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Il problema dei lavori che ci piacciono

E perché i lavori meglio retribuiti spesso sono quelli che odiamo.

02 Ottobre 2018

È uscito in questi giorni in Italia un libro di cui in America si parlava già da un po’: Bullshit Jobs di David Graeber, antropologo newyorchese trapiantato a Londra, parla di ciò che il titolo suggerisce, di «lavori del cavolo» (l’editore, Garzanti, ha mantenuto il titolo originale, ma nel testo si utilizza questa interpretazione eufemistica, credo una scelta della traduttrice Albertine Cerutti, che qualcuno potrebbe giudicare goffa, però a me è sembrata tenera). Graeber definisce come lavoro del cavolo «un’occupazione che è così totalmente inutile, superflua o dannosa che nemmeno chi la svolge può giustificarne l’esistenza». Il primo requisito per individuare un bullshit job, dunque, è l’assenza di un’utilità sociale; il secondo è che il diretto interessato se ne renda conto. Questa consapevolezza è più comune di quando non si tenderebbe a pensare (infatti il 37 per cento dei britannici è convinto che il suo lavoro non abbia alcuna utilità e il 40 per cento degli olandesi dice che il suo lavoro «non dovrebbe esistere affatto») e spesso si trasforma in tormento: le professioni senza senso sono una forma di «profonda violenza psicologica».

L’autore divide i lavori del cavolo in cinque categorie: i tirapiedi (cioè i lavori che esistono solo per fare sentire qualcun altro importante), gli sgherri (fare il lavoro sporco che spetterebbe ad altri), i ricucitori (quelli che rimediano a errori altrui che basterebbe poco per evitare in primo luogo), i barracaselle (questa si spiega da sé) e i supervisori che guardano gli altri lavorare. Secondo lui rientrano nella categoria di lavori non-bullshit: infermieri, netturbini, meccanici, insegnanti, nonché, per qualche ragione, «scrittori di fantascienza e musicisti ska», perché se dovessero scomparire «le conseguenze si vedrebbero». Sono invece categorizzabili come bullshit job gli amministratori delegati di fondi di private equity, gli addetti al telemarketing e «certi impiegati pubblici»: se dovessero svanire nel nulla, non ce ne accorgeremmo.

C’è un passaggio che mi ha particolarmente colpito e che solleva questioni interessanti sulla retribuzione: «Nella nostra società pare valere la regola secondo la quale quanto più è evidente che il lavoro di qualcuno fa del bene agli altri, tanto meno è probabile che l’interessato venga pagato per farlo». Graeber concede che esiste «una manciata ben selezionata di eccezioni» (lui cita i medici, io aggiungerei chef e ingegneri), però sostiene che «la regola funziona incredibilmente bene». Ammesso e non concesso che l’assioma sia corretto, mi domando se quello che Graeber dice dell’utilità di un lavoro possa essere esteso alla sua desiderabilità sociale: esiste una tendenza a pagare meno, o a non pagare affatto, i lavori considerati socialmente desiderabili? E, se esiste, può essere che i lavori che consideriamo cool siano pagati meno proprio in virtù del loro essere desiderabili?

lavori

Giardinieri addetti alla manutenzione del golf Saint-Quentin-en-Yvelines, vicino Parigi, settembre 2018 (Eric Feferberg/Afp/Getty Images)

Il dubbio m’è venuto perché è da un po’ che nella mia bolla – quella dei giornalisti, dei lavoratori culturali e dei creativi in genere – si sta parlando di lavori malpagati o non pagati affatto. Un caso recente è quello del libro Le plus beau métier du monde, uscito a inizio anno in Francia ma che ha sollevato un caso nella stampa anglofona lo scorso mese: si tratta di un’accusa, lanciata dalla ricercatrice italiana Giulia Mensitieri, contro il mondo della moda, reo di fare lavorare alcune persone senza pagarle in denaro, ma offrendo a mo’ di compenso buoni acquisti. Un altro caso che mi viene in mente è la campagna #coglioneNo di quattro anni fa, lanciata da una serie di creativi che esortavano i loro colleghi a non accettare i lavori non retribuiti: lo chiederesti al tuo idraulico di aggiustarti il gabinetto gratis? In mezzo, ce ne siamo occupati anche a Studio, esaminando la sostenibilità economica del giornalismo freelance e il senso dello scrivere gratis. Lo scorso anno è uscito un libro, Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, che affrontava anche questi temi.

