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Perché non sono andato a Genova

Vent'anni fa iniziavano le manifestazioni che portarono agli scontri e alla morte di Carlo Giuliani. I ricordi, le discussioni e i contenuti di quella che è diventata una ferita nazionale.

di Antonio Pascale

21 luglio 2001: Attivisti no-global visti di riflesso dal vetro di un negozio durante le proteste del G8 a Genova. Foto GERARD JULIEN/AFP via Getty Images

Non ricordo perché non andai a Genova. Forse a causa di una dichiarazione di Vittorio Agnoletto (uno dei leader del movimento) che, vado a memoria, faceva così: solo un movimento mondiale, qual è questo nostro movimento contro la globalizzazione neoliberista, può provare a costruire un altro mondo che o sarà più giusto o semplicemente non sarà.

Non che fossi a favore della liberalizzazione neoliberista, voglio dire, ai tempi, nei gloriosi anni ’80, una delle correnti politiche/economiche che più detestavo era la cosiddetta The Reagan-Thatcher revolution, e anche quando di recente, con la morte della Thatcher, è partita la smania di riscrivere a freddo quel pezzo di storia, io sono rimasto al calore degli anni ’80, quindi abbasso The Reagan-Thatcher revolution. In quella frase di Agnoletto era l’avverbio semplicemente che non mi aveva convinto, appunto, la metteva giù troppo facile.

O forse perché era uscito il libro di Naomi Klein, No Logo, un boom di vendite, e a parte che contestava i brand proprio ora che io, dopo anni di acquisti di contrabbando, a Napoli, tra Forcella e Resina, potevo permettermi un brand di fascia media (segno che la globalizzazione sulle spalle dei cinesi, partita nel 1978, aveva calmato i prezzi in Occidente), ma a parte questo fastidio (non importante per la grande storia), il libro mi era stato segnalato da un’amica che studiava alla Bocconi. Mi disse: devi leggerlo, è il più grande manuale di marketing, ti spiega tutto sul prodotto, altro che quelli che ci fanno leggere qui.

E insomma, semplicemente c’era nel movimento antiglobalizzazione un po’ di tutto e un po’ troppo e non riuscivo ad orientarmi. C’erano monaci e antagonisti e sicuramente per la mia età (nel 2001 avevo 35 anni) era troppa roba e tutta insieme e non mi piaceva, tanto è vero che quella frase di Lorenzo Cherubini: «io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa…» ecc., ecco quel pensare positivo (il singolo era del 1993), non faceva per me.

O forse non andai a Genova perché qualche mese prima, il 17 marzo del 2001, mi trovavo a Napoli, non per manifestare (c’era il No-Global Forum) ma per lavoro, e a piazza Municipio ho visto la polizia chiudere tutti i varchi e memore di passate manifestazioni, tutte negli anni ’80, quando bastava un attimo sia per partecipare sia per trovarsi in uno scontro, insomma, quel giorno il 17 marzo del 2001, pensai in gergo napoletano: qua chiavano mazzate! è meglio che me ne vado. Feci bene, perché in effetti le guardie chiavarono molte mazzate.

Forse non avevo voglia di manifestare a fianco ai black block, che tra l’altro avevo visto nascere nelle prime manifestazioni no nuke – erano tedeschi, una miscela tra post punk e Mark Rudd, fu la polizia tedesca a definirli come “il blocco Schwarz” e il nero divenne il colore del vuoto politico, basta con la fedeltà ai partiti, ai governi alle Nazioni ecc., insomma un vaffa generale, cominciato così e terminato con Grillo, pensa te.

Però mi ricordo che andarono tutti, famiglie con bambini, gruppi organizzati, tutti a prendere i treni speciali dalla stazione Termini, proprio tutti, almeno quelli che avevano letto No Logo e che usavano il cellulare e prendevano l’aereo (grande simbolo della globalizzazione), tutti quelli che andavano da madre Teresa a San Patrignano, una grande chiesa, officiata (almeno in tv) da Vittorio Agnoletto – che con quell’avverbio non mi aveva convinto – e da Luca Casarin – che avevo ascoltato una volta. Tuttavia, al termine dell’intervento del suddetto leader un compagno di vecchia data mi chiese: ma secondo te, questo, quando se lo trova un lavoro?

21 luglio 2001: attivisti no-global durante il G8 di Genova. Foto GABRIEL BOUYS/AFP via Getty Images

Non andai a Genova, però ascoltai tutti quelli che conoscevo e che ci erano andati, alcuni giuravano di aver partecipato agli scontri – ma poi scoprii che non era vero. Non andai, però guardai tutti i servizi, anche Porta a Porta, e Gianfranco Fini disse che Carlo Giuliani aveva tra le mani una bombola d’ossigeno e lui l’ha riconosciuta perché è un sub.

Mi ricordo mio padre che teneva in braccio mio figlio e pensai a quanti litigi per le manifestazioni, quando ero giovane e iscritto a Dp e lui ascoltava Gustavo Selva che dai microfoni del GR2 quotidiano tutti i giorni attaccava il Pci (lo chiamavano Radio Belva), ebbene mio padre stringendo mio figlio disse una frase shock che altro che Renzi. Disse: povero ragazzo, che tragedia. Si riferiva a Carlo Giuliani che all’epoca, nei primi momenti, alcuni giornali si divertivano a tratteggiare come uno squatter, ecc. ecc., e quindi davvero non proprio il tipo di ragazzo che attirava le simpatie di mio padre: povero ragazzo, che tragedia, disse, mi ricordo benissimo, perché – pensai ­– come è cambiato mio padre.

