Attualità

127, l’anti-icona

L'ultimo repêchage di Fiat è legato alla 127, auto dal design storico ma mai diventata un culto come la Uno (nonostante la amasse D'Alema).

di Michele Masneri

Forse non sarà davvero prodotta ma è l’ultimo tormentone e repêchage di memorie nel mondo dell’auto, molto innamorato dei sequel e delle nostalgie forse perché in crisi d’ispirazione o semplicemente in crisi. La Fiat 127 immaginata dal designer David Obendorfer, mentre la casa torinese è alle prese con fusioni americane, farebbe giustizia di un modello importante, anche se magari in maniera troppo glamour per un’auto che fu sempre compassata e sobria. La 127 non fu infatti mai – come si dice – iconica; non aveva il carattere uberproletario di un’Alfasud (Verdone nell’immigrante-votante pre-grillino Ametrano) o di una fantozziana Bianchina. Né il tratto altoborghese pre-Smart della Autobianchi A112, progenitrice delle Y10 con cui pure condivideva meccanica e scocca; non fu protagonista di delitti eccellenti, come appunto la A112 dell’assassinio Dalla Chiesa e della araldica moglie Emanuela Setti-Carraro, poi portato al cinema da Giuseppe Ferrara in Cento Giorni a Palermo, né di bande micidiali come quella eponima della Uno Bianca.

L’avvocato Agnelli, che pure possedeva 11 Panda, non ne ebbe neanche una, di 127

Ce l’aveva solo un comprimario in Bianca di Nanni Moretti, ammaccata. Non fu amata neanche dai terroristi, come la Renault 4, né dagli hippy come la Dyane. Né fu additata per eccessiva bruttezza come la Duna, che leggenda vuole disegnata dallo stesso Cesare Romiti – poi sempre leggendariamente pentitosi. L’avvocato Agnelli, che pure possedeva 11 Panda nelle sue residenze, e che amava infierire con versioni speciali sulle auto della casa, tra cui una Panda cabrio con allestimento simil-papamobile, in esposizione alla mostra da poco conclusa al Lingotto, non ne ebbe neanche una, di 127. E non che fosse peggiore di altri modelli dell’epoca (e Arbasino, in un coccodrillo agnelliano di dieci anni fa su Repubblica: «Davanti a quegli abiti perfetti e a quei Klimt mirabili, in casa, non si ebbe mai cuore di domandargli come mai non applicava lo stesso occhio e gusto anche alle macchine Fiat, in queste fasi di insofferenza per il look impiegatizio nei prodotti di serie e di massa»).

Forse mancava di carattere: eppure la 127 aveva tutto un suo pedigree da Salone del Mobile e Compasso d’oro: era stata progettata addirittura da Pio Manzù, figlio di Giacomo, e scultore in proprio di bisogni indotti per élites che diversamente agognavano i suoi prodotti. I portaoggetti da scrivania per Kartell e gli orologi da tavolo periscopici per Alessi, e soprattutto insieme ad Achille Castiglioni la lampada Parentesi per Flos. Ma le stesse élites che esibivano la lampada concettuale in casa mai avrebbero tollerato una 127 in garage. Manzù, che aveva progettato questa piccola auto anche rivoluzionaria (trazione e motore anteriore, consumi e prestazioni che stabilirono, come si dice, nuovi standard per l’epoca), non ebbe peraltro modo di vederla su strada, poiché morì per un colpo di sonno sulla Milano-Torino proprio mentre andava alla presentazione di quella che poi fu Auto dell’Anno 1971, vincendo lo Strega dell’automobile.

La 127 fu molto amata invece da Vittorio Ghidella, genius loci Fiat e antagonista di Romiti e padre della successiva Uno; che ne possedeva una in versione Abarth. Ma a differenza della Uno fu sobria e compassata fin dalla nascita: non ebbe, come la sua discendente, lancio in mondovisione a Orlando in Florida, accanto alla stazione Nasa di Cape Canaveral (ma la messa in orbita dello Shuttle, che doveva essere contemporanea, saltò per motivi tecnici). Era fondamentalmente un’auto media per la classe media, quando ancora esisteva, con qualche orgoglio. E qui ci si ricorda di un paio di professoresse, in una scuola media della deep provincia bresciana degli anni ottanta, molto amiche, con provenienze Magna Grecia, che cambiavano auto con cadenze precise, e all’unisono, e sempre solo Fiat. Con le loro 126 e 127, entrambe bianche, sentendosi sempre molto a posto; segnalando una fedeltà alla marca che, come l’Arma dei Carabinieri, garantisse anche un’appartenenza nazionale, prima dei leghismi e delle macroregioni. Più tardi arrivò invece un professore di matematica più arrembante, che apprezzava e possedeva una 127 Rustica; color beige-capuccino, con «paraurti tubolari anteriori e posteriori e griglia parasassi sui fari anteriori» come recitano entusiastici articoli di Quattroruote d’epoca, prodotta in soli 5.000 esemplari. Era il primo tentativo di suv per italiani di fine anni Settanta che si affacciavano timidamente al riflusso. Fu prodotta dal 1979 al 1981 presso gli stabilimenti emiliani della Lamborghini, e oggi forse è un culto. Nel 1983 arrivò sul mercato la Uno e in molti la dettero per spacciata, la 127. Invece continuò orgogliosamente a vendere, resistendo agli anni Ottanta aspirazionali, declinata in una tragica versione station wagon Panorama, poi ri-marchiata Seat in terra di Spagna, e poi rivenduta in Yugoslavia e Argentina e Brasile, e poi ancora amputata in uno spinoff che dette moltissime soddisfazioni a idraulici e vetrai, il Fiorino.

Finita l’università, la Normale, D’Alema a farsi le ossa nel Mezzogiorno e la 127 era il mezzo giusto

Negli anni Ottanta che si affacciavano, ce l’aveva anche Massimo D’Alema, la 127. «Il 19 marzo 1980 arriva a Bari a bordo della 127 azzurrina, targata Pisa», coi vestiti appesi in macchina, «pantaloni grigi, camicia bianca», «il tipico abbigliamento da funzionario di partito» scrive Giuseppe Salvaggiulo ne Il peggiore. Ascesa e caduta di Massimo D’Alema e della sinistra italiana (ChiareLettere). Finita l’università, la Normale, è a farsi le ossa nel Mezzogiorno, come usava allora, e la 127 era il mezzo giusto «perché il quadro di partito non si educa viaggiando in aereo», come confiderà lo stesso futuro presidente del consiglio, che disprezza e fugge però la “Bari da bere” già affacciata sul boom craxiano e pre-berlusconiano poi denunciato severamente da Francesco Laudadio ne La riffa (dove una esordiente Monica Bellucci vedova dei bisogni indotti «aveva perso tutto tranne il suo corpo», come da trailer d’epoca). Invece, l’ambizioso quadro «con la sua 127 macina centomila chilometri l’anno, gira tutti i paesi, le sezioni», «si lascia conquistare dalla provincia»; «in ogni paese si lascia andare»; «adora tornare a Gravina, cittadina rossa che pare una piccola Bulgaria». Secondo l’autore, la 127 sarebbe significativa e simbolica di molta temperie successiva, anche: alla base dell’antropologia dell’alterità che ha segnato questi anni, «per Massimo, Silvio (Berlusconi) rappresenta la quintessenza dell’altro da sé. Lui (D’Alema) è calcolatore e razionale, l’altro istintivo e pazzoide. Lui è stoico, l’altro è epicureo. Lui viaggiava a bordo di una 127 scassata, l’altro in elicottero».