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13:19 venerdì 27 giugno 2025
Anna Wintour ha annunciato che non sarà più la direttrice di Vogue America Ma ovviamente non ha alcuna intenzione di smettere di lavorare: resterà global editorial director di Vogue e la global chief content officer di Condé Nast.
Macron ha detto che vuole far diventare la musica elettronica francese patrimonio Unesco La musica elettronica l'abbiamo inventata noi. Solo noi abbiamo quel French Touch», ha detto, dando l'annuncio in un'intervista radiofonica.
Se c’è un posto che non soffrirà mai di overtourism è certamente il resort appena inaugurato da Kim Jong-un in Corea del Nord Il supremo leader ha partecipato alla cerimonia di apertura e si è divertito a guardare degli uomini che volavano giù dagli scivoli ad acqua.
È morta a 91 anni Lea Massari, la diva che abbandonò il cinema Dopo aver lavorato con i più grandi registi del cinema italiano, si ritirò a vita privata 30 anni fa e non tornò mai più a recitare. 
Aaron Sorkin scriverà e (forse) dirigerà il sequel di The Social Network Sarebbe già al lavoro sulla sceneggiatura ma stavolta punta anche a dirigere, subentrando a David Fincher.
Denis Villeneuve è stato appena annunciato come regista del prossimo 007 ma c’è già una grandissima attesa Sarà lui a dirigere il primo Bond della gestione Amazon. Adesso resta solo da scoprire l'attore che interpreterà 007 in questa nuova epoca.
C’è un sito che usa il riconoscimento facciale per trovare e denunciare i poliziotti violenti Si chiama fuckLAPD.com, l'ha creato un artista americano per trovare gli agenti che coprono i loro numeri identificativi. 
In un nuovo biopic su James Dean si racconta la relazione segreta che l’attore ebbe con un uomo Il film è tratto dal memoir di William Bast, che conobbe l'attore da giovanissimo ed ebbe con lui una relazione durata fino alla morte di Dean.

Trovare la pace in una chat privata

Slack è un'app concettualmente agli antipodi rispetto all'Internet della condivisione di Facebook e Twitter, e sta avendo un successo enorme. Perché?

28 Agosto 2015

Negli ultimi anni abbiamo iniziato a porci seriamente il problema degli effetti che quell’ecosistema che chiamiamo “Web” ha su noi stessi come società e come individui, a ogni livello. E così c’è stato chi si è chiesto se la Rete ci rende stupidi, chi ha indagato se ci rende o meno liberi. Ma un aspetto su cui forse non si è ancora riflettuto abbastanza è come l’architettura costitutiva dei social network ci ha reso dei personaggi pubblici. Scrivere un tweet su Twitter o un post su Facebook espone a un numero di interazioni teoricamente esponenziale, una risorsa intuitivamente positiva (non si contano le giuste lodi al ruolo dei social network nel catalizzare e facilitare le rivolte delle Primavere arabe del 2011, per fare un esempio ampiamente discusso), ma anche una potenziale fonte di rischi.

La viralità non è “buona” o “cattiva”, ma le conseguenze dell’avere un’identità pubblica esposta sono tangibili

La viralità non è necessariamente “buona” o “cattiva”, ma le conseguenze dell’avere un’identità pubblica costantemente esposta sono tangibili, e ormai parte integrante della nostra vita quotidiana: quanto spesso rispondiamo a quella peculiare urgenza di postare qualcosa sui nostri profili personali con l’autocensura, temendo che il pubblico che ci legge possa fraintendere il nostro post o usarlo per prendersela con noi, oppure che ciò che abbiamo in mente non sia abbastanza interessante? Quante volte quel pubblico ha frainteso per davvero? Trovarsi in apprensione per la propria identità online è una situazione comune a molti – basta un messaggio controverso, un troll particolarmente ostinato o un malinteso prolungato – e la reputazione sul web, una versione giocoforza deformata di quella offline, è di frequente un problema di cui tenere conto. Come lo scrittore Navneet Alang ha sostenuto in un recente pezzo uscito su New Republic, «ci stiamo lentamente abituando a questa nuova versione di identità pubblica, un sé che può essere replicato istantaneamente e globalmente con tutti i suoi difetti — ed è estenuante».

