Cultura | Dal numero

Sei brevi lezioni di metafisica condominiale

Il condominio come sistema politico: retroscena dal ventre molle del Paese che litiga per terrazzi e perizie, dove le assemblee diventano commedia dell’arte.

di Michele Masneri

Più che il trionfo del Donald, più del partito degli anziani del No, i limiti della democrazia emergono impietosi dalla prima riunione di condominio. I migliori argomenti contro la democrazia sono rappresentati da una conversazione con l’elettore medio (sosteneva Churchill). Che non era mai stato a un’assemblea di condominio. Nell’assemblea di condominio, rito a cui tutti sfuggono, si pensava, con eccessivo timore, emergono infatti i lati più primitivi del sistema democratico. Soprattutto se ci si va, come nel nostro caso, con entusiasmo nativo e sprezzo del pericolo.

Siamo pochi condomini, otto, si è appena cambiato quartiere, si ha lo spirito dei gentrificatori buoni dei romanzi di Franzen. E come tali veniamo trattati. Il Condominio Profondo naturalmente ci riconosce come pericoloso corpo estraneo: non tollera questa nostra idea malsana di voler cambiare qualcosa, questo entusiasmo politico per la partecipazione. Si propone (folli) di poter acquistare il terrazzo dal condominio; terrazzo abbandonato, di antenne brulicanti, di fili che non portano a nulla (il nostro appartamento poggia su un terrazzo, il terrazzo è comune, non ci passa nessuno, sarebbe carino metterci una sdraio e un ombrellone, il Bresciano Democratico in noi pensa subito a come acquisirlo legalmente). La proposta suscita immediatamente fastidio e scalpore: il Condominio Profondo si è visto toccato nel suo ventre molle, l’unanimismo. Per la cessione a singolo condomino di parti comuni, infatti (si era studiato), occorre l’unanimità dei voti, i 1000 (mille) millesimi, un fenomeno che si verifica più raramente del doppio arcobaleno. E una procedura più complessa di quella di revisione costituzionale. Andranno stanati uno a uno i proprietari, anche quello dell’Aquila che non viene mai, anche la signora del bar che si lamenta sempre delle perdite di acqua.

Di fronte alla proposta di acquisto e allo scenario dei mille millesimi, democrazia in purezza, scatta il panico. Dopo che spiego carinamente con termini semplificati e un disegno e delle fotografie del lastrico solare sul mio iPad, a quei bravi signori (che tra l’altro posseggono molti più millesimi di me), la signora Leda, di Benevento, che pare convinta, dice: «Però ci possiamo sempre passare, giusto?». La signora Leda sarebbe decisa a cedere la sua proprietà di terrazzo mai utilizzato («ma che, sta al quarto piano? Ah, no, non ci sono mai salita»). No, signora, se lo compro io lei non ci può più passare. «Ah, certo», dice, turbata, ironica, «così io adesso non posso più passare sul mio terrazzo». «Signora, ma lei non c’è mai salita». «E che c’entra?». Tutti improvvisamente vogliono salire sul terrazzo, sono esperti di terrazzo, sono costituzionalisti a difendere il terrazzo più bello del mondo.

La seconda lezione che si apprende è l’importanza fondamentale della rappresentanza. L’amministratore di condominio, figura che si vorrebbe sempre elidere dall’agone democratico, peggio del Cnel, è in realtà strategico. Il condominio, che fa rima con abominio, è organo delicatissimo, conviene non svegliarlo, come un boa o pitone che sonnecchia cibatosi regolarmente delle sue prede. L’amministratore è il guardiano degli animal spirits. Tutto ciò ha un costo. Le spese condominiali: siamo in otto, nel condominio, spendo trenta euro al mese solo io coi miei pochi millesimi, per cosa? Le lampadine non le cambiano; l’acqua, si paga a parte; le pulizie rare e scadenti. Dunque? Dunque l’amministratore di condominio, questa figura mitologica, serve soprattutto a gestire i pagamenti… dell’amministratore di condominio. Puro esercizio keynesiano? Scavare buche per poi ricoprirle? Anche qua, siamo certamente nell’ambito del meno peggio. «Ma siete pazzi? Dovevate vedere gli altri», dice la signora Luisa, ex funzionaria del ministero dei Beni Culturali, Pd con tentazioni grilline, piano rialzato. «Questo almeno non ruba, l’altro è scappato con i soldi di tre esercizi annuali, abbiamo ancora la denuncia in ballo». Ma soprattutto, l’amministratore deve tenere a bada gli spiriti animali del condominio, evitare una pericolosa deriva verso la democrazia diretta che si manifesta ogni volta che va presa qualche decisione sostanziale. Il buon amministratore di condominio è quello che non si vede, non si nota, scompare, lasciando spazio a delibere cristalline, al balance of power dei millesimi. Contro di lui spesso si aprono campagne di diffamazioni e macchine del fango («ma che non lo sapete? Lui gode nell’organizzare assemblee straordinarie, prende i soldi. Lui prende la fissa, il cinque per cento su ogni opera muraria»). L’amministratore di condominio è il Bertolaso del vano scala.

