Attualità

Sul lungomai di Livorno

Intervista a Simone Lenzi, cantante e scrittore, autore di un libro sulla livornesità, ovvero: Livorno, la Toscana e il rapporto con i Quattro Mori.

di Michele Boroni

Nell’affollato e spesso disordinato universo dell’editoria italiana sono poche le collane che riescono a mantenere una definita identità, riconoscibilità e coerenza editoriale. Una tra queste è sicuramente “Contromano” dell’editore Laterza.

Il format è semplice: un autore già affermato di narrativa racconta un luogo, una città, un’area geografica, fornendone un ritratto e una sorta di guida antropologica e autobiografica. Ad oggi i libri usciti della collana  sono più di cinquanta e vanno dalla Milano nascosta di Aldo Nove ai luoghi del divertimento di Francesco Piccolo, dalle spiagge di Scauri descritte da Chiara Valerio fino alla Versilia trasformata secondo Fabio Genovesi.

A inizio maggio per la stessa collana è uscito “Sul lungomai di Livorno” scritto da Simone Lenzi, cantante della band Virginiana Miller e autore del romanzo La generazione da cui è stata poi tratto il film Tutti i Santi Giorni di Paolo Virzì. Ovviamente si parla di Livorno, città che usualmente viene associata a beffe, mare e risate, ma che Lenzi ha voluto trattare analizzandone il lato più tragico e amaro: ne è uscito un libro arrabbiato ma anche pieno d’amore, commovente e intenso che personalmente mi ha colpito. Così sono tornato a Livorno – che peraltro è anche la mia città natale – per parlarne con l’autore: l’incontro è avvenuto proprio sul lungomare livornese che Lenzi chiama efficacemente il lungomai, una sorta di alibi geografico, simbolo di quell’arroccamento compiaciuto del popolo labronico e che rappresenta l’immobilismo che la città vive da parecchi anni.

 

Un paio di mesi fa rileggevo Maledetti Toscani di Curzio Malaparte, il celebre saggio del 1956 in cui lo scrittore di origini pratesi sostiene che l’unicità dei toscani è tale da fare categoria a sé rispetto al resto degli italiani. Per motivi storici, geografici e caratteriali invece noi possiamo anche dire che «i livornesi non sono toscani».

Se non sbaglio a un certo punto del libro Malaparte scrive «i toscani hanno i livornesi, come gli inglesi hanno gli australiani», che mi sembra un’equazione efficace. Per rispondere alla tua domanda: sì, in effetti è così. Livorno è sicuramente una cosa a parte rispetto alla Toscana che è stata venduta dal marketing, quella dell’olio bono, dei casali di campagna, dei vecchietti che giocano a carte al bar. Ecco, Livorno non è quella Toscana lì. Ogni tanto mi capita di salire a Milano o a Torino e quando qualcuno sente il mio accento toscano parte subito «ah, sei toscano…. che simpatico… dicci qualcosa… facci ridere… la hoha hola…». Ecco, noi livornesi non abbiamo la gorgia fiorentina, non abbiamo aspirazioni. Come scrivo nel libro, siamo un popolo senza aspirazioni, in tutti i sensi. Io credo che questa diversità, in realtà, sia abbastanza comune con le altre province italiane, per le ovvie ragioni storiche, a questo aggiungici l’indolenza tipica delle città di mare, ma il modo in cui questo si declina su Livorno credo che valesse la pena raccontarlo.

Ecco, per raccontare la tua Livorno fai riferimento ad alcuni simboli. Il libro è costruito narrativamente sui tre traslochi in tre zone diverse di Livorno. Tre case e quindi tre immobili. Ed è proprio l’immobilità che diventa una chiave di lettura del libro; l’altro simbolo è invece costituito dalle catene dei Quattro Mori, il monumento labronico più celebre, ma anche metafora di una Livorno immobile e inchiodata a se stessa.

Sì, in origine il libro si doveva intitolare proprio Immobili, che in una parola sola racchiudeva insieme il sostantivo e l’aggettivo, poi invece mi sono ricordato di questo “lungomai”, una bellissima invenzione linguistica di Pasquale Panella che scrisse per Battisti e che trovavo piuttosto calzante. Per quanto riguarda i Quattro Mori mi sembrava interessante capire perché una città giacobina e libertaria come Livorno avesse come simbolo un monumento che rappresentava quattro prigionieri. È notorio infatti che la simpatia dei livornesi sia sempre andata ai Mori piuttosto che al Granduca di Toscana che li guarda da sopra. E questo diventa appunto una metafora abbastanza stringente della città: un complesso di energia vitale – e i Quattro Mori da questo punto di vista sono campioni di questa fisicità così pronunciata e coltivata – che però è destinata a rimanere incatenata. E così sono i livornesi: popolo di grande talento, molto attenti alla propria forma fisica (sul lungomai dove stiamo prendendo il caffè, passano a flusso continuo giovani e vecchi che fanno jogging, fisici asciutti e già abbronzatissimi come ad agosto, Ndr), ma che sono incapaci di “muoversi”, incatenati nell’immobilismo della loro città e così destinati ad essere degli “sprecati”. A Livorno una delle frasi che ricorrono più spesso è «meglio disoccupato al moletto, che ingegnere a Milano».

