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Indagine sul futuro del gaming

Come la realtà virtuale si è imposta nella nostra vita: da Animal Crossing a Fortnite, viviamo nel bel mezzo della corsa al Metaverse, il mondo virtuale dove tutti ci ritroveremo.

06 Agosto 2020

È da anni, anzi decenni, che ci viene promessa la realtà virtuale. Un visore, dei guanti, qualche filo collegato a una macchina, ed eccoci catapultati in un mondo digitale alieno, dove tutto è possibile. Fateci caso: se un film vuole farci capire di essere ambientato in un futuro prossimo, ci mostrerà sempre le stesse cose: macchine volanti, ologrammi, caschi da realtà virtuale (VR da qui in poi). Tutte cose che esistono, più o meno, ma devono ancora imporsi nelle nostre vite, come se fossimo sempre vicini a un prototipo. «Questa volta però ci siamo davvero», secondo alcuni. Una frase maledetta, un ritornello ormai noioso, però siamo a un punto delicato: questa volta, potrebbe essere vero. Del resto, a differenza delle macchine volanti, la realtà virtuale la puoi già comprare: Playstation VR, gli Oculus, HTC Vive Cosmos sono tutti prodotti oggi disponibili, che potreste avere a casa o aver visto da amici. Finora sembra essere mancato il “momento iPhone”, quel contatto esplosivo con il pubblico dopo il quale, come si suol dire, nulla è più lo stesso.

Ebbene, secondo Joshua Topolsky, giornalista e co-fondatore di The Verge, quel momento è arrivato: «Sono stato ossessionato con l’idea della realtà virtuale […] da quando ho provato un Oculus Rift tenuto assieme con il nastro adesivo al CES del 2013», ha scritto sul sito Input a inizio anno. Poi l’entusiasmo è svanito, sono cominciati gli sfottò e le facili ironie sulle promesse mai mantenute, le demo fallimentari, i gadget sempre goffi e brutti. La cosa non ha però mai smesso di migliorare e adesso siamo arrivati a gadget come Quest, l’ultimo prodotto di Oculus, azienda del settore comprata da Facebook nel 2014. È Quest ad aver convinto molti, Topolsky compreso, che forse questa è la volta buona.

Animal Crossing non è un gioco: è un luogo. Come ha scritto il giornalista Will Oremus sul magazine OneZero: «La realtà virtuale ha vinto, solo che non è quella pensavate».

Oppure no? Nell’attesa di una realtà virtuale da cartolina fatta di sfondi neri con griglie verdastre e guanti cybernetici, gli eventi hanno fatto il loro corso, e se ci stiamo avvicinando finalmente a una realtà virtuale per tutti, è anche vero che non assomiglia a quella che immaginavamo. Il futuro arriva sempre dalla direzione meno attesa. È risultato chiaro durante i mesi del lockdown, mentre eravamo costretti a casa e bombardati da storie, articoli e post su un gioco Nintendo uscito proprio nel pieno della pandemia, Animal Crossing: New Horizons.

Su Twitter, Instagram, Reddit: tutti sembravano giocare ad Animal Crossing; o meglio, tutti sembravano rifugiarsi in quel mondo colorato fatto di piante, animaletti e casette da costruire e personalizzare. Nel gioco, ogni giocatore riceve un’isoletta, che può abbellire e personalizzare collezionando e spendendo risorse. Ci sono molti fiorellini e animaletti, i colori sono sgargianti: sembra un cartone animato per bambini piccoli, un mondo fatato che è l’esatto contrario della plumbea realtà dei mesi del lockdown. Per questo è presto diventato un rifugio, un lusso escapista per milioni di giocatori intrappolati a casa. E quando diciamo milioni non facciamo iperboli: 13 milioni di copie vendute nelle prime sei settimane per un gioco disponibile esclusivamente sulla Nintendo Switch (che non a caso ha registrato un boom di vendite: 4,3 milioni di console nel solo mese di marzo).