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La terza lezione è l’entropia di lungo corso. Alla prima riunione di condominio il condomino di primo pelo scopre che le osservazioni che lui con giovanile entusiasmo porta in quella assise democratica sono state già portate da condòmini antichi, forse morti, di certo rinunciatari. «Ah, il terrazzo», dice sempre la signora Luisa. «Ci aveva provato Proietti nel 1989». «Scusi se la correggo, signora Damioli. Era il 1991», dice il dottor Angeloni, secondo piano, dell’Agenzia delle Entrate. «Si confonde, dottore, quella era la proposta per l’ascensore». Alla parola “ascensore” il giovane condòmino sbianca, era il suo asso nella manica, aveva pensato (abitando al quarto piano, arrivando in vetta con angina pectoris), di proporlo in una successiva assemblea, oppure, in un impeto di turborenzismo, di lanciare la proposta choc: mettere l’ascensore a sue spese in cambio dell’acquisto del terrazzo antennato. Tipo abolizione del Senato con Italicum. Rimette velocemente i sogni nel cassetto, come si dice.

«L’ascensore era stato portato alla nostra attenzione anche molto recentemente», dice Damioli (con «molto recentemente» intende il 2001). Non dicono cosa ne è delle due pratiche, terrazzo e ascensore, non c’è bisogno, entrambe si sono perse nelle votazioni, i loro firmatari passati a miglior vita, o hanno solo cambiato città, tranne uno «eh, l’ascensore», sospira Pamela, secondo piano, divorziata, settantenne, mora, passa i pomeriggi a fumare guardando Uomini e donne. «Ci credevo tanto anch’io, le prime volte». Ma perché no, si dice, disperati. Perché non ascensore e terrazzo. Ti guardano come un pazzo. «Avevano fatto la perizia; non ci sta nel vano scala». Ma erano gli anni Novanta. Ora ci passa benissimo. Di qua si passa immediatamente alla quarta lezione. Le grandi opere. «E poi chi lo fa il preventivo? Chi ci mangia sopra?», dice Angeloni. È ovvio che se qualcuno spinge per qualche cambiamento strutturale avrà il suo tornaconto. Ciò si appalesa brutalmente dopo i due terremoti recenti. Che causano terrore e sentimenti irrazionali. All’assemblea post-terremoto, la stessa Pamela ha un brusco ripensamento, tipo Cuperlo alla Leopolda. «Ma che siamo matti? Qua, se muoio in casa non passa neanche la bara per la scala, ma che devono mettermi per in piedi nell’ascensore?», chiede, e la questione si chiude lì.

L’assemblea di condominio è una bolla di Paese reale dove i titoli di studio contano ancora, è il Comitato di Michele Guardì

La quinta lezione. L’importanza dei titoli, e l’importanza dei social network nella democrazia condominiale. Assemblea post terremoto. Si fa sul terrazzo, appunto. Il terrazzo forse è lesionato. Forse l’intero palazzo è lesionato. Si nomina (tramite assemblea) un perito, che redige una perizia. La perizia viene mostrata sul terrazzo un pomeriggio di novembre. (Col terremoto trema tutto, non si hanno lampadari né quadri, la scossa non è così forte da far cadere i libri, una disperata solitudine, meglio morire all’attico da soli o sotto le macerie, per la strada, prendendo in testa pure gli altri palazzi? Poi non succede niente, e però nell’assemblea successiva, è lì che scoppia la psicosi e l’isteria). «Lasciamo parlare l’ingegnere», dice la divorziata del secondo piano (l’assemblea di condominio è una bolla di Paese reale dove i titoli di studio contano ancora, è il Comitato di Michele Guardì, è Libera nos a Malo). «Chiedo scusa Ingegnere», dice la signora del bar, dall’aria sempre afflitta poiché il suddetto bar/tabaccheria le è stato lasciato in eredità dalla mamma ma i fumatori diminuiscono, e le marche da bollo sono crollate, lamenta sempre delle forti perdite di acqua, bollette (le perdite di acqua sono fiumi carsici metaforici, che scorrono nelle pareti e nel sottosuolo, chi non ha mai avuto perdite di acqua). «Ah, ecco il nostro scrittore!», dice un signore che non si vede mai, sono i millesimi mancanti, sono gli swing State, quelli che votano solo alle assemblee fondamentali. Sanno tutto su di te. Il notaio del secondo piano, in pensione, gestisce uno dei giornali di quartiere – nel nostro quartiere che vorrebbe disperatamente gentrificarsi un sacco di giornali di quartiere – ha anche un tuo libro, te lo dice.

