Attualità
Renzi vs Bersani
Per prepararsi al dibattito di stasera, l'analisi di una sfida non solo generazionale, in cui c'è in ballo il futuro del Partito Democratico.
Questa volta bisogna dire che le storie conteranno fino a un certo punto, e si deve riconoscere che quando gli elettori del centrosinistra si ritroveranno a mettere una “ics” su uno di quei due nomi lì, poco importerà se uno ha fatto il ministro e l’altro il sindaco, se uno è laico e l’altro cattolico, se uno è di Piacenza e l’altro di Firenze, se uno è post-comunista e l’altro post-cattodemocratico o se uno è più grandicello e l’altro magari più giovincello.
Cioè, certo, intendiamoci: nella sfida tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi, e nel duello che il sindaco di Firenze e il segretario del Pd metteranno in scena in vista delle prossime primarie, conterà naturalmente anche tutto questo, e come sempre accade quando si parla di battaglie per la leadership le biografie dei due candidati non potranno non avere un loro peso specifico nell’andare a sedurre gli elettori del centrosinistra – e magari non solo quelli.
Tutto questo è vero, naturalmente, ma questa volta l’impressione è che ci sia qualcosa di diverso nel confronto tra i due principali volti candidati a guidare il centrosinistra alle prossime elezioni. E a guardar bene, e a studiare con un po’ di attenzione il senso della battaglia tra Renzi e Bersani, più che le singole storie dei due duellanti una volta tanto è la Storia che bisogna andare a ripassare per capire cosa c’è in ballo nella super sfida tra il sindaco di Firenze e il segretario del Pd. La Storia, già. E la Storia, su Renzi e Bersani, ci dice tre cose in particolare: una riguarda il rapporto tra i padri e i figli della sinistra; una riguarda la battaglia tra due anime della sinistra e un’altra ancora riguarda invece una data storica per il mondo della sinistra: il 1976.
Riavvolgiamo il nastro, ora, e andiamo a spiegarci con calma.
I padri e figli, dunque. E sì: perché in fondo di questo si tratta, e perché poi di questo si andrà a parlare nel sottotesto delle primarie del Pd. In che senso? Nel senso che in novant’anni di storia comunista e post-comunista è la prima volta che in un partito di (centro)sinistra c’è un figlio che prova a uccidere politicamente il padre. Fino a oggi, tranne piccole ma non decisive eccezioni, le battaglie che si sono combattute per aggiudicarsi la leadership del centrosinistra sono sempre state all’insegna del «non si può succedere al generale De Gaulle», come da famosa battuta di Georges Pompidou; e i figli della sinistra, prima di provare a conquistare la guida del partito, hanno sempre gentilmente aspettato il loro turno e si sono sempre messi in fila cercando di farsi trovare pronti quando puntualmente sarebbe arrivato il loro momento.
In novant’anni di storia di comunismo e post-comunismo, infatti, non si ricorda un solo significativo episodio in cui nel partito un figlio della generazione al comando abbia avuto anche solo l’idea di sfidare i propri padri giusto per provare a vedere l’effetto che faceva. E se a questo poi si aggiunge che in novant’anni di storia di comunismo e post-comunismo nell’unica occasione in cui due leader hanno combattuto davvero per contendersi la leadership i protagonisti sono stati due grandi esponenti della sinistra appartenenti alla stessa generazione politica (D’Alema e Veltroni per guidare il Pds nel 1994) si capisce facilmente perché la sfida tra Renzi e Bersani ha davvero un sapore che va anche al di là delle singole biografie dei due candidati.
Un anno cruciale: il 1975
In un certo senso, poi, a rendere ancora più storica la sfida tra Renzi e Bersani vi è un altro elemento legato proprio alla natura della generazione che il sindaco di Firenze andrà a sfidare ai gazebo delle primarie democratiche. Una generazione, questa, che non si può capire e non si può definire senza andare a ricordare una data particolare per la sinistra italiana: il 1975. Il 1975, come forse si sa, è l’anno in cui è nato il sindaco di Firenze, Renzi, ed è anche un anno particolare perché la Generazione ‘75 è stata la prima che in Italia è andata a votare senza essersi mai ritrovata alle urne il simbolo di nessuno degli storici partiti che hanno fatto parte della Prima Repubblica (né Falce e Martello né Scudo crociato, insomma). Dall’altra parte però il 1975 è anche l’anno in cui nel nostro paese sono via via maturate le condizioni che hanno creato le basi per costituire il primo grande compromesso storico italiano. Il compromesso del 1976, naturalmente: quel compromesso che, in nome dell’emergenza nazionale, ha tentato di portare al governo democristiani e comunisti insieme e quel compromesso che in un certo modo è diventato, a volte inconsciamente e altre volte invece in piena coscienza, parte fondante del Dna politico di un’intera generazione di dirigenti di sinistra.