Io sono uno di quei livornesi che dopo la laurea è scappato – proprio a Milano – riuscendo in qualche modo a sciogliere le catene. Poi, per motivi familiari, abbiamo dovuto riavvicinarci e con la famiglia abbiamo tentato di tornare ad abitare a Livorno, ma ci siamo trovati di fronte a una città allo sbando, autocompiaciuta per la propria inefficienza, ma anche più meschina e gretta. Ti sei fatto un’idea di cosa sia successo a Livorno e ai livornesi in questi ultimi vent’anni?

Secondo me ciò che è successo a Livorno è in definitiva quello che è accaduto nella società italiana in generale, ovvero una grande paura del futuro e del fallimento. A Livorno questo si è tradotto in un ripiegamento ancora più estremo, al punto che tutti quegli aspetti tipici della livornersità come lo sfottò, l’aria scanzonata, il prendersi in giro su tutto, si sono come amplificati e hanno perso fondamentalmente quella spontaneità, diventando maniera; questa maniera è una specie di protezione e di atteggiamento rassicurante per la paura del confronto con altro da sé e anche di aprire gli occhi sulla realtà, quella di una città in forte declino, dove non si vedono prospettive autentiche di ripresa e dove anche il tessuto sociale si è abbastanza sfibrato. In più c’è anche una totale assenza di una vera e propria imprenditoria livornese. I prominents livornesi sono famiglie che hanno fatto soldi affittando e vendendo terreni, senza creare di fatto impresa e lavoro e favorendo, tranne qualche gloriosa eccezione, la speculazione piuttosto che la costruzione. Oggi si sente ancora di più questa totale assenza di sistema che riesca a convogliare e valorizzare le energie positive e una talentuosità diffusa.

A proposito di talenti, nel libro dedichi un capitolo a Cristiano Lucarelli, ex-giocatore del Livorno noto non solo per le sue performance da cannoniere ma anche per aver rinunciato a un miliardo di lire per rimanere nella sua città natale, e con la sua “ascesa e discesa dell’eroe” anche lui diventa nel bene e nel male simbolo della livornesità.

Sì, premetto che non sono un appassionato di calcio, ma ho sempre avuto una certa simpatia per questo ragazzo, dai tempi del libro che scrisse insieme al suo procuratore Carlo Pallavicino con quel titolo guascone Tenetevi il miliardo e mi è rimasto simpatico anche dopo, durante il suo declino, quando di fatto è stato abbandonato dalla città e dalla tifoseria anche per aver tentato una scalata economica un po’ all’italiana, saldando i successi sportivi con l’affermazione politico-editoriale (Lucarelli fu editore del quotidiano Il Corriere di Livorno, sciagurata avventura editoriale durata pochi anni, Ndr), in puro stile Agnelli-Berlusconi ma con salsa di cacciucco. Poi c’è la storia del padre, che nel frattempo anche lui tenta una scalata negli affari del porto di Livorno, e che però non voleva lasciare la casa popolare, quindi finge di separarsi per non abbandonarla, peraltro raccontando che qui “fa colazione a cèe e sciampàgn” (le cèe sono gli avannotti di anguilla, la cui pesca è proibita, ma ogni vero livornese si fa vanto di sapersele procurare illegalmente e a peso d’oro, quindi sono un chiaro simbolo di raggiunta agiatezza, Ndr). Una storia che racchiude il bene e il male di Livorno e una parabola tipica e significativa, quasi da eroe del romanticismo. In fondo Lucarelli è stato capocannoniere in serie A e quindi ti aspetteresti di vederlo a fine carriera come testimonial o commentatore televisivo: questo non è successo perché in fondo a Lucarelli interessava solo il riconoscimento della sua città, che però non gli ha fatto nessuno sconto. Un mito creato e distrutto, appunto.

Nel libro sei piuttosto critico nei confronti della città in cui vivi, ma si legge anche una certa benevolenza: qual è stato il fine ultimo di questo libro e ti sei mai chiesto quali sarebbero state le possibili reazioni dei tuoi concittadini?

Io penso che la prima e l’unica cosa che uno scrittore deve chiedersi prima di trattare un tema sia “che diritto ho di scrivere questo?” e deve darsi una risposta. Io sono nato e cresciuto qui, conosco bene la città, ci pago le tasse, qui ho gli affetti e le amicizie, quindi, sì, ne ho diritto. Poi è evidente che il libro potrà piacere e non piacere.

