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La sdraio Spaghetti, icona di plastica del pop italiano

Simbolo del Made in Italy che fu, oggetto immancabile nelle case di villeggiatura, la sdraio pieghevole disegnata da Francesco Favagrossa rappresenta perfettamente l'epoca che vedeva la plastica come il materiale del futuro.

di Alessia Delisi

Nella scena iniziale de Il laureato, film cult di Mike Nichols del 1967, il protagonista Benjamin “Ben” Braddock – un giovane e ancora sconosciuto Dustin Hoffman – torna a casa per le vacanze estive, a Los Angeles. Ha da poco terminato il college e i genitori organizzano una festa di laurea con tutti i loro amici. Confuso e alienato, Ben cerca di schivare complimenti e domande – «E ora che cosa farai?», azzarda qualcuno –, ma viene preso in disparte da uno degli ospiti. «Vieni un momento, Ben, ho bisogno di parlarti», fa quello. «Voglio dirti una parola sola, solo una parola: plastica». Prima di invadere i nostri mari, prima della raccolta differenziata, del riciclo come regola di sopravvivenza e della sostenibilità come una specie di mantra, la plastica era il materiale con cui plasmare le utopie del futuro. Era economica, versatile, leggera. In una parola: pop. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 è stata protagonista di alcuni oggetti stravaganti progettati da gruppi di designer italiani dai nomi esotici: il divano Superonda degli Archizoom; la poltrona gonfiabile Blow di Jonathan De Pas, Donato D’Urbino e Paolo Lomazzi; il Pratone di Cerretti, Derossi e Rosso del Gruppo Strum.

Tra tutte le icone di plastica di quel periodo ce n’è una che ricordo con particolare affetto: la sdraio Spaghetti. L’aveva disegnata negli anni Settanta Francesco Favagrossa, uno che a 22 anni raccoglieva motociclette militari americane in demolizione e con i pezzi utilizzabili costruiva originali moto patchwork. Nel 1975 aveva acquisito una piccola azienda che produceva sdraio intrecciate e insieme al figlio diciottenne aveva fondato la FIAM, acronimo di Fabbrica Italiana Arredamenti Metallici. La sedia pieghevole Spaghetti, messa in commercio di lì a poco, cavalcava il successo di un materiale che era già un mito, simbolo di un’epoca di spensierato consumismo e incauta fiducia: nel progresso, nel design a basso costo, nella sua indistruttibilità.

Il riferimento a uno dei piatti simbolo della cucina nostrana ne faceva un oggetto ancora più desiderabile. E infatti tutte le mie zie – che erano cresciute in provincia, con gusti molto italiani in fatto di musica e abbigliamento – ne possedevano almeno una nelle loro case di villeggiatura. La domenica era il giorno dei pranzi fuori e noi ragazzini, figli irrequieti di quelle zie – che eravamo cresciuti in città, con gusti molto americani in fatto di musica, le salopette di jeans e le camicie oversize – facevamo a gara per chi, dopo mangiato, dovesse accaparrarsi la Spaghetti. Quella dei miei genitori era di un bell’arancione brillante, un colore che associavo agli hippie, all’amore libero e agli esami di gruppo. Negli anni aveva cambiato più volte di posto – seguendo i capricci di mia madre, pittrice eccentrica – per finire relegata in un angolo del giardino, tra le cucce dei gatti e vecchie cose che spiaceva sempre buttare.

Per un certo tempo, durante la mia adolescenza, quello spazio appartato divenne il posto dove trascorrevo i pomeriggi, in costume, con un libro in mano e il segno degli spaghetti sulla schiena. Qualche anno fa il MoMA di New York l’ha inserita nel suo Design Store, insieme ad altre icone (democratiche) del made in Italy che fu. Ha ancora la consistenza gommosa di un tempo, con quei lunghissimi spaghetti in PVC attorcigliati intorno al telaio metallico. Pare che gli americani ne vadano pazzi.