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I fratelli Gallagher si sono esibiti insieme per la prima volta dopo 16 anni In un circolo operaio a Londra.

L’arte delle cattive notizie

Da Bowie a Fidel: il coccodrillo è il rito del giornalismo che più si avvicina alla letteratura. Come si è evoluto il genere, quali giornali l’hanno fatto meglio e chi ne è stato maestro.

28 Novembre 2016

Scrivere gli obituary – i ritratti di personaggi illustri appena morti – è il rito del giornalismo che più si avvicina all’arte letteraria. Il termine italiano per questo tipo di articolo è “coccodrillo”, il nome si riferisce alle lacrime che il coccodrillo verserebbe in modo ipocrita, dopo aver divorato la vittima. Nel coccodrillo perfetto piccoli dettagli della persona descritta devono suggerire più di carriere intere già note a tutti. Un vezzo deve illuminare un carattere eccezionale. Un aneddoto o una frase attribuita alla celebrità scomparsa hanno il compito di disegnare una parabola umana che spesso ha segnato un’epoca. Il risultato è che leggere un resoconto della vita di chi è appena morto sembra a volte il modo migliore per sapere in che mondo viviamo.

Di solito si conoscono già i tratti essenziali del defunto. L’obituary deve essere insieme divulgativo e tentare di gettare una luce inedita sulla persona scomparsa. Trattandosi spesso di profili ammirati – attori, scrittori, politici, cantanti, sportivi, imprenditori – il lettore ha soprattutto bisogno di mettere ordine nelle emozioni legate a quel talento e riviverle nel momento del distacco. L’obituary svolge per la collettività il ruolo delle vecchie lettere consolatorie.

Prendiamo quest’anno. All’inizio del 2016 muore il cantante britannico David Bowie, qualcuno il giorno dopo deve raccontare «la leggenda del rock» a lettori che lo conoscono a memoria. Pochi giorni dopo, muore Ettore Scola: i giornali danno «l’addio al maestro del cinema italiano». A febbraio muoiono Umberto Eco («È veramente difficile fare un necrologio di Umberto Eco») e la scrittrice Harper Lee. A marzo scompaiono Nancy Reagan e Paolo Poli («lutto nel mondo del teatro»), ad aprile Gianroberto Casaleggio, a maggio Marco Pannella («il leader radicale si è spento») e Giorgio Albertazzi («leggenda del teatro»). D’estate se ne vanno Muhammad Ali, Bud Spencer («il gigante buono del cinema italiano»), Michael Cimino, Valentino Zeichen e in soli due giorni Marta Marzotto («icona di stile italiano e regina dei salotti») e Anna Marchesini («regina di ironia»). Negli ultimi mesi se ne sono andati Carlo Azeglio Ciampi, Dario Fo («eterno giullare») e Leonard Cohen («Il mondo piange il poeta visionario della musica»). A volte i morti sono controversi, e alla morte di Fidel Castro si può anche leggere sui giornali: «Meglio tardi che mai».

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Esiste una retorica dell’addio. Il mondo piange i maestri, i giganti si spengono, e sempre, con loro “tramonta un’epoca”. Chi è stato accanto a loro fino all’ultimo minuto? Hanno lottato durante la malattia? Cosa lasciano? Cosa sarebbero stati quegli anni senza di loro? Gli obituary sono una tradizione che viene dritta dalle orazioni funebri, discorsi preparati per omaggiare i morti. L’elogio più famoso della storia è quello per Cesare pronunciato da Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare. Già nell’orazione funebre classica si dovevano raccontare gli aspetti pubblici del morto – le cariche, le vittorie in battaglia – e poi le virtù private – essere un buon padre di famiglia, aver osservato il culto agli dei, essere stato continente nei costumi. Quelle regole retoriche non sono andate del tutto perse nel giornalismo di oggi. Un tempo si doveva essere più sobri e non fare sfoggio di abilità retoriche mentre oggi la stampa si sente spesso libera di esagerare con uno stile eccessivamente solenne o eccessivamente emotivo.