Ma come dici tu è anche un atto d’amore alla città, un invito a non chiudersi, a non pensare che viviamo nel centro perfetto del mondo, perché non lo è. E poi credo che questo libro sia in sintonia con la collana Contromano per cui esce. Sarei molto felice se fosse letto non solo dai livornesi, ma anche a Bolzano o a Trapani, perché credo che anche un bellunese o un trapanese potrebbero apprezzarlo e magari pensare di venire qui a fare un giro. In fondo un film come Ovosodo di Paolo Virzì ha fatto un gran bene alla città: conosco persone di Cantù che sanno a memoria intere parti del film, e che poi sono anche venute a visitare la città. Io credo che Livorno dovrebbe imparare a proporsi in questo modo e a raccontarsi. Ma per raccontarsi è necessario avere una forte predisposizione nel saper ascoltare i racconti degli altri e a farne qualcosa di buono. Se non riesci a far questo, allora non riesci a tradurti. Perché, alla fine, tutto si riduce ad un problema di traduzione. Tu puoi raccontare qualcosa a qualcun’altro solo se conosci la sua lingua, ma se ti ostini a parlare solo la tua, l’interesse che si avrà per te sarà solo quello che si riserva per gli abitanti delle tribù. Un po’ come fece Oliviero Toscani quando anni fa venne a Livorno a fotografare i livornesi: certo, siamo anche soggetti interessanti per le foto, ma abbiamo anche altro da raccontare.

Il tuo stile di scrittura è caratterizzato dall’alternanza dei toni, dal serio e dotto, in cui citi con cognizione Donisotti e Rimbaud, per poi passare a raccontare storie con uno stile molto ironico e divertente. Mi chiedo se ti eri ispirato a qualche altro scrittore.

In realtà questo è il tributo vero che io pago alla livornesità e questo fa di me uno scrittore livornese. Mi risulta abbastanza naturale mischiare il tono alto e il tono basso, anche perché noi livornesi non riusciamo a prendere le cose sul serio fino in fondo. Di questa attitudine puoi farne una forza o una debolezza; spesso qui a Livorno se ne fa una debolezza, perché se non prendi niente sul serio, allora sei destinato a perdere tutte le occasioni, del tipo “avrei potuto fare qualsiasi cosa ma non l’hai fatto perché, in fondo, non ne valeva la pena” un po’ come il petroliniano “A me m’ha rovinato la guerra”. Però puoi farne anche una forza perché accanto all’impegno c’è comunque una parte di te che ti guarda dal lato e ti prende un po’ per il culo: questo è salutare e diventa un specie di antidoto alla menzogna. Chi si prende troppo sul serio è destinato un po’ a mentire per mantenere una linea. La mia linea è invece naturalmente ondivaga.

Un’ultima domanda, tu sei anche autore delle canzoni dei Virginiana Miller. Mi interessava sapere se ci sono dei punti di contatto tra la scrittura delle canzoni e quella dei libri. E poi se in questo libro, ad esempio, vi è il germe per nuove canzoni che usciranno.

Per me scrivere in prosa è una declinazione diversa della stessa attitudine con la quale scrivo versi per le canzoni. Per quanto mi riguarda anche la prosa deve avere una sua musicalità e un suo ritmo, e questo è anche il discrimine per le cose che leggo. La frase deve girare in un certo modo, altrimenti a pagina tre butto via il libro. Questa è la mia attitudine musicale della scrittura. Invece da un punto di vista dei contenuti, io tendo sempre a non tematizzare la musica quando scrivo, proprio perché faccio musica. Cioè, se voglio scrivere una canzone, la scrivo. Mi fanno invece un po’ tenerezza quegli scrittori che vogliono surrogare l’emotività musicale nella letteratura, citando continuamente ciò che stavano ascoltando. Per quanto riguarda invece i temi canzoni/libri a volte l’intersezione può capitare: nel caso de “La Generazione”, chi ascolta la canzone “La carezza del Papa” sicuramente troverà delle affinità. Nel prossimo disco dei Virginiana Miller che uscirà a settembre c’è un pezzo intitolato “Nel recinto dei cani” che ha lo stesso titolo del capitolo del libro, e quindi anche in quel caso i temi saranno familiari.

Gus, il bellissimo cane di Simone Lenzi, è impaziente e vuole andare a correre alla Terrazza Mascagni, la straordinaria opera di architettura anni Trenta sul lungomai formato da 35.000 piastrelle bianche e nere, teatro non solo di spot di mille spot e book di moda, ma anche una sorta di paradiso metafisico dove ogni livornese cerca di realizzare il progetto umano che ha sognato per sé, reinventandosi.

Così andiamo anche noi.

 

Immagine: panoramica della Terrazza Mascagni, Livorno / Flickr