Una generazione cresciuta all’ombra del grande compromesso berlingueriano e che – come ben raccontato alcuni anni fa in un libro di Andrea Romano (Compagni di scuola, Einaudi) e come ricordato oggi in un altro bel saggio dal politologo Antonio Funiciello (A vita. Come e perché nel Partito Democratico i figli non riescono a uccidere i padri, Donzelli) – ha formato l’attuale classe dirigente del Pd: da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema, da Walter Veltroni a Dario Franceschini, da Anna Finocchiaro a Rosy Bindi e così via.
Due anime
Il terzo elemento – anch’esso storico – che non si può non considerare nell’andare a osservare con attenzione il senso della battaglia tra Renzi e Bersani riguarda invece un aspetto strettamente culturale che vive all’interno dello scontro tra i due duellanti del Pd, ed è un aspetto che spiega bene quali sono state nel recente passato le conseguenze del mancato duello generazionale tra padri e figli del Pd. Nel centrosinistra, si sa, esiste da sempre una sorta di guerra tra “due sinistre”, una di stampo più moderna e se vogliamo anglo-americana e una invece di stampo più conservatrice e più legata alla tradizione socialdemocratica europea. Nel Pd di oggi, quello a trazione bersaniana, la politica del partito è esplicitamente legata allo stesso ceppo della sinistra europea da cui si sono abbeverati per anni, anni e anni tutti gli altri contenitori politici che hanno preceduto il Pd (Pci-Ds-Pds), e anche per questo non può stupire se una delle critiche forse più sensate che vengono rivolte oggi alla generazione del compromesso storico è quella di non aver avuto nel passato la forza di imprimere al partito una vera e sostanziale rupture ideologica culturale con il passato. Piccoli passi avanti ci sono stati, naturalmente. Piccoli rinnovamenti pure, naturalmente.Piccole rivoluzioni anche, ovviamente; ma mai un vero strappo, e mai un vero tentativo di scardinare la vecchia tradizione e creare una Cosa davvero nuova.
Per questo, se vogliamo, sempre semplificando, lo scontro tra le generazione del compromesso e la generazione Renzi è anche su questo terreno che ci si misura e se c’è oggi un grande argomento sul quale una buona parte della sinistra chiede alla vecchia parte della sinistra di fare un passo in avanti e dar vita a una vera rivoluzione culturale quell’argomento è senza dubbio la politica economica, non a caso cuore del confronto tra il segretario del Pd e il suo giovane sfidante. Sempre in nome del compromesso storico, dunque, una buona parte della generazione di Bersani considera quasi naturale da un lato orientare le politiche economiche del proprio partito verso il suo versante più sinistro e dall’altro lasciare campo libero alle forze centriste per dare loro modo di raccogliere attraverso una politica economica meno sinistra il consenso dell’elettorato moderato. Oggi, anche dal punto di vista lessicale, la strategia del compromesso, anche in campo economico, è resa evidente dal rapporto che il Pd ha con un’espressione chiave di questa fase storica della nostra politica: l’agenda Monti, sublimazione massima, questa, delle suddette “politiche centriste”. E così, seguendo questo ragionamento, il giochino non può che essere chiaro: noi siamo il Pd, siamo una forza di sinistra e non possiamo non dire che l’agenda Monti non è la nostra agenda; loro invece sono l’Udc, sono il terzo polo, sono una forza di centro e non possono non dire che l’agenda Monti è la loro agenda; insieme però, noi che diciamo “nì” all’agenda Monti, e loro che dicono “sì” a quell’agenda, possiamo dar vita a un grande compromesso, metterci insieme e governare finalmente il paese.