Finora le analisi su questo fenomeno si sono concentrate sui committenti (c’è chi denuncia: non pagano perché sono degli sfruttatori, e chi invece sostiene che in alcuni campi, come l’editoria, mancano i soldi) oppure sulla ricerca di una via d’uscita: se i creativi si coalizzassero e iniziassero a rifiutare in massa i lavori non retribuiti, questo il ragionamento, allora sarebbero pagati. Il lato che mi affascina di più – non perché lo ritenga più rilevante da un punto di vista socio-economico, ma perché sono genuinamente incuriosita – è l’aspetto antropologico della questione. Che cosa spinge qualcuno a lavorare gratis? Ok, c’è chi cerca visibilità, sperando che una serie di commissioni non pagate ne portino altre di remunerative; c’è chi vuole mettere un piede in un certo giro, per poi entrarci a pieno titolo; c’è chi è alle prime armi e ha bisogno di “fare curriculum”. Per loro, lavorare gratis può essere visto come investimento, però l’impressione è che questa sia un’ottica in via d’estinzione: oramai è chiaro ai più che certe vocazioni sono destinate a essere economicamente non sostenibili. Poi c’è chi non ha bisogno di lavorare, però è un discorso a parte. Ma tutti gli altri, quelli che di soldi hanno bisogno, che alle primissime armi non sono più, ma che continuano ad accettare (anche) lavori non retribuiti, magari affiancandoli a un secondo impiego pagato, a loro chi è che glielo fa fare? Non è una domanda retorica.

Mi sono imbattuta in un’espressione che mi ha fatto riflettere: “social validation”. Certe persone accettano di lavorare gratis, non tanto (o non soltanto) perché gli piace o perché lo vedono come un investimento, ma perché fare quel lavoro permette di proiettare una certa immagine di sé, e questo riconoscimento sociale fa sì che il gioco valga, tutto sommato, la candela. Scrivo gratis, o per due lire, perché così posso dire che scrivo, che per i miei standard personali, o più probabilmente per quelli della nicchia cui mi riferisco, fa figo. E se il problema fosse proprio la nostra ansia di approvazione sociale? La tentazione è archiviarla come una stupida questione di ego, colpa di chi si fa sfruttare. Però quella del riconoscimento sociale è un’esigenza molto umana, infatti lo stesso Graeber, l’autore di Bullshit Jobs, elenca le figuracce a cena come uno degli elementi che rendono insopportabili gli impieghi senza senso: «Esiste un’intera categoria di professionisti stipendiati che, se vi capitasse di incontrarli a una festa e confessaste di fare qualcosa che potrebbero considerare interessante (l’antropologo, per esempio), preferirebbero evitare del tutto l’argomento del lavoro».

Suppongo questa esigenza di avere una certa idea di noi stessi c’entri qualcosa con il FoMO (Fear of missing out) compulsivo che è tipico dei venti-trentenni. Preferiamo un lavoro sottopagato ma cool a un lavoro retribuito decentemente ma banale per la stessa ragione per cui ci ostiniamo a vivere in città costose, ma vibranti e cosmopolite, anziché in provincia, dove gli affitti sarebbero più bassi: essere al centro delle cose giuste, o che consideriamo tali, è una necessità, essere tagliati fuori il nostro peggiore incubo. Questo desiderio di riconoscimento sociale, però, ci rende più vulnerabili: accettiamo di non farci pagare anche perché ci sentiamo già (ap)pagati in social validation, e su questo i committenti sanno di potere contare. Forse la salvezza sta nell’imparare a sbattercene dell’idea che vorremmo avere di noi stessi. O forse l’importante è saperlo.

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