Il motivo del successo è strettamente legato alle trasformazioni del mondo virtuale a cui accennavamo poco sopra: la realtà virtuale si sta rivelando qualcosa di diverso e più profondo. Animal Crossing non è un gioco tradizionale, è più che altro un luogo virtuale in cui passare del tempo e – dettaglio essenziale – incontrare persone, caratteristica che l’ha fatta diventare una killer app in tempi di distanziamento sociale. Amici, conoscenti, estranei che a loro volta hanno una loro isoletta e possono visitare la vostra, scambiando messaggi e merce digitale. Animal Crossing, insomma, non è un gioco: è un luogo. Come ha scritto il giornalista Will Oremus sul magazine OneZero: «La realtà virtuale ha vinto, solo che non è quella pensavate».

Animal Crossing

Non si può capire questo passaggio fondamentale senza parlare del titolo che più di ogni altro ha aperto la strada ai giochi-mondi: Fortnite. Prima di farlo, una postilla necessaria: Fortnite non è di certo il primo titolo ad avere questa caratteristica, pensiamo a World of Warcraft o Second Life, prodotti diversissimi ma accomunati da una forte natura immersiva. Fortnite ha costruito il suo successo – enorme, pop e giovane – su elementi preesistenti e ormai istituzionalizzati. Uscito nel luglio del 2017, il gioco ha circa 350 milioni di giocatori unici al mese (dati di maggio 2020, Statista) e, per chi ancora non lo sapesse, consiste di un battle royale, ovvero un multi-player online in cui ogni giocatore deve provare a sopravvivere accumulando risorse, armi e uccidendo gli altri. A differenza di altri titoli, come Call of Duty: Warzone ad esempio, il mondo di Fortnite è colorato e divertente; i giocatori vengono sganciati in un’isola rigogliosa e piena di easter egg, dove costruire rifugi e usare strumenti; è anche possibile incontrarsi e parlare con i propri amici, senza dare troppo peso alla missione.

Fortnite è un gioco ma per molti utenti è diventato un social network. Anzi, qualcosa di più grande e profondo. Un luogo, ecco. Lo scorso dicembre qualcuno ha scritto su Twitter a Tim Sweeney, il Ceo di Epic Games, la società che ha sviluppato il titolo, domandandogli se Fortnite fosse «un gioco o una piattaforma». «Fortnite è un gioco», ha risposto Sweeney, «ma rifammi questa domanda tra dodici mesi, per piacere». Che significa tutto questo? Cosa c’è oltre il gioco, oltre il mondo virtuale dove incontrare i propri amici? C’è la possibile evoluzione dell’internet per come lo conosciamo, figlio del 2.0 e della rivoluzione social e mobile. Lo chiamano Metaverse.

Secondo Avi Bar-Zeev, nume tutelare della realtà virtuale e tra i creatori delle Hololens di Microsoft, si parla di Metaverse quando si ha di fronte la «convergenza di 1) la realtà fisica aumentata e 2) uno spazio virtuale fisico continuo»; Mike Liebhold dell’Institute for the Future lo definisce come «un mondo fisico generato virtualmente»; oppure, ancora, secondo lo studioso  William Burns III,  «una rappresentazione elettronica di un ambiente popolato da persone vere e programmi artificiali (chiamati bot)».Se sembra fantascienza, è perché lo è. Al di là delle definizioni, il nome “Metaverse” proviene proprio dalla letteratura fantascientifica: in Snow Crash, romanzo del 1992 di Neal Stephenson, viene descritta come un’iterazione di internet composta da una lunghissima strada (65536 km) che attraversa un pianeta completamente nero. Gli utenti entrano nel Metaverse usando visori e guanti, come quelli in vendita oggi. In certi casi scelgono di non andarsene mai, diventando “gargoyle”, per via della grottesca postura che assumono.

