Attualità

Come scegliamo cosa leggere

Perché è il libro di cui si parla, per entrare nella discussione, per darsi un tono: tutti i modi in cui i lavoratori culturali hanno perso la libertà di scegliere.

di Francesco Guglieri

Le uniche persone verso cui riesco a provare invidia sono gli ossessivi. In particolare quelli che riescono a tenere una lista dei libri letti, ma anche dei ristoranti, dei film, delle serie, dei chilometri percorsi, dei posti visti. Ho un amico che ha annotato tutti i film visti al cinema, le persone con cui era, un breve giudizio sul film e anche sulle persone. Non ci sono mai riuscito. Ho iniziato mille volte e mille volte mi sono interrotto verso la settima voce. Le app a cui negli anni mi sono rivolto non hanno risolto il problema, dal momento che il problema sono io, che dovrei compilarle, non il modo in cui la lista viene creata. Capirete dunque l’ammirazione per Pamela Paul, l’editor della New York Times Book Review e responsabile dell’area libri di tutto il New York Times, che ha scritto My Life with Bob, curioso memoir sulla sua relazione con i libri che parte dalla lista, che l’autrice è riuscita a tenere (beata lei!), di tutti i libri letti fin da quando era adolescente. Il fascino della biblioteca, così come quello delle liste, è nell’idea di “pieno”, di completezza, insomma di presenza che restituiscono al compilatore: il piacere che viene dal possedere un’immagine di sé, dei propri gusti, della propria identità, osservando ciò che si è letto e raccolto. Un Io-fuori-di-sé, oggettivato, un feticcio suvvia, che mi ricordi che sono qualcosa invece che nulla, una «solida realtà», come direbbe Roberto Carlino, invece dell’incresparsi di un’onda nel tempo. Passatemi ancora una metafora immobiliare: sarà forse per la loro forma così simile ai mattoni che ci piace pensare che, mettendo in fila i libri, uno dopo l’altro su uno scaffale, si possa erigere un edificio (non si parla appunto di letture edificanti?), quando non un monumento.

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Ovviamente tutto questo è un’illusione, una fantasia consolatoria, uno slogan pubblicitario: le liste e le biblioteche non valgono per ciò che raccolgono ma per ciò che scartano, non per ciò che vi è depositato ma per ciò che vi manca. Le biblioteche, soprattutto quelle personali, sono cartografie d’assenze, le liste sono cataloghi di mancanze. Se monumenti devono essere, al massimo sono monumenti funebri, cioè segnaposto di una perdita. Ci pensavo di nuovo leggendo Scegliendo e scartando, il volume (a cura di Michele Sisto, Aragno 2013) che raccoglie i pareri di lettura per l’Einaudi scritti da Cesare Cases, uno dei maggiori germanisti italiani, consulente per la letteratura tedesca per la casa editrice tra il ‘53 e il ‘73. Per passione e professione sono un avido frequentatore di quel sottogenere (metagenere?) che sono le raccolte dei pareri di lettura editoriali – negli ultimi anni, oltre a questo, ne sono usciti almeno un paio di formidabili come quello di Manganelli, Estrosità rigorose di un consulente editoriale (Adelphi ), e i Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi 1941-1991 (Einaudi) – e quelli di Cases sono tra i più gustosi: ironico, tagliente al limite del sarcasmo, severissimo lettore al servizio di Einaudi e di una certa idea di letteratura. Sono soprattutto bocciature, quelle di Cases, proposte rispedite al mittente con maggiore o minore violenza, che lette tutte di seguito disegnano un paradosso solo apparente: “fare i libri” significa prima di tutto non fare libri. Che un libro venga tradotto è l’eccezione, non la regola. Del resto, scriveva Cases, «l’uomo si definisce solo scegliendo e scartando. Il rischio di sbagliare c’è sempre, ma è meno grave di quello di perdersi nella melma dell’accettazione universale».

«Omnis determinatio est negatio», diceva Spinoza: tutto ciò che esiste è la negazione di qualcosa d’altro, figuriamoci in tempo di overflow informativo e di epidemia longform in cui la scelta è un obbligo di sopravvivenza. Quello che chiameremo lettore professionale – espressione un po’ eccentrica, vagamente ridicola, come il «mondano professionista» quale Barthes definiva Proust – è colui per il quale il tempo della lettura si è espanso quasi a coincidere con il tempo della vita tutto. Lettori editoriali, editor, redattori di giornali e riviste che devono scegliere, per dire, quale libro recensire e quale no, la domanda che si sentono rivolgere più spesso è: “Ma tempo per leggere per te, ne rimane?”. La risposta è ovviamente sì, ma quello che dovremmo chiederci è: cos’è davvero facoltativo?

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Letture facoltative è una splendida raccolta dei testi che Szymborska scrisse per una rubrica in cui recensiva i libri che nessuno voleva recensire: divulgazione scientifica, manuali del fai da te, almanacchi, oroscopi. In realtà più che recensioni erano deliziose “variazioni sul tema”, ma era anche il suo modo per sabotare la divisione tra i libri “nobili” (narrativa, saggistica storica, filosofia) e letture “di servizio”, che come la servitù è meglio tenere lontana dal salotto buono. Sarà perché ormai trovo pace solo tra i libri di cucina e le riviste di arredamento, eppure ho sempre avuto un debole per l’idea della Szymborska. Anzi, mi sembra ogni giorno più necessaria. Il fatto è che più la letteratura vede il suo riconoscimento sociale messo in discussione, più il mercato editoriale si ridimensiona e si “abbassa” a livello di status, più la lettura si presenta come un dovere, un obbligo sociale. Anzi social: chiunque abbia accesso alle classifiche di vendita sa che non c’è nessuna relazione matematica tra le vendite di un libro e la sua circolazione su Instagram. E se c’è, è al contrario: più un libro vende meno si fotografa, e viceversa. Ma questo, insomma, è cosa nota, e in fondo aspettiamo solo un Bourdieu che scriva il suo Le regole dell’arte al tempo di Zuckerberg.

No, quello che intendo qui non è una cosa che riguarda specificatamente i social. Il fatto è che da sempre la lettura, e in particolare la letteratura, si è presentata con un carico di preconcetti, a priori sociali, di dover essere, aspettative. Così ogni lettura diventa in qualche modo obbligatoria: perché è il libro “di cui si parla”, perché se non lo leggi “sei fuori dalla discussione”, perché è il libro “che incide sul reale”, perché ha vinto un premio, perché devi averlo letto e al massimo lo rileggi. Perché “dobbiamo darci un tono”. Perché quello stile e solo quello ha l’etichetta “letteratura” attaccata addosso e ci fa sentire membri alla tribù. Dimenticandosi quello che diceva proprio Szymborska, e cioè che con un libro in mano «l’Homo ludens è libero. Almeno nella misura in cui gli è concesso di esserlo. È lui a stabilire le regole del gioco, obbedendo soltanto alla propria curiosità. Gli è dato di leggere sia libri intelligenti, dai quali apprendere qualche cosa, sia libri sciocchi, perché anche da quelli è possibile ricavare informazioni. È libero di non leggere un libro sino alla fine e di cominciarne un altro dall’ultima pagina risalendo verso l’inizio. È libero di farsi una risatina là dove non è previsto, o di soffermarsi infine su parole che poi ricorderà per tutta la vita. È libero infine – e nessun altro passatempo lo consente – di prestare ascolto alle argomentazioni di Montaigne o di fare un tuffo nel Mesozoico».

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