Forse perché stava stringendo suo nipote e lo stava difendendo dalle guardie e dalle manifestazioni del futuro, dai buchi della democrazia e tutto questo mentre Fini dichiarava la sua conoscenza di bombole subacquee e io pensavo ancora: porca miseria, ma che fascista è Fini, ecco cosa succede quando non ti apri al mondo, ecco che succede a rimanere ancorati alle proprie radici, non come mio padre che è cambiato – e chi l’avrebbe detto che a quello stesso Fini avrei fatto poi riferimento negli anni successivi, come esempio di cambiamento e di laicità, soprattutto durante il caso Englaro e il litigio con Berlusconi.

Non sottovaluterei nel gioco della memoria nemmeno il saggio di Antonio Pennacchi, uscito su Limes che recitava: «a me la gente che prima va a fare a botte poi si mette a piangere non mi è mai piaciuta», e accusava quelli che hanno forzato il blocco di incompetenza, non sapevano nemmeno come si sfonda: un saggio coraggioso (e divertente) che nella sostanza sembrava sostenere: a caldo può succedere di tutto, non ci lamentiamo, ma a freddo no, quella è vendetta, dunque va bene lo scontro in piazza, ma la caserma Diaz no, e no quella roba no.

Molti anni dopo, e poco prima dell’anniversario di Genova, guardandomi una sera allo specchio, depresso dal gioco delle ombre, dalla pancia e dai capelli bianchi, pensai alla globalizzazione. Sono figlio della produzione e dell’occupazione manifatturiera. Attività di rilevo, nata due secoli fa e sviluppatasi grazie a tecnologia e invenzioni e modalità di organizzazione che hanno avuto origine in pochi Paesi.

L’occupazione manifatturiera nel 1980 raggiunse (in occidente) la sua vetta. Poi dal 1980 è cominciata a scendere. Gli occupati nel suddetto settore sono scesi da 71,5 milioni a 63,9 nel 2000. Poi il declino è stato più marcato, nel 2010 eravamo a 51,1 milioni, ovvero si sono persi 12,8 milioni di posti di lavoro.

Mentre in occidente sia la produzione manifatturiera sia i posti di lavoro totale diminuivano, aumentavano i posti di forza lavoro specializzati e ben retribuiti in alcuni settori come quello ingegneristico, nel mondo che ancora oggi chiamiamo (dimostrando ignoranza) in via di sviluppo, la produzione e l’occupazione nella manifattura aumentavano a ritmo sostenuto: tra il 2000 e il 2010 l’occupazione in queste aree è aumentata del 29,4 per cento. 63 milioni di posti di lavoro in più – di cui il 35 per cento, cioè la metà – sono in Cina: dunque, combattevamo contro la globalizzazione o perché avevamo perso il nostro centro (manifatturiero)?

Il mondo che sarà o semplicemente non sarà è uno slogan facilone. Come sempre, il mondo che verrà sarà un mondo dove si contano benefici e costi. La maggior parte dei produttori, sia nei Paesi ricchi sia in quelli poveri, dovrà necessariamente sviluppare una strategia internazionale e le aziende dovranno adottare un approccio globale. In fondo la dinamica è percepibile già oggi. Se produco semplici matite e voglio restare sul mercato e affrontare la concorrenza digitale dovrò occuparmi di molti aspetti, dal locale al globale: dove prendo la grafite?

La Faber Castell – racconta Peter Marsh, in Fabbricare il futuro, una nuova rivoluzione industriale (Codice) –  prende la grafite da miniere che si trovano in Cina, Sri Lanka e Zimbabwe. Poi però deve miscelare la grafite con piccole quantità di un certo tipo di argilla che garantisce elasticità e dunque “scrivibilità”. E per questo si rivolgono alle miniere di Klingerberger. Il legno? Ci vuole quello giusto. Per le matite normali la Faber Castell prende i pini piantati in 100 chilometri quadrati nello stato di Minas Gerais, in Brasile. Per quelle di alta qualità, ci vuole un un’essenza pregiata di cedro che cresce in California e Oregon e viene spedita via nave prima a Tianjin, in Cina, dove viene lavorata e poi spedita a Stein. E non basta, la mattina bisogna venderla in tutto il mondo, e ci vuole un racconto, una narrazione della matita e questi aspetti – insieme alla capacità di valutare la qualità di una particolare innovazione, di sviluppare o assimilare una tecnologia – tutto questo nel futuro diventerà sempre più importante, mica solo per le matite.

Che dire, prima di coniare slogan, bisogna imparare a leggerlo il mondo. Ci vogliano nuovi strumenti per nuove soluzioni, altrimenti, qui in Occidente, saremo vecchi che ricordano semplicemente i tempi che furono e intorno ci sarà mondo molto giovane che costruisce i tempi che verranno, complicatamente.