Tutto facile e tutto liscio come l’olio. Se non fosse che gli avversari della generazione del compromesso hanno un’idea diversa rispetto a quello che sta accadendo a sinistra in materia di politica economica. «L’esperienza del governo Monti – hanno scritto recentemente Sandro Brusco e Michele Boldrin sul sito “Fermare il declino” in una lettera indirizzata al “Caro compagno che resti nel Pd” – purtroppo sembra essere un déjà vu degli anni ‘90. La sinistra italiana, nel momento in cui è costretta a dover ammettere che l’attuale sistema economico è semplicemente non sostenibile, reagisce restando riluttante e sempre sulla difensiva, e anzichè cogliere l’occasione per fare proposte audaci e pensare profonde riforme nel welfare, nel mercato del lavoro, nella liberalizzazione dei mercati e tante altre cose di cui il paese ha disperatamente bisogno, sceglie la strada della difesa dell’esistente, concedendo di malavoglia e con estrema titubanza soltanto il minimo necessario ad evitare il collasso del paese».
Il Pd e il mondo moderno
Una volta comprese le grandi premesse storiche da tenere a mente per capire il senso della sfida tra Renzi e Bersani non potrà che essere naturale collegare a questi tre concetti cardine tutte le altre micro e macro differenze che esistono all’interno dello scontro tra le due sinistre del Pd. Differenze come la diversa concezione della forma partito che hanno Renzi e Bersani, con il primo che sogna un Pd più liquido e il secondo che insiste sulla necessità di stare bene con i piedi per terra e non perdere per strada la tradizione dei vecchi e solidi e massicci partiti socialdemocratici. Differenze come la diversa concezione della leadership, con Renzi che considera fondamentale per un partito avere dalla sua una leadership carismatica capace di indirizzare in modo deciso la rotta della “ditta” e con Bersani che considera la “ditta” più importante della leadership e non vede di buon occhio i talebani della personalizzazione della politica.
Differenze come la diversa concezione che sia Renzi sia Bersani hanno in merito alla comunicazione di cui deve farsi interprete un partito, con il sindaco di Firenze che vede nel buon e smaliziato utilizzo dei mezzi di comunicazione uno strumento fondamentale per affermare una leadership e far passare un messaggio e con il segretario del Pd che crede che la comunicazione sta alla politica come la finanza sta all’economia, «utili entrambe, buone, indispensabili: ma non possono prendere il comando, non possono dettare il compito!». E infine, per concludere, differenze come i due tipi diversi di Stato che hanno in mente i due principali candidati premier del centrosinistra: con Bersani che considera quasi sovversivi tutti quegli opinionisti, politici e osservatori che credono sia giusto ridimensionare il ruolo dello stato nel nostro paese e prestare in qualche modo più attenzione all’individuo e con Renzi che invece sogna uno stato imprenditore che sappia trasformare le sue scelte in provvedimenti sociali finalizzati ad avvantaggiare l’individuo, e non a fagocitarlo.
Differenze, queste, che costituiscono una parte importante della dialettica interna tra le due piattaforme delle due sinistre ma che non si possono capire fino in fondo senza partire da quello che forse, anche al di là di ogni possibile compromesso storico, costituisce il vero problema storico con cui oggi, in un modo o in un altro, dovranno confrontarsi tanto il sindaco di Firenze quanto il segretario del Pd.
La frase è stata scritta da Tony Blair nel suo libro di memorie, A Journey, e si riferisce alle difficoltà incontrate dall’ex leader dei New Labour quando arrivò al governo. Blair parla del 1997 e parla dell’Inghilterra, ma la frase sembra scritta apposta per capire qualcosa di più sul senso della grande lotta tra i Pd di Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani. «Non eravamo in contatto con il modo moderno. Attiravamo solamente due categorie di persone: coloro che erano tradizionalmente laburisti e coloro che arrivavano al socialismo o alla democrazia sociale seguendo un percorso intellettuali. Molti attivisti delle associazioni sindacali rientravano nella prima categoria; io facevo parte della seconda. Nessuno dei due approcci poteva essere considerato la tendenza più diffusa e anche insieme non arrivavano a raccogliere i consensi necessari per vincere e salire al governo».
E chissà che il vero senso della battaglia tra Renzi e Bersani non sia davvero nascosto in queste righe qui.
(Immagini: le foto sono state scattate da Guido Gazzilli all’Assemblea nazionale del Pd. Roma, 14 luglio 2012)