Nel mondo anglosassone scrivere obituary è una vocazione, esistono giornalisti che non si occupano d’altro. Il genere è in continua evoluzione. Oggi il coccodrillo non è più considerato un pezzo noioso, assegnato come punizione al giornalista, si è trasformato in un terreno per penne sofisticate e articoli creativi, spesso preparati con grande anticipo. Occuparsene è una professione lugubre, triste, depressiva? No, stando a quanto sostiene un’autorità in materia, Margalit Fox, del New York Times. Secondo Fox il 98 per cento degli obituary infatti non ha a che fare con la morte, ma con la vita. Con il tempo sono cambiate delle formule tipiche. Fino a qualche decennio fa il pudore induceva a giri di frasi ed eufemismi: “breve malattia” voleva dire attacco di cuore, “lunga malattia” stava per cancro. Ora le cose sono cambiate e in caso di morte si specifica sempre quale sia la causa del decesso: «Siamo obbligati a dire la causa della morte anche se è qualcosa di stigmatizzato come l’Aids o il suicidio», ha spiegato Margalit Fox alla Paris Review.

Il pioniere degli obituary è stato Alden Whitman, detto Mr. Bad News. Tra il 1964 e il 1976 per il New York Times ne preparò centinaia prima che le persone morissero, viaggiando per il mondo e parlando in modo informale con i leader di diversi campi. Nell’obituary che fu pubblicato il giorno dopo la sua morte, nel 1990, il NYT scrisse: «Dette vita a uno stile e un approccio personale della scrittura degli obituary, intervistando le persone prima della loro morte».

Sono noti a livello internazionale gli obituary dell’Economist, alcuni dedicati anche a persone poco note. Il settimanale economico britannico narra con grande eleganza la vita partendo da minuzie insolite, rievocando tic, collezioni, abitudini private, dimensioni spirituali (le Marlboro Lights fumate da Leonard Cohen, Nancy Reagan che piange giorni quando il Washington Star nota le sue caviglie grosse, la collezione di campanelli di Giulio Andreotti). La pagina degli obituary dell’Economist è affidata a Ann Wroe, che ha raccolto 199 profili e li ha pubblicati con Keith Colquhoun nel volume The Economist Book of Obituaries (2008). A parte alcuni ritratti classici, come Giovanni Paolo II o lo scrittore Norman Mailer, nel libro sono presenti profili meno usuali: l’inventore degli instant noodles, un gangster americano, un filosofo del consumismo, un veterano della battaglia di Gallipoli morto a 103 anni.

Alcuni obituary restano memorabili. Alla morte di Elizabeth Taylor, nel 2011, il New York Times pubblicò un articolo funebre a firma di Mes Gussow che era intanto morto nel 2005. L’articolo era dunque pronto da anni e il Times non ebbe timore di specificare che l’autore era Gussow, e che Peter Keepnews aveva solo contributo ad aggiornarlo.

Un caso a parte sono gli obituary prematuri, usciti quando la persona di cui si parla è ancora in vita. È celebre quello di Monica Vitti, data per morta suicida dal quotidiano francese Le Monde nel 1988, in un articolo che provava a spiegare anche le ragioni del suicidio: «Rifiutando di invecchiare, nel corso degli anni Ottanta, non trova più ruoli e registi che le convengono. Dall’universo di Antonioni a quello che aveva ultimamente scelto, Monica Vitti resta per noi una attrice straordinaria e, in un certo modo, un mito». Un riquadro di Colette Godard aggiungeva come analisi: «Dietro l’armonia, c’era una ferita, dissimulata, senza dubbio, con troppo pudore. Monica Vitti ha preferito abbandonare la vita e noi non abbiamo saputo trattenerla».

La lista delle persone date per morte in vita è lunga e riguarda anche una serie di scrittori come Charles Baudelaire, Ernest Hemingway (dato per morto in un incidente aereo), Gabriel García Márquez (dato per morto da un quotidiano peruviano). La morte annunciata con la risposta più divertente resta quella di Mark Twain, che replicò: “Le notizie sulla mia morte sono fortemente esagerate”. Un libro di Marilyn Johnson racconta il perverso piacere del leggere i necrologi e spiega perché non c’è da stupirsi se alcuni lettori saltano le pagine di notizie e sport e vanno direttamente ai necrologi. Si intitola The Dead Beat e ha un bellissimo sottotitolo Lost Souls, Lucky Stiffs, and the Perverse Pleasures of Obituaries.

Coccodrilli e letteratura si sono intrecciati ancora una volta nel 2015 con l’uscita dell’undicesima raccolta di racconti di Stephen King, Il bazar dei brutti sogni. Il protagonista del racconto “Io seppellisco i vivi” tiene una rubrica di necrologi e si accorge di avere uno strano potere. Ogni volta che scrive un necrologio di una persona viva – prima capita per errore, poi per vendetta – quella muore entro poco tempo, per cause strane. Potere di certe orazioni funebri. Omaggiare i morti, o seppellirli due volte.

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