Attualità

Suzy Menkes

Abbiamo incontrato la fashion editor dell’International Herald Tribune, una delle penne più iconiche del giornalismo di moda.

di Michele Masneri

Si ha appuntamento con Suzy Menkes, tecnicamente Dame Suzy Mankes, Obe (Order of the British Empire) in questo hotel Hilton romano sempre vagheggiato e mai raggiunto. Monte Mario è infatti un colle senza ragioni precise per andarci, se non si è un emissario straniero o un gourmet molto liquido. Qui proprio all’Hilton lo chef Heinz Beck ha fatto scoprire ai Romani il sifone e le sferizzazioni (ma con juicio) e non si è lontani da villa Madama dove capi di stato e di governo stranieri vengono accolti nei summit più importanti. Poi c’è un osservatorio astronomico. L’Hilton però è la creatura più importante di questo strano Monte; un gigantesco corpo di fabbrica che domina la città con architettura anni Sessanta e cancellate barocco-cinesi, appena restaurate, che sembrano cingere un gigantesco ristorante Lanterne Rosse, o l’ambasciata di Pechino. «Questi Hilton pare siano alberghi coloniali, alberghi non solo di affari, ma di prestigio e Guerra fredda. Sorgono nei luoghi dove si vuole affermare un potere, come al Cairo, a Baghdad, all’Avana, a Berlino» scriveva Carlo Levi nel suo Roma Fuggitiva (2011). In queste stesse sale qualche settimana fa c’è stata la riunione mondiale dell’Interpol. Ottocento stanze, cemento armato e vetro delle facciate, ma balconcini fioriti, un piazzalone tipo policlinico Gemelli. Pini romani. Bandiere. La modernità che invecchia.

Nella hall assiro-babilonese, un enorme bar circolare col suo bancone in marmo, nero, che dà le spalle al vero spettacolo di questo posto e cioè la vista su Roma, in primo piano il cupolone, e sotto la città intera, distesa, attorno a una bellissima piscina piena d’acqua (a metà novembre) e a dei piccioni che planano minacciosamente su sandwich e ceasar salad di ospiti molto inglesi e internazionali e cool accorsi per l’International Herald Tribune Luxury 2012, annuale summit mondiale del lusso organizzato, presieduto, sorvegliato e gestito da Suzy Menkes che quest’anno si svolge a Roma. Discendendo una doppia scala elicoidale da telefoni bianchi, si scende nel bunker allestito per la kermesse: una jeep Mercedes classe G completamente d’oro e in versione safari mette subito in chiaro qual è lo sponsor e qual è il tema dell’evento. Intorno, stand d’organizzatori di servizi all-inclusive per nuovi affluenti globali (scout di luoghi di lusso in grado di organizzare in 24 ore partenze e tragitti iperchic con Gulfstream-V per cinesi senza tempo da perdere; produttori self made men di pellicceria africana). Parrebbe un’assemblea della Fao, ma poi intorno vedi Jean Paul Gaultier, Donatella Versace, Vivienne Westwood, Manolo Blahnik, le sorelle Fendi al completo, Franca Sozzani, poi soprattutto Valentino Garavani, tornato apposta nella sua Roma, con la sua corte ancora in attività, dignitari, assistenti al soglio. Un’Altezza Reale di passaggio, che saluta gentile, come nella Recherche.

Su tutto questo circo regna, qui anche plasticamente, Suzy Menkes, fashion editor dell’International Herald Tribune ma, si capisce, anche badante saggia e assennata di un caravanserraglio che ha bisogno di mani forti per essere governato. Dame Suzy ci riceve però sopra, su un divanetto. Intorno, il trionfo dell’ottone lucido e del mobile d’alta epoca accostato al plexiglas. Grandi tele appese alle pareti. Un Tiepolo (vero), di dimensioni ciclopiche, rappresenta l’Ulisse che scopre Achille tra le figlie di Licomede; la scena mostra l’acuta scaltrezza con cui Ulisse smaschera il giovane e più ingenuo Achille che, inviato dalla madre Teti tra le figlie di Licomede per essere sottratto al suo infausto destino, nonostante il travestimento da fanciulla e incapace di frenare il proprio istinto di guerriero, d’impulso afferra la spada nascosta tra i gioielli che Ulisse aveva portato alla corte del re di Sciro.
Anche questa è una storia di travestimenti.

(Giù, dalla città, arrivano botti. Si stanno sparando lacrimogeni, ci sono manifestazioni. Dame Suzy dice solo: «saranno pericolosi?»)

