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Infanzia di un terrorista domestico

Esce Uno di noi, biografia di Breivik, simbolo contemporaneo della banalità del male. Pubblichiamo un estratto che delinea il suo profilo psicologico da bambino.

20 Maggio 2016

Anders fu sistemato nella nursery del centro. Era anche libero di andare nella stanza dei giochi, dove c’erano automobiline e bambole, orsacchiotti e un teatro delle marionette, cowboy e indiani, colori e pastelli, forbici e carta e tanti altri giocattoli. Ciò che gli specialisti osservarono era un bambino che sembrava non trarre alcuna gioia dalla vita, totalmente diverso dal bimbo esigente descritto da sua madre.

«Mostra una marcata incapacità di entrare nello spirito dei giochi. Non trae alcun piacere dai giocattoli. Quando gli altri bambini stanno giocando, non partecipa. Non ha alcuna familiarità con i giochi del tipo “facciamo finta che” e quando gioca è sempre circospetto. Anders manca di spontaneità, dell’impulso ad agire, di immaginazione e della capacità di empatia. Né mostra i cambiamenti di umore tipici di molti bambini della sua età. Non possiede un linguaggio per esprimere le proprie emozioni» scrisse Per Olav Næss, lo psichiatra infantile incaricato di valutarlo. Quando giocava al negozio, gli interessava il funzionamento del registro di cassa, non il gioco nel suo insieme.

«È sorprendente quanta poca attenzione pretenda Anders. È circospetto, controllato e di rado infastidisce qualcuno. È estremamente pulito e ordinato e diventa molto insicuro quando qualcosa glielo impedisce. Non prende l’iniziativa per entrare in contatto con altri bambini. Partecipa meccanicamente alle attività senza manifestare piacere o entusiasmo. Spesso appare triste. Trova difficoltà a esprimere le proprie emozioni, ma quando finalmente reagisce, la sua reazione è decisamente vigorosa» proseguiva la relazione dello psichiatra.

Ogni volta che si accorgeva che qualcuno, un adulto o un altro bambino, cercava di stabilire un contatto con lui, veniva preso da un’attività febbrile. Era come se attivasse immediatamente un meccanismo di difesa che inviava all’esterno il messaggio «non seccarmi, sono occupato» quando qualcuno voleva qualcosa da lui. Lo psichiatra infantile notò anche un sorriso forzato, difensivo.

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Tuttavia Anders dimostrò subito di sapersi adattare al nuovo ambiente. Dopo pochi giorni decise che gli piaceva venire alla nursery del centro e che era «stupido andarsene» al termine della sessione quotidiana. Manifestava piacere nel padroneggiare nuove abilità e sapeva accettare le lodi. Il personale del centro ne concluse che il problema non era un danno psicologico individuale di Anders; in altre parole, non era un danno a cui non si potesse porre rimedio inserendo il bambino in un contesto nuovo e positivo. Aveva risorse notevoli a cui attingere. Era la situazione in famiglia che stava minando la sua psiche. La conclusione generale fu che Anders era stato costretto a diventare un capro espiatorio per le frustrazioni di sua madre.

Gli psicologi del centro che parlarono con Wenche e la sottoposero ad alcuni test scoprirono una donna che viveva in un suo mondo privato, interiore, e che aveva una capacità limitata di relazionarsi con gli altri. I suoi rapporti con chi le era vicino erano caratterizzati dall’ansia. Emotivamente, Wenche era segnata da una depressione che lei negava, scrissero nel sunto finale della sua cartella clinica.

«È minacciata da conflitti caotici e manifesta segni di pensiero illogico quand’è sotto pressione. Dal punto di vista mentale ha un disturbo della personalità borderline e il suo funzionamento psicologico è discontinuo: in una situazione di vita strutturata, è in grado di comportarsi in maniera adeguata, ma è vulnerabile nei momenti di crisi.» Il comportamento di Wenche nei confronti di Anders poteva cambiare repentinamente. Un momento era dolce e gentile, il momento dopo cominciava ad aggredirlo con degli urlacci. I suoi rifiuti potevano essere brutali. Il personale del centro la sentì gridare a suo figlio: «Vorrei che fossi morto!».

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Le bambine lo trovavano disgustoso. Era impulsivo ed era crudele con gli animali. Per un po’ tenne dei topi in una gabbia e si divertiva a punzecchiarli con delle penne o delle matite. Eva diceva che secondo lei così faceva male a quegli animaletti, ma lui non le dava retta. Catturava dei bombi, li buttava nell’acqua e poi li riportava verso la superficie con un colino per vederli affogare. Gli adulti di Silkestrå che possedevano degli animali da compagnia spiegavano chiaramente ai figli che Anders non avrebbe mai dovuto avvicinarsi ai loro gatti o ai loro cani. Spesso era l’unico bambino a non essere invitato ad accarezzare i nuovi cuccioli degli altri bimbi.

Poco a poco, Eva cominciò ad avere la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava, ma non osava dire ai genitori che non voleva più giocare con Anders, perché nel frattempo sua madre e Wenche erano diventate buone amiche. Wenche le stava insegnando ad adattarsi alla vita in Norvegia e le passava i vestiti che non andavano più bene ad Anders e a Elisabeth. Eva non disse mai ai suoi genitori che era Anders a spezzare la cima delle rose dei vicini lasciando solo i gambi, o a gettare sassi nelle finestre aperte prima di darsela a gambe, o che prendeva in giro e tormentava i bambini più piccoli di lui, in particolare i nuovi arrivati, che non avevano ancora gli strumenti linguistici per difendersi. Una delle sue vittime era un bimbetto gracile che veniva dall’Eritrea. Una volta Anders trovò un vecchio tappeto, vi avvolse dentro il bimbo e si mise a saltare su di lui. «Smettila, gli fai male» gli gridò Eva, ma se ne rimase in disparte a guardare.

C’era solo una cosa che Anders non riusciva a sopportare: essere rimproverato. Quando capitava, lui si dileguava mentre gli altri bambini rimanevano lì a prendersi una lavata di capo per aver rubato delle mele o aver suonato i citofoni ed essere corsi via. Anders tornava a fare capolino quando le cose si calmavano. Una volta non riuscì a squagliarsela in tempo e fu preso con le mani nel sacco dalla signora Broch. Per vendicarsi della ramanzina ricevuta, fece la pipì sullo zerbino della donna. La fece sul suo giornale. La fece nella sua cassetta delle lettere. In seguito andò a fare la pipì nel suo ripostiglio. Fu dopo quella volta che fu ritenuto il responsabile del puzzo d’urina che ammorbava il seminterrato.

Una delle vittime delle sue prepotenze era una ragazzina affetta da disabilità mentale. Un giorno Anders schiacciò una mela marcia sulla faccia della bambola preferita della bambina proprio mentre passava suo padre. «Infastidisci ancora mia figlia e io ti appendo alle corde del bucato in cantina», ruggì l’uomo, un professore universitario. Anders ne prese nota. Rispettava le minacce di un padre. Non si avvicinò mai più a quella bambina.

Seierstad cover

© 2013 Asne Seierstad
© 2016 Rizzoli Libri S.p.A. / Rizzoli, Milano
Immagini: Breivik al processo (Jonathan Nackstrand/Getty Images); una vetrina di televisori a Oslo (Daniel Sannum Lauten/AFP/Getty Images); veduta dell’isola di Utoya (Kallestad, Gorm/AFP/Getty Images); una lettera mandata da Breivik all’AFP dal carcere (Pierre-Henry Deshayes/AFP/Getty Images).
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