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Il candidato della Francia all’Oscar per il Miglior film internazionale è un film ambientato in Iran, che parla di Iran e diretto da un iraniano Dalla Palma d’Oro a Cannes alla candidatura francese agli Oscar, il viaggio di Jafar Panahi attraverso le crepe della politica e del cinema
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La vittoria di Erdoğan segna l’inizio di un’era oscura, dice il Guardian

25 Giugno 2018

Erdoğan ha vinto le elezioni che in Turchia questo weekend. Con il 52,5 per cento dei voti, ha ottenuto un secondo mandato presidenziale, che durerà fino al 2023. Va detto però che, sebbene sia presidente soltanto dal 2014, Recep Tayyip Erdoğan è al potere dal 2003. Prima di diventare presidente, infatti era stato primo ministro per tre mandati consecutivi dal 2003 al 2014. Questo significa che, in pratica, da qui alla fine del suo secondo mandato presidenziale, avrà governato sulla Turchia per la bellezza di un ventennio. E questa non è una buona cosa, non soltanto perché avere la stessa persona al potere per due decenni non fa bene alla democrazia, ma anche perché finora Erdoğan – soprannominato non a caso “il sultano” – ha dimostrato di volere traghettare il suo Paese verso un modello autoritario.

Questa mattina Simon Tisdall ha scritto sul Guardian che questa nuova vittoria elettorale «segna l’inizio di un’era oscura per la democrazia turca». Uno dei problemi, nota l’autore, è che esistono motivi fondati di credere che le elezioni in Turchia non siano del tutto libere e corrette. A questo giro, c’è stato un episodio particolarmente inquietante: «Fatto strano, una televisione filo-governativa ha mandato in onda per errore i “risultati elettorali” con tre giorni di anticipo. Un report sul sito di Oda tv riportava i dati dell’agenzia d’informazione di Stato secondo cui Erdoğan avrebbe vinto con il 53 per cento dei voti e il suo sfidante, Muharrem Ince del Chp, 26». Alla fine Erdogan ha preso pochi decimali meno di quel 53, mentre Ince ha preso il 31.

Quello che rende queste elezioni ancora più preoccupanti di quelle precedenti, aggiunge l’autore, è che seguono una riforma costituzionale che nel 2017 ha dato al presidente poteri ancora maggiori e che la Turchia si trova tutt’ora in stato di emergenza, dopo il golpe fallito del 2016. «I suoi oppositori politici possono aspettarsi ritorsioni, non appena si calmeranno le acque. Ora per il presidente sarà ancora più facile, visti i poteri quasi-dittatoriali conferiti nel referendum dello scorso anno. Oggi ha il potere di nominare e licenziare i ministri, dissolvere il parlamento, emettere decreti, nominare giudici, dare ordini all’esercito e dichiarare guerre», scrive Tisdall. Quanto allo stato d’emergenza: «Sebbene Erdogan abbia promesso di revocarlo, difficilmente saranno liberati gli attivisti e parlamentari curdi, avvocati e impiegati pubblici, giudici e giornalisti che si trovano in galera. Circa 160 mila persone erano state incarcerate subito dopo il golpe».

Erdogan è uno dei fondatori del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (detto anche Akp, secondo le iniziali del nome in turco), che inizialmente si proponeva come partito islamico moderato e filo-europeo, in contrapposizione con i laici filo-militari del Chp. Ma nel corso degli anni, l’Akp ha accentuato il suo carattere islamico, ha dato una stretta sulle libertà civili, mentre il governo, complice il fallimento dei negoziati per l’ingresso nell’Unione europea, si è proiettato sempre più verso il Medio Oriente e sempre meno verso l’Europa, secondo la cosiddetta dottrina “neo-ottomana”.

Foto Getty
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