Il fatto è che gli inglesi ingannano. Gli americani (…) sono come li vedi. Ma immaginate di sedervi su un 747 in partenza da Heathrow e di avere vicino il tipico vecchio trombone anglico, magari un pezzo grosso della City col triplo mento, balbettio ereditario, e parole crociate del Times sulle ginocchia. Che non vi passi nemmeno per la testa di prendervi una confidenza. Probabilmente Mr. Té alle cinque è cintura nera di judo, ma non solo, nel 1943 è stato paracadutato in Dordogna, dove ha fatto saltare un paio di ponti, ed è sopravvissuto alle galere della Gestapo concentrandosi su quella che sarebbe un giorno diventata la traduzione ufficiale inglese dell’Epopea di Gilgamesh, e adesso, col sacco da viaggio di cellofan pieno di vestiti da sera «vedo-e-non-vedo» e di lingerie di sua moglie, sta andando alla convention di travestiti che si tiene ogni anno a Saskatoon.
Mordecai Richler, La versione di Barney, Adelphi, 2001

Suzy Menkes è inglese, e non americana. Così come inglese è l’altra grande commissaria del popolo dei destini della moda mondiale, la direttrice di Vogue America Anna Wintour. Una volta appurato questo, si capiscono molte cose. Wintour, pure lei Obe, è figlia del direttore del giornale della sera londinese Evening Standard, Charles Wintour, fatto baronetto dalla Regina Madre. Il nonno era il general maggiore Fitzgerald Wintour, mentre la sua trisavola era Lady Elizabeth Foster, duchessa del Devonshire, famosa bellezza dell’Ottocento. Lasciata la scuola a 15 anni, Anna lavora in una piccola boutique di Chelsea, Biba, poi da Harrods, poi si iscrive a un corso di design, ma si ritira subito. Poi i giornali, e i giornaloni.

Suzy Menkes è inglese, e non americana. Così come inglese è l’altra grande commissaria del popolo dei destini della moda mondiale, la direttrice di Vogue America Anna Wintour. Una volta appurato questo, si capiscono molte cose.

Dame Suzy nasce invece giornalista, con un côté Yourcenar. Viene alla luce la vigilia di Natale del 1943 a Londra; il padre è un ufficiale della cavalleria belga, evacuato da Dunquerque nel 1940. Incontra la madre di Suzy sotto le bombe; un amore di guerra. Lui muore nel 1943 quando lei non è ancora nata, quando il caccia della Royal Air Force che stava pilotando scompare al largo di Malta. Note di famiglia: «Mia madre usava dire che l’unica cosa che portò con sé nel suo viaggio da Dunquerque furono un paio di calze di seta». Durante la guerra i Menkes (Suzy ha una sorella più grande, Vivienne Menkes-Ivry, che fa la traduttrice) si trasferiscono a Brighton (atmosfere da Espiazione, sembra), una pensione di guerra, un’esistenza decorosa. Le sorelle Menkes sono dotate: Vivienne va a Oxford (si laurea in letteratura francese e tedesca) e Suzy a Cambridge, dove vince una borsa di studio in letteratura inglese e diventa direttore (primo direttore donna del giornale dell’università, Varsity). Scrive di costume e società, sono gli anni della swinging London. Dopo l’università entra come redattrice di moda in prova al Times. Qui conosce quello che diventerà il suo futuro marito, e questa è una storia magnifica. David Spanier, prestigioso inviato di politica estera ma soprattutto prestigiosissimo giocatore d’azzardo. Famoso per un suo Europe on Europe, pensoso saggio sull’entrata della Gran Bretagna nel Mercato comune, ma soprattutto per sei manuali di gioco tra cui Total poker, riconosciuta bibbia internazionale, uscita nel 1977 per Simon & Shuster, e che in alcuni passaggi equipara la politica estera e il gioco di carte, in particolare paragonando la crisi dei missili di Cuba (1962) con una mano complicata. Altri titoli sono: The Gambler’s Pocket Book (1980), Total Chess (1984) e All Right, O.K., You Win: Inside Las Vegas (1992), poi uscito anche col titolo Welcome to the Pleasuredome. La sua autobiografia si intitola The Hand I Played, la «mano che ho giocato». È morto il 18 aprile del 2000, a 67 anni, accasciandosi in un casino di Londra, per infarto. Era considerato un ottimo giornalista, un dandy, un esperto di questioni europee (fu corrispondente a lungo da Bruxelles e poi da Washington), un burlone (a Bruxelles, una volta in una conferenza stampa iniziò a fare domande in fiammingo, una lingua che non padroneggiava). Nel 1971 fu nominato giornalista europeo dell’anno. «Mi manca molto, è morto così, all’improvviso, era in perfetta salute, mai fumato. Magari finirò così anch’io», ha detto la Menkes a John Seabrook del New Yorker in un lunghissimo profilo del 2001 cui qui si è ampiamente attinto. Menkes, ebrea per parte di padre, sposerà Spanier con cerimonia religiosa; e ancora oggi molti stilisti sono attenti a non fare sfilate nel giorno dello Yom Kippur, che solitamente cade tra settembre e ottobre, perché lei non si presenterebbe.