Alang, come altri, si dice stanco delle dinamiche che tramutano l’idillio del social network in una terra ansiogena di gogne mediatiche, timori di abusi declinati su scale di migliaia di utenti e onnipresenti malintesi. Per far fronte al problema senza abbandonare l’uso quotidiano del web (esiste ancora un web discorsivo e fatto di scambi reciproci e condivisione al di là di Facebook e Twitter?), l’autore scrive di aver iniziato a usare Slack, una piattaforma che offre un servizio professionale di chat per i team che lavorano insieme nelle aziende. La particolarità di Slack, che sembra una versione modernizzata del vecchio protocollo IRC, va ontologicamente in senso opposto rispetto ai servizi che hanno conquistato Internet: i gruppi di conversazione sono privati, e i messaggi inviati rimangono consultabili soltanto dagli utenti approvati dall’amministratore. Alang, che si è iscritto a una chat di scrittori e accademici, arriva a estremizzare il dilemma che gli sovviene ogniqualvolta vuole condividere qualcosa in due domande: “Voglio rischiare di subire l’ira di sconosciuti su Internet?” e “Voglio parlare con persone fighe e intelligenti che conosco?”.

Screenshot di una chat di Slack.
Screenshot di una chat di Slack.

Nel suo articolo, lo scrittore ammette che un certo grado di bilanciamento tra pubblico e privato nel cosiddetto social web esiste: possiamo limitare la privacy dei nostri post, scegliere chi bloccare, decidere chi leggerà cosa. Eppure, in maniera interessante, Alang individua nella «scala e popolarità dei nostri social network» un fattore che sta influenzando questo equilibrio, portandoci a limare di continuo il confine tra pubblicabile e impubblicabile. Le sue tesi sono facilmente attaccabili e, in parte, aperte a una serie di smentite – per parlare con amici più stretti, parenti e conoscenti intimi esistono già dozzine di altri mezzi, come e più privati di Slack, e l’intrinseco valore di Internet non è proprio permetterci di trovare qualcosa di meritevole in quel mare di «sconosciuti»? – ma è difficile non vederci anche il segnale di un trend in atto: Slack, lanciato nel febbraio 2014, a giugno di quest’anno aveva già superato il milione di utenti attivi giornalmente, quattro mesi dopo aver sfiorato i tre miliardi di dollari di valore commerciale. «Siccome il web è diventato così pubblico, enorme e travolgente, è ormai necessario ritirarsi e cercare i legami fondamentali nella quiete del privato», conclude Alang.

La particolarità di Slack va ontologicamente in senso opposto rispetto ai servizi che hanno conquistato Internet

Com’è possibile che un’applicazione usata in ambito lavorativo abbia avuto un successo così marcato e rapido? Semplice: gli utenti di Slack non lo usano per lavoro, o non soltanto. Il magazine Fast Company qualche mese fa chiedeva a Todd Kennedy, trentasettenne manager di una startup di software, perché avesse deciso di spostare le conversazioni tra lui e sua moglie Julie su un’interfaccia che usa quotidianamente al lavoro. La risposta è stata la più immediata che possa venire in mente: «Ce l’ho sul telefono, ce l’ho sull’iPad, ed è sempre aperto». Questa facilità d’uso, al pari di un recente aggiornamento di Slack che permette ai suoi utenti di partecipare a chat diverse durante la stessa sessione e della capillarità della diffusione aziendale del software hanno reso semplice il suo sconfinamento osmotico nella vita privata.

Oggi la comunità – o, per meglio dire, le community, al plurale – di Slack sono composte in parti uguali da professionisti di ogni settore, persone comuni intente a scambiare messaggi coi propri cari e appassionati riuniti da un interesse comune. Passando in rassegna i gruppi inseriti su Chit Chats, un sito che li raccoglie e mette in vetrina, si notano Slack dedicati agli amanti del campeggio, alla condivisione di case e appartamenti, alle «Women in Technology». Si tratta di insiemi chiusi, permeati da un’aura di esclusività e sollevati dall’ansia di postare il contenuto giusto al momento giusto. Curtis Herbert, admin di un gruppo di sviluppatori di iOs di base a Filadelfia, ha sottolineato a Fast Company come, dove su Twitter e Facebook «senti che ciò che stai postando deve avere un significato […], con Slack butterai giù qualcosa come se stessi parlando a qualcuno al bar».

Contrariamente alle prerogative del mezzo, esiste addirittura un gruppo di incontri che chiede soltanto di inserire tramite un form la propria età e provenienza e attendere la conferma della propria iscrizione. Slack ha un’interfaccia pulita e user-friendly: ci sono le menzioni e le stelline con funzione di segnalibro che mi sembra di aver già visto altrove, un archivio di messaggi con funzione di ricerca e il pratico tasto per passare da un canale all’altro. Sul mio neonato gruppo creato per l’occasione tuttavia, ahimè, non c’è ancora nessuno online, e per ora l’anti-social network pare soltanto una brughiera mesta e desolata. L’unica chat a cui riesco ad accedere in questo web fatto di enclosures, per ora, è una di amanti delle chitarre, ma non ho mai suonato uno strumento in vita mia.

Nell’immagine in evidenza: Due persone fanno yoga all’interno di un’installazione del festival della scultura Sculptures By the Sea. Sydney, 23 ottobre 2014 (Cameron Spencer/Getty Images)
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