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Hbo ha fatto un documentario per spiegare Amanda Lear e la tv italiana agli americani Si intitola Enigma, negli Usa uscirà a fine giugno e nel trailer ci sono anche Domenica In, Mara Venier e Gianni Boncompagni.
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Pasoliniano o rosselliniano?

Esce al cinema la versione restaurata di Roma città aperta e siamo andati a vederla in un cinema del Pigneto. Appunti per nuovi neorealismi borghesi e immobiliari.

04 Aprile 2014

“Rosselliniano” si potrà dire dire, d’ora in poi, forse, al posto dell’abusato e troppo generico “pasoliniano”, a proposito forse di molte cose, di quartieri e estetiche borghesi giuste, con un loro perché. Partendo magari da questo Roma Città aperta che il 31 marzo è tornato nei cinema in versione restaurata, con tutta una gamma di messaggi poco capiti all’epoca, e materiali per rivalutazioni e riqualificazioni. Anche urbanistiche: visto al cinema Nuovo Aquila del Pigneto, dunque proprio a chilometri zero, perché il film di Roberto Rossellini è stato girato interamente al quartiere già appunto pasoliniano della capitale, anche se in proporzione di scene pasoliniane, qui pochissime, solo qualcosa di Accattone; mentre in Roma Città aperta, 1945, tutto un ready made bombardato già pronto tra Prenestina e Casilina, anche in vie ancora non gentrificate, con prospettive culturali e immobiliari, forse.

A partire dalla scena famosa magistrale, con Anna Magnani mitragliata dai nazisti, in via Raimondo Montecuccoli, traversa del Pigneto oggi sbagliato (dunque forse poco pasoliniano), dalla parte dell’isola pedonale, e nemmeno du côté degli spacciatori ma proprio attraversata la Prenestina, e la tangenziale che si vorrà prossima highline sospesa fiorita, e già invece memoria fantozziana per autobus al volo. Al civico 17 di via Raimondo Montecuccoli (raro esempio di militare e uomo di lettere italiano, «il maggiore e il più dotto fra i capitani nati in Italia dopo il risorgimento dalla barbarie» secondo Foscolo), un palazzone per aristocrazie ferroviarie e operaie che oggi affaccia come un forte sui Frecciarossa che passano, però con una sua alta dignità urbanistica (e il solito discorso: meglio gli architetti fascisti dei geometri democristiani).

Qui, bugnati e portierati e androni e iscrizioni latine, qui al 17 Anna Magnani alias la sora Pina attende di sposarsi col suo Francesco che viene invece rastrellato; e la di lei sorella Lauretta di facili costumi, forse in un giro ante litteram di baby (ma mica tanto) squillo dei Parioli, insieme all’amica Marina Mari, attricetta morfinomane legata a una lesbo-kapo cattivissima che si chiama Ingrid, è vestita benissimo con dei tailleur-pantalone tipo Armani e camicette perfette chiuse fino all’ultimo bottone; mentre il kapo torturatore è un signor Bergmann – Ingrid e Bergmann, con due enne, ma Rossellini incontrerà l’attrice danese solo tre anni dopo, con la famosa lettera paracula («Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo ‘ti amo’, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei») dunque predestinazione o sfiga per la Magnani mitragliata davanti al civico 17.

Certo i cattolici non fanno mai una bella fine in Rossellini: la Magnani che ammette di volersi sposare in chiesa perché «in fondo io ci credo, in Dio», finisce appunto mitragliata, mentre la Bergman (con una n) sbrocca notoriamente sul ciglio del vulcano in Stromboli (1950). Ritrovando però improvvisamente la fede con vestitino e valigetta tipo Prada, non adatti all’escursione ma molto eleganti (rosselliniani?).

I perfidi Ingrid (la kapo) e Bergmann (il kapo) rilevano «che noia. Quanto urlano questi italiani», però non parlano, e loro sono molto seccati, perché hanno dei drink da bere e forse delle porcherie da fare.

In Roma città aperta sempre la Magnani pretende i sacramenti da don Pietro, cioè poi naturalmente Aldo Fabrizi, simmetrico di don Abbondio e anzi il religioso più coraggioso del cinema italiano, in tempi pre-don Matteo; che non solo la sposerebbe incinta senza battere ciglio, ma nasconde anche bombe e mitra e fa la staffetta partigiana disinvoltissima; e officia a Sant’Elena, parrocchia costruita nel 1913 sulla Casilina, di fronte a trenini oggi assolutamente identici (gli stessi?) a quelli del ’45. Piccola cattedrale di periferia a tre navate, tetto a capanna, vista sul Mandrione, con un opus latericium modesto ma classico sulla facciata, e un ingresso oggi opus-alluminio anodizzato; dentro, affreschi industriali, e candeline piccole e basse, proprio Ikea, e, alla messa delle diciotto, nove persone; viceparroco di trentacinque anni, indiano, e vice-vice parroco, o chierichetto, africano, ancora più giovane. Un busto dedicato a Giovanni Paolo II e un sacrario per padre Raffaele  Melis, morto nei bombardamenti del ’43 qui di fronte mentre distribuiva cibo agli affamati del Pigneto.

Tanti eroismi più ecclesiastici che militari nella realtà, dunque, mentre al cinema il solito topos consolatorio e compensatorio del «vi faccio vedere come muore un italiano». I perfidi Ingrid (la kapo) e Bergmann (il kapo) tra uno strappo di unghie e una scossa elettrica ai prigionieri, rilevano «che noia. Quanto urlano questi italiani», però non parlano, e loro sono molto seccati, perché hanno dei drink da bere e forse delle porcherie da fare. E il prete li maledice pure, in una scena molto Caravaggio o Hopper con una luce che va proprio in faccia a Fabrizi, e le armate del male che indietreggiano di fronte al trascendente cristiano (mentre nella realtà si sa che i nazisti avevano già pronto un piano per rapire l’ingiustamente sputtanato Pio XII).

Nazisti però sempre elegantissimi, qui, post telefoni bianchi; banalità del male in prêt à porter italiano e glamour e droga e drinks e ambiguità sessuale e pelliccette giusti. Tutto molto rosselliniano? Ingrid corrompe l’attricetta Marina Mari, la porta sulla cattivissima strada, la rifornisce di morfina e visoni, mentre il Kapo Bergmann molto gay sublima solo con torture, e non combina nulla di pasoliniano, né al  Pigneto né altrove. E dunque è sempre molto nervoso.

Marina Mari è introdotta dalla hit 1944 di Alfredo Clerici Capocabana (Laggiù/A Capocabana/la donna è regina/La donna è sovrana) e ha poi un bellissimo momento da olgettina adulta, quando le viene sbattuta in faccia la sua realtà: «E tu credi che la felicità sia avere un alloggio ai Parioli dei bei vestiti una cameriera degli amanti ricchi» le dice il fidanzato partigiano che finirà poi malissimo. E lei, giustamente: «Sei come tutti gli altri, anzi peggio, perché mi fai anche la predica». Anna Magnani-Sora Pina con invidia sociale la calunnia: “La madre faceva la portiera a via Tiburtina, dove mi padre aveva il negozio di stagnaro». E lui, giustamente: «Non è una donna per me. Forse l’avessi conosciuta prima: quando stava a via Tiburtina». É il momento in cui mondo pasoliniano e mondo rosselliniano si separano per sempre.

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