Una sta in America e ama l’America (e si veste da americana, forse anche americana media, con stivali e gonnellona e molte pellicce); l’altra è squisitamente inglese nella sua sciatteria molto chic; con la banana un po’ sfatta, forse anche un po’ di ricrescita; oggi orecchini africani, forse di un’ambra sintetica («presi in Kenya quest’estate»), la solita tunichetta Issey Miyake, oggi di shantung, che le è valso il soprannome di Samurai Suzy. Una è famosa per la cattiveria scritta, mentre qui di persona è deliziosa, amabile, non protesta, risponde alle domande che avrà sentito mille volte, finge entusiasmi, non mette in croce assistenti, sorride sempre.
L’altra per la cattiveria orale e comportamentale (ma che è probabilmente una maschera commerciale non dissimile dal caschetto biondo. Chi la conosce la descrive come assolutamente normale ed equilibrata. Essere figlia di un direttore di giornali deve averle insegnato presto che i giornalisti hanno bisogno di messaggi semplici e codificati). Una accetta e anzi forse pretende e sollecita doni; l’altra (la nostra) è celebre per non accettare nulla e spedire tutto all’American Hospital di Parigi (però ospedale molto chic, dove agonizzava già Yves Saint Laurent). Sull’America Menkes dice una frase che è un trattato di cinismo witty commovente: «Margaret Thatcher sosteneva che la società non esiste. Certo dove sono cresciuta io una società esisteva – e ognuno sapeva cosa ci si poteva mettere e cosa no. Potevi uscire di casa e comprare tutti gli abiti giusti, e saresti stata comunque snobbata, perché aspiravi a un posto oltre la tua portata. Questo è ciò che trovo notevole negli americani – loro credono che se compri tutti i vestiti giusti sarai accettata dalla gente giusta, al di là del posto da dove provieni. É molto toccante, davvero. Non so se io ci credo. Ma suppongo sia un’ottima cosa che loro ci credano, perché fa andare avanti il mondo della moda».
Menkes è spesso accusata di essere troppo francocentrica; snobba l’America e la settimana della moda newyorchese: «New York è una città così vibrante. Però questo non si riflette nelle sfilate. Forse perché dietro molti marchi non c’è un designer ma ci sono manager o forse perché Ny viene dopo le sfilate europee, come un’insalata o un sorbet per sciacquarsi la bocca dopo un ricco pasto». Come boss dell’International Herald Tribune risiede a Parigi, dove ha sede il quotidiano. Ma il suo primo soggiorno nell’Île de France risale alla giovinezza: un anno sabbatico tra il liceo e Cambridge, che passa a studiare sartoria («ho imparato a fare i tagli e a fare i cartamodelli. Ero Mademoiselle Menkes. Vivevo con una famiglia di émigré russi, e la signora mi portò a vedere il primo défilé della mia vita, di Nina Ricci. Lo amai subito»). A Parigi torna poi dopo l’università, per frequentare i corsi della Chambre syndicale de la Mode. Non se ne andrà praticamente più. «Non direi di essere francocentrica», dice. «Mi è difficile stabilire per esempio la nazionalità dei grandi marchi. Non sto a pensare che Balenciaga è un marchio spagnolo. È un grande marchio e basta. E Miuccia Prada non è una stilista italiana, è semplicemente una geniale stilista, e basta». Nel 1978 diventa fashion editor del Times di Londra. Sono gli anni del boom del made in Italy e da Parigi copre quel periodo di stelle nascenti. «Era fantastico vedere tutti questi stilisti che nascevano in Italia: Giorgio Armani e Versace e Romeo Gigli». Sono anche gli anni in cui a Parigi scoppia Lacroix, uno dei suoi favoriti, anche se una delle differenze tra lei e Anna Wintour, è che la Menkes non ha né sodali né preferenze per partito preso. Ha gusti molto ben definiti ma che possono variare molto velocemente e che non dipendono dal mercato. Per esempio, appunto Lacroix negli anni Ottanta; adesso è un periodo in cui le piace molto il nuovo corso di Valentino Garavani, con il design dei giovani Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli; ma non dall’inizio, anzi all’inizio li ha accolti un po’ freddamente, mi dicono.

