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Perché Pete Buttigieg non piace agli attivisti Lgbtq+

Potrebbe diventare il primo presidente gay degli Stati Uniti, ma una parte della comunità Lgbtq+ non si riconosce in lui.

13 Febbraio 2020

Le primarie democratiche negli Stati Uniti sono appena iniziate e tirare conclusioni dopo Iowa e New Hampshire sarebbe davvero azzardato, ma intanto ci sono almeno due appunti che vale la pena fissare. Il primo: Biden ha steccato, e con lui Warren è andata ampiamente sotto le aspettative. Il secondo: Sanders ha trovato un concorrente che in pochi si aspettavano potesse venir fuori, almeno con questi numeri. Ma quello che è interessante di Pete Buttigieg, al di là del 26 e 24 per cento di delegati conquistati in settimana tra caucus e primarie, è anche uno strano contrasto che ne caratterizza la campagna: da un lato la sua possibilità di fare la storia degli Stati Uniti diventando il primo Presidente gay, e dall’altro la battagliera opposizione alla sua candidatura da parte di una buona fetta di quei movimenti che oggi in America si battono per i diritti Lgbtq+.

I dati della Associated Press in questo senso lasciano pochi dubbi: in Iowa gli elettori che si riconoscono parte di una delle comunità Lgbtq+ si sono schierati nettamente dalla parte di Sanders (44 per cento) mentre Warren e soprattutto lo stesso Buttigieg si sono fermati a distanza siderale, rispettivamente al 20 e 16 per cento. Non è andata diversamente in New Hampshire, anche se lì, per adesso, i numeri sono meno precisi: quello che si sa è che gli elettori liberal sono stati decisivi nella vittoria di Sanders, e che il New Hampshire è lo Stato americano dove le comunità Lgbtq+ sono più numerose (secondo NBC News hanno rappresentato il 7 per cento dei voti totali). È evidente insomma che a beneficiare del loro appoggio siano stati i candidati della sinistra radicale ben più del moderato Buttigieg, a dispetto del fatto che sia omosessuale.

E sebbene averne la conferma ufficiale sia altra cosa, per chi ha seguito la campagna negli scorsi mesi non è una novità che Mayor Pete, come lo chiamano specialmente i più affezionati a quelle latitudini, non sia entrato nelle grazie di quel ramo della società americana. Lo scorso novembre sul web è iniziata a circolare la foto di un sacchetto di tela con su scritto “LGBTQ+” in verticale: da ognuna delle lettere partivano poi le seguenti parole: Let’s Get Buttigieg To Quit. Spingiamolo a mollare. Esiste persino una petizione collettiva dal nome inequivocabile, #QueerAgainstPete; ed è una iniziativa ben strutturata, non amatoriale. Il perché effettivamente lo facciano è un tema molto ampio, ma lo si può riassumere efficacemente in poche parole: non è abbastanza. Non è abbastanza il fatto che sia gay, non è abbastanza limpido il modo in cui traspare pubblicamente il suo orientamento sessuale, non è stato impegnato abbastanza su questi temi in passato e non lo sarà – almeno dalle proposte espresse finora – in futuro. La chiusura della lettera aperta di #QueerAgainstPete è eloquente: «We believe the Lgbtq+ community deserves better than Pete». Meritiamo di meglio, punto e a capo.

Pete Buttigieg durante l’incontro con un gruppo di studenti del college il 5 Febbraio 2020 a Concord, New Hampshire. (Photo by Win McNamee)

Nel suo “non essere abbastanza” sono compresi più aspetti, su tutti la sua collocazione sull’asse destra-sinistra o, meglio, conservatorismo-progressismo. E non si tratta soltanto di una questione di policy: per spiegare come mai su quel versante Buttigieg piaccia meno di Sanders o Warren non è determinante, ad esempio, la sua posizione sul Medicare For All. Lo è piuttosto il fatto che non prenda a sprangate il capitalismo, definendosi un “democratic capitalist” e proponendosi, in veste moderata, di ricercare una aurea mediocritas tra l’egalitarismo democratico e le tendenze corrosive del sistema economico. In alcune parti della comunità Lgbtq+, insomma, Buttigieg è considerato élite. È nato in una famiglia benestante, ha studiato ad Harvard e a Oxford, ha fatto coming out soltanto pochi anni fa. «Dal mio punto di vista», ha detto Elias Jahshan, uno dei dieci attivisti interrogati sul tema dall’Indipendent, «la politica di Buttigieg puzza di centrismo e privilegio bianco».

