molto interessante, non solo perché sottolinei giustamente l’importanza della comunicazione quando una relazione inizia a spegnersi, ma anche perché fai dire a Hannah qualcosa che non mi aspetterei da una ragazza: conclude l’ultima mail che spedirà a Nate dicendogli che era davvero negato a letto.

Volevo mostrare il deterioramento veramente rapido del loro rapporto. Quando si lasciano al parco, sono ancora civili ma poi Hannah scrive quella lunga email dove rende palese la sua vulnerabilità e lui non risponde. Lui e il lettore sanno perché non risponde—non è che non risponde perché desidera umiliarla—ma dal punto di vista di Hannah è intenzionale. All’inizio nessuno dei due è cattivo con l’altro, eppure dopo una rottura, se sei molto ferito è difficile evitare di prendersela. E poi credo che il lettore abbia sentito così tante critiche di come è lei a letto… volevo insinuare il dubbio che magari anche lei aveva delle critiche su Nate, volevo anche suggerire che è il punto di vista di Nate ad essere privilegiato in questo libro…

Se dopo un po’ le donne iniziano a voler costruire delle storie stabili e lunghe con un partner che le rispetti, beh non credo che sia una cosa che dobbiamo demonizzare.

Ad un certo punto citi una frase che dice: «When a friendship ceases to grow it immediately begins to decline». Poi segue un passaggio molto bello in cui descrivi la perdita d’interesse da parte di Nate e il crescente attaccamento di Hannah. Credi che siano gli uomini ad essere più inclini a disamorarsi o sono le donne che si innamorano più facilmente?

Non penso affatto che gli uomini abbiano sempre più il potere e noi donne ne siamo sempre soggette—la maggior parte di noi è stato sia Hannah che Nate in una relazione. Credo però che le donne, soprattutto ad una certa età e in una città come New York, arrivano ad un punto in cui pensano alla famiglia e ai bambini e a relazioni che sfociano in matrimoni. E gli uomini sono sottoposti allo stesso tipo di pressione. Penso che questo sia un dato reale e che ci sia la tendenza a considerare deboli le donne che desiderano una relazione. Credo insomma che possa andare in entrambe le direzioni, ma spesso, per certi parametri demografici, gli uomini hanno un po’ più potere, ma solo in generale. Anche io credo che quando una persona si innamora perdutamente di un’altra molti di questi parametri crollano e basta. Se dopo un po’ le donne iniziano a voler costruire delle storie stabili e lunghe con un partner che le rispetti, beh non credo che sia una cosa che dobbiamo demonizzare. E penso che in fondo sia peggio essere come Nate, che perde un’opportunità per maturare e crescere intellettualmente. Per certi versi sembra che aspiri a questa vita dello scrittore, dell’artista, da solo nel suo appartamento, ma in realtà mi pare un atteggiamento controproducente anche per la sua produzione creativa.

Hai fatto riferimento alla solitudine, e infatti mi interessa molto come hai raccontato la condizione del freelancer. Capisco la giornata lavorativa di Nate — improvvisi scoppi di produttività e lunghi periodi di pigrizia, il fatto di dover dare il via alla giornata con attività pratiche come il bucato o la spesa — e mi chiedevo quale ruolo giochi la solitudine. Sia Nate che Hannha sono freelancer, ma se Nate “produce” il suo libro durante la relazione con Hannah, lei è un po’ bloccata e la loro storia influenza la sua produttività. E Nate la giudica per questo. Credi che gli uomini e le donne conducano il proprio lavoro in modo diverso, soprattutto se sono freelance?

Sono stata una freelancer per un sacco di tempo, per cui ho usato molta della mia esperienza per Nate ed è vero che può essere un lavoro solitario. Mi sorprese quando, dopo aver interrotto il mio lavoro come reporter presso un quotidiano, mi trovai a lavorare da freelancer e pensai che sarei stata contenta al cento per cento e invece mi mancavano certe cose del posto di lavoro. Però Nate ha un gruppo di amici piuttosto solido e non è proprio solo, ha piuttosto un umore solitario, però senza sentirsi completamente, terribilmente isolato…

Intendevo anche solitudine come qualcosa di positivo, che può infatti stimolare la produttività.