Una è mora, l’altra è bionda. Una ha una silhouette tondeggiante, sembra una vecchia zia buona ma risoluta; l’altra è magrissima, soignée, scattante, nervosa. Capelli: secondo la sua amica Marion Hume, nel 1988 quando Menkes fu nominata grande capo della moda del Tribune, decise che a quel punto serviva un tocco per entrare a far parte del grande circo della moda, si inventò il ciuffo a banana che la trasformò da «signora londinese di mezza età in icona». Andava fatto, si fece. La principale differenza tra Menkes e Wintour è però che la prima ha sempre un laptop sulle ginocchia, è sempre l’ultima ad andare via dalle sfilate perché deve finire di scrivere i suoi pezzi affilati e giornalistici e spesso polemici; mentre Wintour non scrive mai. L’unica sua produzione scritta, fa notare un addetto ai lavori, è il Letter from the editor, l’editoriale basico di apertura di ogni numero di Vogue America. Lei è donna di prodotto, di placement, di relazioni; che punta a imporre un mainstream e veste mainstream. Menkes invece è donna di scrittura: nella sua bio su Wikipedia c’è un preciso riferimento al numero di parole scritte per l’Iht: dal 1988 a oggi si dice che siano oltre 1,7 milioni (senza spazi, probabilmente). Parole anche molto ricche e articolate, da critico letterario quasi più che da fashion editor. Gioca su diversi registri linguistici. Nel té che ci prendiamo su un divanetto propina un inglese molto upper class, senza birignao, perfetto e squillante, semplificato, si pensa, per l’intervistatore italico. Sulla pagina, è tutto invece un “vibrant” e “louche” e “palatable”, “transient”. Frasi come «a masculine pants suit in a carapace of whiskey brown pearl buttons»; «if you want a pick-me-up fashion cocktail of color in a tutti-frutti print, gaudy suede Puss-in-Boots and look-at-me accessories, this show was caricatural Versace». Tutto questo armamentario linguistico serve spesso per analisi del suo mondo, quello della moda, che pochi altri possono permettersi.

In un pezzo intitolato “Dirty Pretty Things” pubblicato sul Tribune il 30 novembre Menkes ha affrontato l’ultima questione che le sta a cuore in questi anni, quella del rapporto tra marchi storici e giovani stilisti. Con un punto di vista non certo popolare o scontato. Scrive: «I designer sono come commodities, come materie prime. Utilizzati per disegnare anche più di nove collezioni all’anno, sono sottoposti alla pressione dei manager. I designer sono comprati per far rivivere case di moda spesso decotte. L’analogia più appropriata è quella con le squadre di calcio, dove i giocatori sono comprati e veduti senza riguardo al loro paese d’appartenenza. È giusto trattare i creativi come materie prime? Il caso Galliano, che ha dedicato alcuni dei suoi anni migliori a Christian Dior, mentre il suo brand veniva trattato come una ballerina o un giocattolo, dalla capogruppo Lvmh, ha scatenato un turbinio di ricerche nel mondo del fashion. Processato per inammissibili frasi antisemite, che gli sono costate la cacciata da Dior nel 2011, Galliano ha ammesso la sua dipendenza dall’alcol. Nel mondo della moda ci sono molti segreti di pulcinella come questo riguardo alcol e droga. Senza il sostegno di una famiglia – vera o composta da amici fidati i designer sono spediti in rehab o possono anche levarsi di mezzo. Quelli che riescono a stare in carreggiata devono trovare il tempo per la creatività tra una sfilata, un evento in un museo, un gala globale. E ora devono pure tenere i contatti coi loro fan (leggi: clienti potenziali) via Facebook e Twitter».

