Attualità | Architettura

Ripensare la città o abbandonarla?

Allontanarsi dalla metropoli non è la soluzione: bisogna costruirne una diversa, seguendo la lezione dell'antropologa americana Jane Jacobs.

di Enrico Ratto

Jane Jacobs in Washington Square. Fred W. McDarrah / Getty Images

«L’anno in corso è uno di quelli decisivi per il futuro della città. In tutto il paese urbanisti e amministratori stanno preparando una serie di progetti di riqualificazione che definiranno il carattere del centro delle nostre città per le prossime generazioni». Stati Uniti, 1958. Oppure oggi, ottobre 2020, in un qualsiasi altro luogo nel mondo. Quando Jane Jacobs, antropologa americana e militante nelle piazze che ha dedicato la vita alla critica della pianificazione urbana imposta dall’alto, scrive queste parole la situazione assomigliava molto a quella della nostra epoca, ma per motivi opposti: allora, dagli slums di Manhattan ai quartieri residenziali di San Francisco, le persone erano alla ricerca del miglior modo possibile per vivere la città, oggi stanno seriamente pensando, o fantasticando, di andarsene. Il punto in comune è che, oggi come allora, l’obiettivo delle amministrazioni e degli urbanisti chiamati ad occuparsi del problema era lo stesso: trovare una corrispondenza tra le promesse della città e le aspettative delle persone. «A place for all people», lo definivano all’inizio degli anni ‘70 Richard Rogers e Renzo Piano, mentre progettavano il Centre Pompidou, scegliendo di destinare metà dell’area edificabile ad una piazza, e solo l’altra metà al centro museale. E così non è un caso che, proprio oggi, l’editoria italiana stia riscoprendo Jane Jacobs, con due pubblicazioni in uscita proprio mentre noi stiamo sperimentando una nuova vita lontana dagli uffici e da tutti quei quartieri che potrebbero non servire più. Città e Libertà è la raccolta di scritti di Jane Jacobs appena pubblicata da Eléuthera, a cui seguirà La mia vita, le mie città per Castelvecchi.

Sono le strade viste dal basso e non le mappe zenitali a raccontarci la verità di una metropoli. Sono i vicoli animati, gli isolati corti ed il continuo susseguirsi di negozi a rendere viva la città. «Il miglior posto al quale guardare è la strada», scriveva Jane Jacobs nel 1958, in polemica con gli architetti dell’establishment, chiamati a far crescere costruzioni fuori contesto, sconnesse dalla vera anima della vita urbana che per sua natura è disordinata, è una matassa di attività alle quali è inutile, e per niente funzionale (al contrario di un dichiarato funzionalismo), voler mettere ordine. Per chiarezza: quello di Jacobs è una dichiarazione d’amore per il contesto urbano, e anzi ritiene che sia un atteggiamento estremamente borghese, quindi di impoverimento, abbandonate tutto e scappare nella seconda casa in campagna. «Per quanto screditati e maltrattati, i nostri centri urbani funzionano. Essi hanno bisogno di essere aiutati, non certo di essere rasi al suolo. Il punto è rendere le strade più sorprendenti, compatte, varie e piene di quanto lo fossero prima, non di meno».

Così, tornando all’attualità, per trovare una sintesi alla dialettica su cui ci siamo intrattenuti negli ultimi mesi tra metropoli e borghi abbandonati, potrebbe avere un senso quella che sembrava la soluzione più ovvia: una città diversa. «Progettare una città è facile», scriveva Jane Jacobs negli anni ‘50, «ricostruirne una che sia vitale richiede immaginazione».E l’immaginazione parte dalla strada, come dovrebbe essere per una antropologa, per una etnografa urbana o, per i suoi critici, come è per “una casalinga”. Jane Jacobs scrive il suo testo più importante, Vita e morte delle grandi città, nel 1961, e una donna che indica gli architetti come «bambini egocentrici, i quali, giocando con i loro graziosi cubetti, gridano: guarda cos’ho fatto!», diventa oggetto di questo genere di giudizio. Solo che Jacobs dice che è esattamente così, che probabilmente solo una donna può rendersi conto di come debbano essere strutturati i quartieri di una città, perché lei, a differenza di un uomo, vive una quotidianità articolata in mille momenti diversi: dall’accompagnare i bambini a scuola, al momento della spesa, alle chiacchiere con i vicini di casa, fino alla gestione della sicurezza che viene affrontata meglio, dalle autorità, se il quartiere è vivo e popolato.

Oggi, le grandi vittime del cambiamento delle nostre abitudini sono i quartieri mono-funzionali. Gestita l’emergenza sanitaria, affrontata a livello statale la crisi economica, i sindaci non sanno come reagire al deserto – umano, sociale – dei quartieri degli affari. Da Londra, a New York, a Milano, è chiaro a tutti che il problema sono le intere aree urbane progettate per accogliere le persone che lavorano (in ufficio), per dar loro ristoranti, palestre, parcheggi, spazi verdi per decompressioni e brainstorming. Tutte aree senza un piano b, nate sapendo benissimo che, dopo le sei di sera, di tutta quella massa umana si sarebbe occupato un altro quartiere. Passaggi di competenze, pianificati dall’alto. Saranno le stesse persone a trovare una soluzione? Secondo Jacobs, già cinquant’anni fa la «“zonizzazione” ha spinto le persone  ad ingegnarsi con piccole scappatoie, per nutrire l’immaginazione. Nei vecchi edifici industriali, strani fiori architettonici sono sbocciati. Qui un vecchio pastificio, là un’obsoleta fabbrica di cioccolato, da un’altra parte un magazzino vecchio ma bello vivono una nuova vita dando rifugio a ristoranti all’aperto, sale per prove di danza, piccoli negozi e laboratori». Attività diverse per funzione, target sociale, che messe insieme rendono vivo un quartiere ventiquattr’ore su ventiquattro. E che, probabilmente, rendono la vita urbana possibile anche a piedi. Già, perché questo è l’altro degli obiettivi delle amministrazioni contemporanee, che sembrano essersi accorte come sia più efficiente trasferire i servizi nei singoli quartieri, piuttosto che far attraversare, ogni giorno, a migliaia di persone la città in auto, in metropolitana, ovviamente in bicicletta e monopattino, per raggiungere ciò di cui hanno bisogno.

La “ville du quart d’heure” è quella che ha promesso Anne Hidalgo la scorsa primavera, durante la sua campagna per la rielezione a sindaco di Parigi. Quartieri autosufficienti, dove si può trovare tutto nel giro di un quarto d’ora, dai servizi, agli ospedali, alle scuole, all’intrattenimento, perfino il lavoro. «Guardiamo per un attimo alla dimensione fisica della strada», diceva Jacobs in un discorso pubblico del 1981. «L’utente del centro della città è soprattutto qualcuno che si sposta a piedi, e per godere della propria condizione ha bisogno di vedere un sacco di contrasti nelle strade». Insomma, queste città, per essere davvero efficienti, devono imparare a convivere con il disordine e l’improvvisazione. Come tutti noi.