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È giusto tagliare a metà i libri molto lunghi per portarseli in giro?

Un tweet apparentemente innocuo ha scatenato una tempesta su Twitter e un bell’articolo di Costance Grady su Vox che in qualche modo si collega alla polemica sulla questione delle bookgrammer esplosa all’inizio di gennaio nel settore editoriale italiano a causa di un articolo di Massimiliano Parente pubblicato sul Giornale. Ma tornando al recente tweet dell’editor e scrittore Alex Christofi: si tratta di un’immagine di tre tomi sezionati con questa didascalia: «Ieri il mio collega mi ha definito un “assassino di libri” perché ho tagliato i miei libri più lunghi a metà, per renderli portatili». Segue la solita domanda che ti insegnano a fare per creare “engagement” sui social, l’interrogativo che esprime tutto il nostro terrore di sentirci soli e diversi dagli altri: «Qualcun altro fa la stessa cosa? O sono solo io?».
Sorprendentemente, il tweet ha ricevuto reazioni indignate in quantità: c’è chi ha definito l’azione di Christofi “demoniaca” e chi ha definito lo scrittore uno “psicopatico dei libri”. Molti utenti hanno trovato “emotivamente difficile” guardare i tre volumi ridotti così, forse anche perché sono ottimi libri: Infinite Jest di DFW, Middlesex di Jeffrey Eugenides e la monumentale biografia di Dostoevskij di Joseph Frank. Come ha notato Constance Grady su Vox, ultimamente commentatori e influencer sembrano particolarmente sensibili al tema della salvaguardia dei libri: poco tempo fa un suggerimento di Marie Kondo – sbarazzarsi di libri che non “diffondono gioia” – aveva scatenato una lunga e appassionata discussione sul valore dei libri come oggetti fisici e sul modo migliore per trattarli. In molti sono insorti, ricorda Grady, ricordando a Kondo che i libri migliori stimolano emozioni molto più ricche e inquietanti della gioia.
Yesterday my colleague called me a ‘book murderer’ because I cut long books in half to make them more portable. Does anyone else do this? Is it just me? pic.twitter.com/VQUUdJMpwT
— Alex Christofi (@alex_christofi) 21 gennaio 2020
«A livello aneddotico», confessa Grady, «ho capito che molte persone sentono fortemente il valore dei libri come oggetti fisici dopo che io, critica e giornalista che si occupa prevalentemente di libri, ho commentato un articolo di Hannah McGregor pubblicato su Electric Literature sottolineando come il modo in cui tutti feticizziamo i libri sia effettivamente un po’ strano, e alcuni lettori mi hanno gentilmente consigliato di “morire, per favore” perché “questo è anti-intellettualismo, stupida stronza del cazzo”». E poi aggiunge: «Sembriamo proiettare sentimenti enormemente intensi sui libri, sentimenti che ci rendono protettivi nei loro confronti e furiosi nei confronti di coloro che percepiamo come minacciosi. Pensiamo ai nostri libri come simboli del nostro gusto, del nostro intelletto, del nostro vigore morale. E quando teniamo in grande considerazione i libri, quelli che li trattano come oggetti anziché come simboli diventano infedeli».
Nell’articolo che ha convinto alcune persone a inviare a Grady minacce di morte, McGregor sostiene che la feticizzazione del libro come oggetto fisico può essere ricondotta all’industrializzazione della produzione di carta alla fine del XVIII secolo e alla corrispondente accessibilità dei libri. Un processo che è arrivato fino ad oggi, coinvolgendo anche molti altri oggetti: «Poiché la lettura è buona, tutti gli accessori associati alla lettura – le penne, i segnalibri, il tè, le candele, le tote bag con le citazioni – diventano buoni. E così, soprattutto e ovviamente, fa il libro stesso: il libro come oggetto, degno di speciale considerazione e rispetto solo in quanto libro».

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