Attualità

L’economia delle pulci

Mercatini come Instagram. Quanto l'attenzione per il vintage negli ambienti creativi è una questione di gusto e quanto una necessità?

di Cesare Alemanni

A giugno sono stato qualche giorno a Londra per intervistare James BridIe (Studio #9 – Giugno/Luglio 2012), un “tecnologo” trentunenne di Shoreditch che ha fatto parlare di sé negli ultimi tempi prima con il blog new-aesthetic.tumblr.com e poi con l’app Dronestagram (presentata anche su Studio). Dopo quell’incontro abbiamo continuato a sentirci di tanto in tanto e in una delle ultime occasioni siamo tornati su uno dei nostri argomenti di conversazione più frequenti: il lifestyle contemporaneo. James si trovava a New York per tenere un workshop sull’e-publishing alla School of Visual Arts e si rammaricava di come – anche a Brooklyn come a Shoreditch – la maggior parte dei giovani “laureati/studenti” middle-class “impiegati/in cerca di impiego”, nel vasto e ormai non più recintabile campo dei lavori creativi, facesse ogni sforzo per apprezzare uno stile di vita che è una versione appena aggiornata di quello nemmeno dei loro padri ma addirittura ormai dei loro nonni. Per usare le parole di Russell Davies: «I think most of Shoreditch would be wondering around in a leather apron if it could. With pipe and beard and rickets» e lo stesso si può dire di Berlino dove mi trovo al momento. A Prenzlauer Berg e Mitte, così come a Brooklyn, a Shoreditch e in altri distretti creativi sparsi tra Europa e Usa, sembra in corso una restaurazione per riportare le lancette della Storia intorno al 19-qualunquecosaprimadegli80 (o almeno all’idea del 19-qualunquecosaprimadegli80 che può avere un venti/trentenne del 2012). Nei ritrovi sociali più in voga i menù sono scritti su lavagne di ardesia, le riviste di carta sono ancora considerate il (solo e unico) non-plus ultra della divulgazione culturale e il 90% della clientela indossa eskimo e barbour con la disinvolta vaghezza di una comparsa di Blow Up. Dopo la coda lunga della fumosità Postmoderna, pare che gran parte della generazione di giovani adulti a più alto tasso tecnologico conosciuta dal mondo finora, anziché spingersi oltre abbia una gran voglia di tornare nel tiepido abbraccio del Moderno, con la speranza di trovarvi un’ultima scheggia di (supposta) autenticità. Il che, come ha scritto Jay Owens in un saggio apparso a maggio su Business Of Fashion,  è davvero paradossale dal momento che: «La tecnologia resta centrale nel modo in cui consumiamo questa estetica nostalgica: condividiamo le nostre esperienze “autentiche” su Twitter e Facebook e ci facciamo guidare da Foursquare verso la torrefazione artigianale appena aperta». E sembra peraltro del tutto inutile dileguarsi dalla questione riconducendo il fenomeno alle dimensioni di una sottocultura o di una cultura “in parallelo”. Se si ha una certa familiarità con i Centri di una qualunque metropoli dell’Occidente avanzato che superi i 2 milioni di abitanti, ci si sarà resi conto che ormai il termine hipster denota un tipo antropologico ben preciso con la stessa inesistente finezza della parola pedone.

Visto che non si tratta di una realtà di nicchia ma di una piega delle cose che esiste con proporzioni schiaccianti, rimane quindi in piedi la questione principale: perché, nei maggiori hub metropolitani occidentali, più ci si avvicina ad habitat nominalmente creativi e tecnologici – habitat che per loro stessa natura dovrebbero essere contigui all’idea di “futuro” – e più si riscontra nel layout degli individui una fuga nel passato? La risposta di Bridle e di altri che la pensano come lui è che l’attuale – la nostra, peraltro – generazione di venti-trentenni tecno-creativi manca di una più profonda consapevolezza del mondo in cui vive, di come si presenta il presente e di come si sta affacciando il futuro. Come dire: abbiamo l’iPhone ma pensiamo ancora in termini di telefonino. O per dirla in modo più completo, abbiamo l’iPhone ma non abbiamo ancora esplorato pienamente né compreso che tipo di mondo è il mondo in cui esiste l’iPhone (esiste nel senso di che mondo è il mondo in cui possiamo utilizzarlo per riconoscere una canzone in un bar, aggiornare twitter e rispondere a una mail nello stesso momento, e che mondo è il mondo in cui qualcuno è in grado di progettare e mettere in vendita su larga scala un oggetto del genere, e che mondo è il mondo in cui quel qualcuno che è in grado di mettere in vendita un oggetto del genere su larga scala è solo la punta dell’iceberg di una rivoluzione tecnologica e cognitiva che ha degli aspetti molto meno visibili ma a volte molto più radicali, trasformanti e talora inquietanti) e dunque la “fuga nel passato” si spiegherebbe molto primordialmente con la paura dell’opacità che ci circonda e dell’ignoto che ci attende. Secondo altri, come per esempio i creatori di DIS Magazine, ai quali di recente il New York Times ha dedicato un pezzo, è una questione di puro e semplice “disallineamento” del gusto. Come gli ultimi superstiti del classicismo nella prima metà del ‘600 non vollero darla vinta all’avanzare del Barocco, noi indossatori di Parka&Clarks non vogliamo darla vinta ai tessuti tecnici.