È un’analisi squisitamente politica. Tanto che le chiediamo come mai alla fine non ha preferito dedicarsi al giornalismo “vero.” «Politica? Non ho per niente una mente politica, io. Non ne capisco niente», mente. Però poi ritorna alle grandi strategie. Vecchie case di moda e giovani stilisti “on demand”. «Non è mai facile né scontato», riflette. «È andata bene a Chanel, dove Lagerfeld celebra quest’anno i suoi 30 anni di presenza; bene a Valentino; meno bene con Alexander McQueen cacciato dopo cinque anni a Givenchy, del gruppo Lvmh, poi andato dai rivali di Ppr per sviluppare il suo marchio personale. O con il divorzio di Nicolas Ghesquière da Balenciaga (sempre del gruppo Ppr)». Le si chiede perché in Italia non sia possibile la nascita di grandi poli di aggregazione. Negli ultimi anni molti marchi di importanza variabile (da Gucci a Bottega Veneta, da Pucci a Bulgari a Valentino) sono finiti in mani straniere. Perché non è possibile ipotizzare un Ppr o Lvmh italiano? E soprattutto, cosa succederà quando avverrà ciò di cui nessuno osa parlare, cioè quando Giorgio Armani passerà la mano? Il tema le piace, e anche qui la riflessione è da giornalista vera. «Il fatto è che non è che queste fusioni siano avvenute sempre con successo; o con il placet degli interessati», dice. «Anzi, pensiamo a casi come i tentativi di scalata di Ppr su Hermès. Il fatto è che questa ripresa e fusione di marchi storici è avvenuto dopo la morte dei fondatori. Il fatto che in Italia non ci siano grandi conglomerati a mio avviso ha a che fare con un fattore cronologico. L’Italia si è affacciata infatti sul grande mondo della moda con 15-20 anni di ritardo rispetto alla Francia. Così è in un certo senso fisiologico che si pongano ora i problemi di successione e di integrazioni che a Parigi si sono posti anni fa, con la nascita di poli come Ppr e Lvmh».

«Non è che tutto ciò che si legge in Rete è vero. Sa, me lo spiegava mio figlio, che si occupa internet» ed è un discreto understatement perché Joshua Spanier, il figlio di Dame Suzy, è responsabile mondiale media di Google.

Un altro tema che la appassiona è naturalmente quello dei media. «Ah, questa crisi è molto, molto interessante», dice dall’alto del suo milione e settecentomila parole (scritte su laptop e iPad ma con tastiera di supporto, confessa). «Bisogna essere realisti, guai a chi dice non voglio leggere un giornale o un libro sul kindle. Ma pensiamo all’altra rivoluzione che abbiamo vissuto noi, quella degli anni Ottanta al Tribune. Quando per la prima volta lo stesso giornale veniva teletrasmesso in diversi paesi e poi stampato contemporaneamente. Siamo stati già dei pionieri; adesso c’è un’altra rivoluzione e non può essere che positiva». Neanche i fashion blogger la innervosiscono perché «il fashion oggi è per tutti; dunque benvenuti blogger e affini e sfilate su Youtube. E certo, io continuo a pensare che per scrivere di moda come di qualunque altro argomento bisognerebbe aver ricevuto una formazione, qualcosa. Però ormai la moda è una cosa per tutti. E anche questo Twitter è una cosa fantastica», dice, anche se ammette di aver smesso di twittare («a volte il tempo è così poco»). Anche qui, analisi politica, e punto di vista non banale. Le interessa soprattutto come i grandi gruppi possono reagire agli attacchi reputazionali della Rete. «Pensi che nella Silicon Valley ci sono ben tre aziende che stanno studiando le strategie di risposta dei brand agli attacchi su Twitter. E non parlo di brand della moda. In generale. Una catena di hotel come quello in cui siamo; viene bersagliata da recensioni su Twitter o su altri social. Come può difendersi? Non si tratta di essere cinici, ma di essere realisti. Non è che tutto ciò che si legge in Rete è vero». Poi torna al registro da timida signora inglese: «Sa, me lo spiegava mio figlio, che si occupa internet» ed è un discreto understatement perché Joshua Spanier, il figlio di Dame Suzy, è responsabile mondiale media di Google. L’altro, il maggiore, Gideon, è esperto pure di media per l’Evening Standard, mentre il più piccolo, Samson, scrive di arte contemporanea per il New York Times.
Li sente spesso, i suoi figli, dice, e la sensazione è che la sera, una volta smessa l’armatura da samurai, smontata la banana, Dame Suzy si faccia un calice di sherry parlando al telefono con loro o coi nipoti di quà o di là dell’Atlantico. O magari con Anna Wintour (le due, nonostante le apparenze, hanno un ottimo rapporto), parlando di strategie segretissime o di Downton Abbey come due vecchie signore inglesi. L’idea che rimane, alla fine, è che Menkes e Wintour, da sveglie ragazze inglesi, abbiano deciso anni fa di spartirsi l’impero della moda, con perfetta mentalità mercantile british. Come la compagnia delle Indie orientale e quella delle Indie occidentali. Di qui la banana, di là il caschetto. Di qui l’Europa, di là l’America. Adesso il tempo dell’intervista è finito. Ma un film su di lei, Dame Suzy? «Su di me? Non sono mica così importante…».
 

Dal numero 12 di Studio