Poi c’è il tema del finanziamento della sua campagna: l’ex sindaco di South Bend è stato tra i candidati a raccogliere la maggior quantità di fondi, e ben più della metà (a differenza di Sanders e Warren) sono venuti dalle tasche dei cosiddetti big contributor. In Iowa il sostegno più forte alla sua candidatura è arrivato da parte di elettori moderati e conservatori, il cui reddito annuale familiare superava i 100mila dollari. E ancora, il suo passato ha ben poco a che vedere con le lotte per l’uguaglianza sociale che in una prospettiva più ampia inglobano quelle di genere. È alta borghesia, e questo non piace. Le critiche più frequenti (è troppo robotico e educato, è un calcolatore, è un falso) sono frutto del suo essere ancorato ad un passato tutt’altro che progressista: in un articolo sul New Yorker, Masha Gessen ha scritto che se Buttigieg non piace agli attivisti è essenzialmente perché è un «vecchio politico nel corpo di un giovane uomo», oltre che un «politico etero nel corpo di un uomo gay».

Questa dimensione elitaria della sua candidatura è legata a doppio filo al dibattito sul genere. In un articolo su Prospect, ad esempio, Jim Grossfeld evidenziava come alla fine dei conti Buttigieg non abbia mai promesso alle comunità Lgbtq+ qualcosa che andasse oltre il semplice riconoscimento, che toccasse in termini concreti la vita quotidiana di quanti subiscono discriminazioni a causa del loro orientamento sessuale, e che questa omissione da parte sua non è certo passata inosservata. Per parlare del rapporto tra Buttigieg e la lotta per la giustizia di genere, scrive sempre Gessen sul New Yorkervanno considerate le due modalità in cui questa lotta si dispiega: da un lato quella radicata nelle idee di solidarietà e cambiamento rivoluzionario, in cui la politica di genere è un mezzo per estinguere le disuguaglianze materiali; dall’altro quella improntata al riconoscimento e alla riduzione della differenza, che consiste in sintesi nel messaggio per cui siamo tutti uguali a prescindere dall’orientamento sessuale, dal genere e dall’etnia. È una differenza sottile, ma sostanziale.

Pete Buttigieg durante un comizio il 15 Gennaio 2020 a Cedar Falls, Iowa. (Photo by Spencer Platt)

Buttigieg, evidentemente incardinato in questo secondo filone della politica di genere, non promette né sembra volere una America radicalmente diversa: «La sua visione», nelle parole di Gessen, «è quella di una società indistinguibile da quella in cui viviamo, tranne che per il fatto che i queer ne fanno parte pienamente, e a tutti gli effetti». Se le comunità Lgbtq+ tendono ad ostacolare Buttigieg, insomma, è perché percepiscono da parte sua una certa freddezza su dati come quelli del Williams Institute della UCLA, dove emergono con chiarezza le diseguaglianze sociali. L’indice di povertà, ad esempio, è pari al 21.6 per cento, mentre fra gli etero è del 15.7.

Ma la temperatura sale ancora di più quando si parla nel dettaglio delle singole comunità che compongono il variegato mondo Lgbtq+. Se Buttigieg non piace, infatti, è anche perché non sembra difendere a spada tratta tutte le domande di riconoscimento, che negli ultimi tempi hanno fatto allungare e non di poco la sigla. Josh Milton, un altro dei queer intervistati dall’Indipendent, lo ha accusato di faticare a mostrare solidarietà con chiunque non sia bianco e gay: «Nei suoi discorsi, nei momenti chiave, sono completamente assenti riferimenti ai trans di colore», ha detto. O ancora: «Per chi esalta la sua candidatura come un traguardo rivoluzionario per la comunità gay», ha spiegato Nathan Ma, «io mi chiedo semplicemente… quale delle tante?». Essere gay, diceva la lettera aperta dei #QueerAgainstPete, non è abbastanza per ottenere il supporto delle comunità Lgbtq+. Non lo è anche perché il tipo di lotta che Buttigieg propone, una lotta da uomo del compromesso, non è radicale a sufficienza per coincidere – neppure marginalmente – con quella di un movimento che è molto più variegato e complesso di quanto il pubblico immagini.

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