Jules, una skin di Fortnite

Insomma: un luogo digitale in cui passare del tempo mentre il resto del mondo brucia. Fare cose, vedere gente. Nel febbraio del 2019 si è tenuto su Fortnite il primo concerto della storia del gioco/piattaforma/mondo parallelo, che ha attratto dieci milioni di utenti unici per un’esibizione del dj Marshmello. Lo scorso maggio, il record è stato infranto dal rapper Travis Scott, con un’esibizione “davanti” a più di 13 milioni di spettatori. Non bisogna più salvarsi la vita in un’isola deserta, quindi, non necessariamente: una recente modalità di gioco chiamata “party mode” permette ai giocatori di guardare performance dal vivo  (ma anche di fare skydiving o usare motoscafi). Sapientemente, il party mode è stato presentato proprio mentre mezzo mondo era in quarantena, isolato a casa, impossibilitato a uscire di casa per un concerto per chissà quanti mesi ancora; concerto che comunque non darebbe mai loro la possibilità di fare lo scemo in motoscafo. Per la realtà, lo capirete, la concorrenza si fa sempre più dura.

Sempre lo scorso maggio, il trailer dell’attesissimo nuovo film del regista britannico Christopher Nolan, Tenet, è stato presentato proprio su Fortnite, con una cerimonia-evento che probabilmente ha tastato il terreno per un nuovo standard di promozione, distribuzione e consumo. (D’altronde se si rispolvera l’idea di drive-in, perché non immaginare anche una serata al cinema dentro un gioco?) Come per tutto il resto, la crisi da Covid-19 sembra aver velocizzato il corso degli eventi, catapultandoci in un futuro strambo e familiare allo stesso tempo: siamo ancora noi ma qualcosa ha pasticciato con lo spazio-tempo, creando un cortocircuito tra vecchio e nuovo ironicamente perfetto per tecnologie come VR e AR, promesse di futuro ormai vintage.

Asincronicità percepita a parte, il business segue sempre le stesse strade e osserva con interesse quanto avviene in Fortnite. Il mondo della moda, da Louis Vuitton a Gucci e Supreme, ha già invaso il Metaverse proponendo skin – collezioni di oggetti e vestiti da far usare ai propri personaggi – brandizzate, mentre Marvel vi ha promosso Avengers: Endgame e Infinity War con tanto di comparsata di Thanos stesso. Non sono mancati altri giganti di ogni settore, dalla Nfl alla catena di fast food Wendy’s, tanto da far dire al sito di settore Polygon già nel 2019: «Fortnite è ormai diventato una pubblicità infinita». Almeno in questo, il Metaverse si conferma piuttosto simile al vecchio internet.

Gli utenti entrano nel Metaverse usando visori e guanti, come quelli in vendita oggi. In certi casi scelgono di non andarsene mai, diventando “gargoyle”, per via della grottesca postura che assumono

Il business si muove: il produttore di snack e cibo in scatola Yummy House, di Hong Kong, per esempio,  ha pubblicato un annuncio di lavoro per trovare un “specialista di giochi” che abbia almeno cento ore di Animal Crossing: New Horizons alle spalle; un’azienda giapponese ha provato a fare riunioni sulla piattaforma, mentre i suoi dipendenti erano tutti a casa (non è andata bene); oppure, i manifestanti di Hong Kong, che hanno scritto sui muri digitali i loro slogan, che nel mondo vengono invece cancellati in poche ore. Rimanendo sul lavoro e la vita d’ufficio, la realtà virtuale offre un’ovvia tentazione alle aziende costrette allo smart working (o telelavoro, come si diceva un tempo) di massa. Al di là del supporto ludico dato da Nintendo, fanno capolino all’orizzonte società come Sine Wave Entertainment Ltd, con uffici a Londra e Shanghai, che offre a grandi aziende la possibilità di costruire uffici digitali, o Spatial Systems Inc. che ha lavorato con l’italiana Enel per un progetto simile. Molte altre aziende e istituzioni in tutto il mondo stanno considerando soluzioni simili, secondo il Wall Street Journal.