Credo che Nate abbia l’idea che una fidanzata potrebbe nuocere alla sua produttività—ma in realtà è frutto di una convinzione sbagliata o del fatto che immagina le donne come esigenti e bisognose, ma penso sia solo una scusa per lui. Mi sembra realistico quando Hannah fa fatica ad essere produttiva perché vede che le cose nella relazione stanno andando a rotoli, è successo anche a me e che l’ho visto capitare ad altre persone. Nate fa l’opposto, quando il rapporto diventa meno soddisfacente mette sempre più energie nel lavoro e questo lo fa apparire più potente, lo fa sembrare più razionale. Non sono sicura che la sua reazione sia sempre la migliore e non voglio dire che le donne reagiscono sempre deprimendosi e smettendo di lavorare—ma per certi versi questa potrebbe essere, a volte, una reazione che dipende dal genere. Io simpatizzo con Hannah: sarebbe meglio per lei se… beh alla fine riesce a pubblicare il suo libro!

Jonathan Franzen ha detto che non esiste un bravo scrittore che lavora con la connessione Internet. So per esperienza che questo può essere un problema , e quindi mi chiedevo come lavori… e perché Nate non ha uno smartphone?!

Ah è divertente, sono una grande fan di Franzen e ho letto le sue regole… Ho scritto il romanzo avendo accesso a Internet e non c’è stato problema. In una sua raccolta di saggi, Changing my mind, Zadie Smith scrive riguardo alle varie fasi della produzione narrativa, è un passaggio molto carino e divertente ma poi racconta che si arriva ad un certo punto della scrittura in cui si perde completamente interesse in tutto ciò che non sia il libro — fa ridere, c’è una scena tipo “e poi tuo marito ti dà un colpetto sulla spalla e ti dice che ti sta tradendo con tua sorella e tu rispondi, non scocciarmi, sto lavorando al libro”. Mi sento più vicina a questo tipo di situazione piuttosto che quella di Internet descritta da Franzen. Non nell’immediato inizio, ma una volta che il romanzo e i personaggi hanno cominciato a sembrare concreti è stato molto divertente — non c’era nulla su Internet che potesse aver piglio su di me! Ero quasi in imbarazzo perché ero totalmente all’oscuro dalle notizie del mondo esterno — non capitava tutti i giorni, ma quando era un giorno buono, andava così. Ora mi manca essere così assorbita in qualcosa e sono tornata ad essere la stessa persona di sempre, che controlla le email tutto il tempo. Nate e la cosa dello smartphone — non c’è nulla di particolarmente profondo — ho cominciato a scrivere il romanzo nel 2008 e all’epoca non sembrava strano…

Nate mostra chiaramente segni di ansia, sociale, professionale, emotiva. Vive e lavora in mezzo a persone che sono molto simili a lui: pensi che ci sia un qualche legame tra la sua “comunità” e i problemi che ha rispetto al suo status (che lui monitora in modo iper-consapevole)?

Penso che giochi un ruolo fondamentale. Prima di scrivere il romanzo lavoravo come assistente didattica per ragazzi del liceo — avevo 31, 35 anni e lo facevo per guadagnare — e lavorare su un file di Microsoft Word che non è un libro non era esattamente la mia idea del successo. E in quel periodo è stato molto importante per me essere circondata da amici che sono scrittori e che prendevano la cosa sul serio. Allo stesso tempo, però, ora che il romanzo è uscito, vedo il lato opposto: passo troppo tempo con troppi scrittori, è difficile ignorare le ansie che derivano dall’aspetto negativo dell’editoria, su come sta andando il tuo libro, tutte le questioni finanziarie… mi sembrano cose davvero antitetiche rispetto al contenuto. Con Nate succede qualcosa di simile, psicologicamente gli piace molto avere i suoi amici e via dicendo, ma l’altro lato della medaglia è  gestire dinamiche di competizione, la percezione di se stessi all’interno della “scena”. Però non credo che se ne possa fare a meno.

