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Come Tom Wolfe ha raccontato i ricchi

Sempre vestito "da ricco", ha raccontato meglio di chiunque altro le classi alte, attraversando le epoche e il cosiddetto Paese reale.

16 Maggio 2018

Era celebre soprattutto per il look, mantenuto immutabile nei decenni, come i più furbi: Anna Wintour, la regina Elisabetta, Silvio Berlusconi. E per titoli diventati subito lessico famigliare: quel Radical Chic pluritradotto, arrivato giù giù fino a noi da Park Avenue in Italia a rappresentare con incomprensioni linguistiche e fiscali anche classi medie renziane con mutuo.  Wolfe continuava a ricoprirsi imperterrito e scaltro di quei mantelli e cappe e cappellini da Ludwig ultimo stadio indossando quell’epiteto “gentiluomo del sud” così comodo per depistare giornalisti e lettori, e così cool in America (mentre da noi si penserebbe subito all’amianto di Taranto o a Salvatore Ligresti, altro gentiluomo del Sud accomunato dalla morte nella stessa ora fatale).

In America invece la definizione e l’uniforme di lini e capelli a tesa larga titillavano quell’inconscio nazionale che è il mezzogiorno nordamericano misterico, evocando soprattutto  drink molto alcolici a mezzogiorno, ville neopalladiane, schiavitù recenti, Truman Capote. Ricchezza e romance. L’abito serviva anche a collocare Wolfe in un’aristocrazia immaginaria del pensiero e del 740: in un Paese poco ironico, chi racconta i ricchi deve vestirsi da ricco. Racconto “necessario”, per dirla come di un film Mibact: come ha detto Gay Talese, collega anche lui molto sartoriale di new journalism, recentemente in una intervista: si sa che tutto ciò che non sta sulle due coste non è frequentabile né raccontabile, solo ubriaconi noiosi e pistolettate.

Mentre in Italia, sempre avuta molta vivacità soprattutto in provincia o al massimo a Milano, e la capitale (sic) come si sa non ha mai generato dei ricchi decenti. Eppure, il racconto capitalistico è stato sempre una nicchia nel Paese cattocom: nicchia soprattutto frequentata da minoranze, eccellenze femmine e gay, Irene Brin e Camilla Cederna e Alberto Arbasino, gentiluomini e gentildonne soprattutto del Nord (settore poi non più presidiato causa crisi). Peccato, perché a raccontare i poveri son capaci tutti, mentre a raccontare i ricchi bisogna essere bravi davvero. L’ossessione di Wolfe, come quella di tanti grandi scrittori (tutti?), era poi stata sempre la classe sociale, il grande rimosso americano e poi la molla che muove tutto, da Balzac a Proust, altro che madeleine: era la “statusfera”,  altro fortunato suo copyright.

Siccome poi raccontare i ricchi è difficile, spesso chi lo sa fare spiega anche la politica meglio degli esperti del ramo: e Wolfe in questo capiva il Paese reale anche sotto la cappa di tweed: come tanti suoi colleghi provocatori-chic non aveva escluso la vittoria di Trump, mentre detestava invece Hillary («È molto diversa dal marito, che è una persona incantevole: lei no. È rigidissima. Lo humour non le viene naturale. Quindi ha molti problemi da superare ed è difficile trovare cose intelligenti tra tutto quel che ha fatto come segretario di Stato o in qualunque altra carica abbia ricoperto», disse a Peter York su IL).

Ultimamente come tanti anziani Wolfe sponsorizzava soprattutto gli eredi: la figlia Alexandra era scesa in Silicon Valley con tutti i contatti giusti per raccontare pure lei i nuovi abbienti ma aveva fatto abbastanza pippa: con un librone ennesimo su startuppari in acido e tutte cose già viste e già scritte. Peter Thiel le aveva proposto un tour in pullmino però elettrico, sulle orme del viaggio di cinquant’anni prima del papà, il leggendario reportage dell’Electric Kool-Aid Acid Test a base di Lsd nel succo d’arancia (il Kool-Aid in questione), Grateful Dead, Allen Ginsberg (quando insomma Wolfe si inventava insieme la Summer of Love, il new journalism e tante cose che non osavano ancora dire il loro nome, e la ricetta abbastanza non complicata era, come per Zavattini e valida ancor oggi: “uscite di casa, raccontate la realtà”). Ma non se n’è fatto poi più niente.

Che titolista, però: mettendo a dura prova i traduttori italiani, faceva questi libri o articoloni chiamati There Goes (Varoom! Varoom!) That Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby (poi la Baby aerodinamica kolor karamella per Feltrinelli). Mentre l’altro figlio si chiama con scarsa fantasia Tommy Junior, tipo Piersilvio. Aveva seguito la ricetta degli “articoli che diventano saggi, e poi romanzi” (Arbasino), anche se il prodotto finale forse non era altrettanto commestibile della materia prima, che risultava appesantita dalle cotture.

Considerato scrittore da stazione da molti colleghi più blasonati, non aveva la penna araldica facile di un Gore Vidal. Né la maestosità Ivy League di un George Plimpton. Né il dramma levigato di un Capote (né il suo autolesionismo: in The Bonfire of the Vanities c’era tutta la New York dell’epoca, à clef, ma chiave a doppia mandata, cilindro europeo, mica tutto in piazza con odii e suicidi e disastri come in Preghiere esaudite). Allo stile complicato del vestiario corrispondeva la legnosità dello scritto: sicché era talvolta impossibile arrivare alla decima pagina. E così il suo mistero permane intatto: sarà un Gadda senza complessi milanesi? Un Giuseppe Berto senza psicanalisi? Mah. Però che scanner della società americana: pullmini e acidi per i Sessanta, Black Panther in salotto nei Settanta, falò della vanità per gli Ottanta.

Lui coi suoi completini da Enzo Miccio ha avuto anticipi bestiali, libri consegnati in tempo, attici, vita e matrimonio tranquillo. Fece anche divagazioni in architettura, altra conseguenza inintenzionale del frequentare le classi alte.  Il suo libro From Bauhaus to Our House (Maledetti architetti) fu assai criticato; fu però  il primo a scoprire e amare Las Vegas, negli anni Sessanta. Si distinse poi per odio ordinario verso archistar e modernismi, e un rimpianto da Prince Charles per colonne e capitelli della nonna (ma, del resto, a un dandy del Sud non si poteva certo chiedere di amare Mies van Der Rohe).

Foto Getty
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