Real More è un’azienda italiana con sede a Milano che dal 2009 si occupa di AR e VR. Secondo quanto detto dal portavoce Gianluca Poletti a Rivista Studio, i mesi pandemici hanno fatto registrare un notevole aumento di richieste: «L’interesse è aumentato ma ora le aziende hanno anche altre priorità». Vale soprattutto per le piccole e medie imprese, proverbiali traino dell’economia italiana, che possono essere allontanate anche dai prezzi ancora piuttosto alti delle soluzioni in tema virtuale. Ci pensano quindi i grandi player a sperimentare, con prodotti pensati per il retail o la smart assistance (l’assistenza virtuale da remoto, oro colato in tempi di distanziamento sociale). Manca, secondo gli operatori del settore, la svolta definitiva, che può arrivare solo dal settore consumer: «La svolta ci sarà quando un player globale come Apple deciderà in investire in un prodotto consumer». Il citato “Momento iPhone” sembra vicino, imminente, ma ancora non c’è stato.

Ma a proposito di iPhone: Apple, in tutto questo, che fa? Secondo alcune indiscrezioni piuttosto credibili, Apple sarebbe pronta a lanciare un prodotto per la realtà aumentata: si dovrebbe chiamare Apple Glass, avrà un prezzo circa 490 dollari ed è atteso per la fine del 2021. La prima edizione dovrebbe funzionare in dipendenza con iPhone (come il primo Apple Watch) e si prevede che la sua introduzione nel mercato dia un ulteriore spinta al settore wearable. C’è poi la promessa al trono Magic Leap, discussissima startup fondata nel 2010 su cui Google, Alibaba e altri giganti hanno investito più di due miliardi di dollari, e che finora ha presentato prodotti deludenti rispetto alle (incredibili) aspettative, soprattutto in termini di mercato. Non c’è azienda del settore che non stia esplorando questo territorio ancora vergine: quelle più vicine alla meta sembrano essere del settore videoludico.

Travis Scott and Fortnite: Astronomical

Torniamo a Epic Games, quella di Fortnite. E non tanto per il successo del titolo quanto per la tecnologia su cui si basa: Unreal Engine è infatti il nome del motore di gioco su cui si basano moltissimi videogame. Nato nel 1998, ha avuto diverse edizioni che hanno letteralmente accompagnato il progresso grafico del settore. Ai primi di marzo la Epic ha presentato la quinta versione, il cui realismo è mozzafiato. Il video della sua demo ha raccolto più di 13 milioni di visualizzazioni su YouTube e ha mostrato al mondo come sarà il futuro dei videogiochi e dei mondi immersivi in cui passeremo sempre più tempo.

Non c’è solo Epic: Unity è un altro motore di gioco che è diventato le fondamenta dei giochi mobile, ed è abbastanza potente da essere stato utilizzato nel recente rifacimento del Re Leone, sempre per rimanere in casa Disney. Valve è un altro gigante grazie a Steam, la piattaforma di gaming per eccellenza. È una corsa all’oro che interessa tutti, e in cui il mondo tecnologico e quello videoludico competono, forti dei loro immensi poteri. È anche uno scontro culturale, come ha spiegato Sweeney (sempre di Epic Games), ricordando la natura aperta e gratuita dei loro prodotti, in confronto agli altri come Amazon, Google & co.: nel 2017 ha detto che se dovessero arrivarci prima loro, al Metaverse, «finiranno per avere ancora più influenza sulle nostre vite, sui nostri dati personali e le nostre interazioni private». Recentemente il Ceo è stato ancora più diretto, definendo questi giganti «una minaccia per la democrazia». La corsa al Metaverse coinvolge tutto lo spettro tecnologico, dal suo esito dipendono gli equilibri di settori potentissimi, in grado di influenzare il nostro lavoro, la nostra vita privata e il tempo libero – sempre più fusi assieme.

Vivere nel futuro è una sensazione anomala. Ti fa notare tutte le cose che appartengono a un’era ormai passata, che risultano d’un tratto inconciliabili con le esigenze e i desideri di un nuovo tempo. È una sensazione che attanaglia tutti noi terrestri del 2020, sconvolti dalla pandemia e dalle sue conseguenze, alle prese con un nuovo ordine mondiale ancora in fieri ma presente. Sembrerebbe il genere di mondo in cui VR e AR dovrebbero essere di casa, pronte a rivoluzionare la vita di tutti i giorni in modo imprevedibile.

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