Mi interessa il peso che ha l’educazione d’élite, come quella delle scuole Ivy League. La maggior parte dei personaggi condivide lo stesso background culturale e finisce poi a fare ottimi lavori che sembrano la naturale continuazione dei loro studi. Quanto di questo è autobiografico?

È una cosa qui a NY, cose come Harvard… giovano davvero alle persone, non solo alla carriera in senso stretto, ma anche all’immagine che hanno di loro stessi. Io non sono andata ad Harvard, sono andata alla Brown, che non è come Harvard ma di certo non posso dire di essere una svantaggiata. Era molto importante per me che Nate fosse andato ad Harvard — era cruciale nella misura in cui, di fronte a se stesso e gli altri, Harvard influenzi la sua percezione di sé come scrittore serio, come intellettuale tutto d’un pezzo, prima che abbia fatto qualcosa per diventarlo sul serio. In più si torna alle questioni di genere, perché ho l’impressione che anche se Nate ed io abbiamo avuto delle carriere simili, lui ha una certa sicurezza o arroganza che non mi appartengono… Dunque “l’ho fatto andare ad Harvard” in parte per una questione di genere e in parte perché rientrava nell’idea che il mondo ha di un intellettuale emergente — quella del giovane uomo bianco che ha studiato ad Harvard. Però non credo che faccia molto bene a noi donne dire “Ah, ecco come sarà fatto il prossimo genio”.

Per alcune persone la gentrificazione è causa di sofferenza: è un dato reale e non lo nego e neanche Nate lo fa. Ma considerare la questione come il male assoluto mi sembra esagerato.

Hai nominato spesso Brooklyn e NY: la gentrificazione è ben presente sullo sfondo. Ho avuto l’impressione che Nate si consideri un po’ un pioniere, e in un passaggio ricorda «the pale freelancers and the grad students who gathered daily at places like Recess would have typed away all by themselves, holed up in rooms of their» — e mi sembra che descriva molto bene questo processo. Io vivo in un quartiere in cui la gentrificazione è ancora in atto, so di esserne causa eppure influenza profondamente la mia vita.

Vedo il problema in modo simile — e credo che sia così anche per Nate. È sia motore che soggetto della gentrificazione, e mi sento come lui, che spesso si sente in colpa. Però mi piace anche molto e ne traggo beneficio e non dev’essere per forza una cosa negativa. Per alcune persone la gentrificazione è causa di sofferenza: è un dato reale e non lo nego e neanche Nate lo fa. Ma considerare la questione come il male assoluto mi sembra esagerato. Anche io ho gli stessi sentimenti contrastanti.

Parlavo con un amico che è uno scrittore e lui diceva che forse, scrivere del mondo letterario può essere un po’ riduttivo, per uno scrittore. Io non ero d’accordo perché credo che nel caso di The Love Affairs of Nathaniel P. sia per tua onestà o semplicemente ragioni pratiche. Ma, per concludere, come reagiresti a questo tipo di critica?

Infatti per me è stata una ragione pratica perché mi interessava l’aspetto relazionale e ho reso Nate uno scrittore perché così non dovevo fare ricerca su altre professioni. E poi è diventato molto divertente approfondire la scena letteraria di Brooklyn, tutti gli scrittori… è diventato rilevante. Capisco chi dice che questo è un mondo troppo piccolo ed isolato, ma non è qualcosa che io valorizzo nella narrativa di finzione. Molte delle nostre esperienze emotive sono universali ed è questo che mi interessa. Se pensiamo a Jane Austen o ad Anna Karenina, non è che voglia davvero conoscere la vita degli aristocratici russi o le corse a cavallo — non leggo storie di persone nel mondo perché mi interessa il loro mondo, altrimenti leggerei libri di sociologia o storia. Ma non voglio stare troppo sulla difensiva, penso solo che se non hai voglia di leggere un libro sulle questioni sentimentali di scrittori istruiti a NY, beh, allora non dovresti leggere il mio libro!

 

Nell’immagine, un dettaglio della copertina dell’edizione Einaudi.