Sono ambedue spiegazioni piuttosto convincenti e integrabili l’una con l’altra che però mancano a mio parere di una prospettiva più strettamente materialista che rifletta sullo status socio-economico delle giovani classi creative metropolitane.

Abito di fronte a Mauerpark, uno dei parchi più famosi di Berlino (nonché uno dei meno attraenti) anche per via dell’enorme mercatino delle pulci che vi si svolge ogni domenica in cui è possibile trovare di tutto e, quando la temperatura ancora lo permetteva, la mattina mi svegliavo presto per farci un giro subito dopo colazione. Puntualmente non riuscivo a convincermi a comprare niente ma è comunque stato interessante andarci di tanto in tanto per osservare da vicino l’economia delle pulci. Se è vero, come già nel 1997 scriveva Thomas Frank nel suo libro The conquest of Cool, che a partire dagli anni ’60 (e se ci si riferisce alle Avanguardie anche prima) ogni generazione di giovani adulti “creativi” ha cercato di elaborare collettivamente il proprio concetto di “cool” per distinguersi dalle precedenti (un processo spesso pesantemente infiltrato dal marketing dei grandi brand del lifestyle), la presente generazione di giovani adulti creativi è la prima a essere priva degli strumenti materiali per permetterselo. Per spiegarmi meglio, non credo che la contraddizione insita nel fatto di tenere un iPhone nella tasca di un barbour usato sia da imputare soltanto a un deficit di consapevolezza di come è fatto il presente o a una completa cecità rispetto a questa contraddizione. Ci si guarda indietro e ci si veste, si vive e si apprezzano le cose dei papà e dei nonni non solo perché sembrano più “autentiche” o più “semplici” ma spesso perché sono semplicemente molto più economiche.  Non è una mancanza di visione, è una mancanza di soldi. Un barbour usato costa dieci volte meno di una giacca tecnica, un paio di Clarks costa la metà di un paio di sneakers dal design futuristico. Il remix del vintage come inconscia strategia collettiva di sopravvivenza a un presente/futuro che non ci si può permettere (ma ehi…mantenendo comunque una certa dignità estetica)?! Può essere. L’economia delle pulci è un’economia di Crisi che alimenta una compravendita di feticci succedanei e deprime i consumi di beni di prima mano, è un’economia per individui con poco profitto che crea ancor meno profitti. È più simile al baratto che al mercato. È un’economia rispetto alla quale il marketing è impotente in quanto quest’ultimo si basa sull’idea che le persone vogliano giocare il gioco dell’aggiornamento. È l’economia di Instagram come la descrive Mike Verdone in questo saggio breve del 2011:

«Instagram offre la finta autenticità di ciò che è retro. Una finta cura per delle foto che appaiono come se fossero costate molti soldi per produrle. […] Il tapis roulant dei miglioramenti tecnici delle fotocamere sta alienando gli utenti. Compri una camera a 6MegaPixel e il mese successivo ti ridono dietro perché 8MegaPixel è diventata la norma. Le persone sono stufe di giocare il gioco degli aggiornamenti, ma allo stesso tempo il consumismo e il mercato le spingono a tenersi al passo con le tecnologie più recenti. Poi arriva Instagram e a nessuno più frega nulla perché tutte le tue foto sono immediatamente croppate a 300×300. A nessuno più importa che tipo di camera possiedi. È liberatorio».