L’Ingegnere in tono ingegneresco dichiara: «Signori, se noi qui dovessimo essere fiscali il palazzo dovrebbe essere immediatamente evacuato», sulla parola evacuato si gela a tutti il sangue, la signora Leda mette la mano sulla faccia della bambina Giovanna, come per proteggerla da quel vocabolario. Scatta il complottismo: l’Ingegnere ha pronto un piano di rinforzi nei muri devastanti, valutato trecentocinquantamila euro. Nel frattempo suonano al citofono: è il dottore (dottore, con la e finale) Del Vescovo, si annuncia così, «sono il dottore», e non medico, ma dottore nel senso di laurea; con un forte accento napoletano. Un altro misterioso swing condomino. Sembra uscito da Better Call Saul, lui dice: «Siete il proprietario, qui?», e subito con questo impercettibile passaggio al voi, dal lei europeo-lombardo, inizia la trasformazione dell’assemblea in commedia dell’arte. Si è fatto accompagnare dall’avvocato («non per dire, ma tiene due attributi così»); e «mi posso sedere? Tenete una sedia», e come al solito in trenta secondi il lombardo ci casca, quando «mi sono sentito poco bene, ero poche ore fa a Ischia», ed è tornato apposta, il napoletano subito diventa padrone dell’assemblea. Il napoletano subito mi convince che c’è una combutta tra l’amministratore e una fantomatica impresa («l’agguato, ci hanno fatto l’agguato, non sapete quanti ne ho visti a Napoli, modestamente, nei palazzi di famiglia»), dice, noto che ha la chevallière al dito. Lo adoro già. «Sapete, ci sta la crisi, e le imprese devono pure lavorare», seduto sulla mia seggiolina.

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Il napoletano anche avanza un sospetto: «Dobbiamo pagare noi per quello lì», e indica con lo sguardo il proprietario del primo  piano, che ha messo su la casa-vacanze affiliata ad Airbnb, e nonostante sia tutto in regola è visto con fastidio da tutti noi, non sapremmo dire bene perché, forse perché ha aperto un arco in un muro portante, pur con tutti i permessi e le perizie, e noi vorremmo tutti dare la colpa a qualcuno dei danni del terremoto, vorremmo poter dire che è colpa sua se il palazzo si è incrinato e attribuirgli i danni. Chi meglio di lui, infatti? Lui sta facendo i soldi, lui ha messo su la casa vacanze. Lui ci è riuscito, ha svoltato. Che fastidio: i turisti, sempre beneducati, per carità, talvolta lasciano le scarpe fuori dalla porta. Lui ha abbattuto un tramezzo, forse un archetto (segno architettonico che da sempre alligna nella Capitale), con tutti i permessi e i timbri. Mentre noi non siamo stati in grado neanche di allargare una finestrella del bagno.

E siamo alla sesta lezione: un Paese basato sull’invidia sociale. La finestrella misura 50×30 centimetri, nella pianta catastale è presente (ma «il catasto non fa testo», è il tormentone che si impara fin da piccoli soprattutto in certe famiglie lombarde: la famiglia di mia madre ha mantenuto generazioni di avvocati per spartirsi beni che sono stati usucapiti, le mie zie parlano per particelle catastali – «il cinquantadue è in comunione dei beni con i cugini di Busto Arsizio, lo sanno tutti»; «il ventotto è passato nel rogito»; dunque dev’essere il mio karma che mi accompagna a scegliere di abitare addirittura su un terrazzo comune). Per allargare la finestrella bisognava segnalarlo alla Soprintendenza, è zona 1 del Centro storico, non era possibile. Ripensiamo a quell’archetto. Maledetto. Le opzioni comunque ora sono due: dare subito l’avvio ai lavori per trencentocinquantamila euro, fare un’altra perizia con un altro ingegnere, bloccare tutto e non fare niente. La signora Leda è per l’opzione massimalista, rinforziamo tutto, non corriamo rischi. Il dottore Del Vescovo non vuole scucire una lira («e non per taccagneria: qui ci abita mio figlio, il mio unico figlio. Vi pare che se ci fosse qualche rischio non metterei mano al portafogli?»). Ma la strada giusta, ormai il condomino ha imparato, è diventato #casta, è una: promettere tutto, perché non si cambi niente. Nominiamo un altro perito, e soprattutto facciamo un’altra assemblea. Possibilmente costituente. Facciamone tantissime, di assemblee.

Sperando che, nel frattempo, il palazzo non cada.

Dal numero 29 di Studio, in edicola
Illustrazioni di Sam Brewster