Attualità

Freud goes to Hollywood

Da Woody Allen a Nanni Moretti, storia del mestiere di psicologo sullo schermo, che ha perso il suo fascino: gli analisti dei film sono diventati scemi.

di Mattia Carzaniga

Poi, un giorno, gli psicologi e gli psicanalisti e gli psichiatri dello schermo grande e piccolo sono diventati tutti scemi. L’ultima è Jean Holloway, interpretata da Naomi Watts in Gypsy. Nella serie, appena caricata su Netflix e poco strombazzata (si saranno accorti che la protagonista è, appunto, scema?), c’è questa dottoressa newyorkese che si mette a stalkerare le fidanzate cattive dei suoi pazienti, e altri parenti di altri pazienti. Essendo poi genericamente insoddisfatta dal ménage coniugale, diventa mezza lesbica (sempre con le fidanzate dei pazienti), confonde la vita privata con la professione, e il risultato è quello che potete immaginare. Io davvero l’ho solo immaginato: dopo due puntate ho smesso. «È un Mulholland Drive for dummies», scrive The Hollywood Reporter, ma la definizione sembra fin troppo generosa. La vera domanda è: possiamo fidarci di una psicologa scema? Forse oggi sì, perché certo il mestiere ha perso da un bel pezzo il suo fascino, almeno cinematograficamente. Quand’è che è cominciato tutto? Andando a memoria, direi con Prime (2006), commedia apparentemente innocua con Meryl Streep e Uma Thurman. La prima, psicologa, scopre che la seconda, paziente, esce con il suo figlio ventenne. Da lì inizia a pedinarla, con seguito di gag alla Neri Parenti. Infatti il filmetto era pure divertente, ma minava per sempre la credibilità del fino ad allora Stimato Professionista.

Non era questione di genere cinematografico, ad altri contesti eravamo già abituati. I Soprano piazzò un boss della mafia sul lettino dello strizzacervelli, e da allora la storia della tv cambiò per sempre. Era il 1999. «Io e i miei colleghi siamo ossessionati da questa serie», dichiarò due anni più tardi al New York Times lo psicanalista Glen O. Gabbard, che al telefilm dedicò il saggio The Psychology of the Sopranos: Love, Death, Desire and Betrayal in America’s Favorite Gangster Family. «Siamo grati di vedere finalmente in televisione una rappresentazione della psicologia molto fedele alla realtà», disse Gabbard. Alla verosimiglianza si aggiungeva una notevole conquista nella parità, detto in anni in cui il sessismo non era ancora la moda giornalistica del momento. «Le psicologhe sono sempre state ritratte come incapaci di resistere al fascino del paziente maschio, dalla Ingrid Bergman di Io ti salverò di Hitchcock alla Barbra Streisand del suo Il principe delle maree. La Jennifer Melfi dei Soprano (interpretata da Lorraine Bracco, ndr) mette sempre davanti la sua etica professionale, come tutte le dottoresse che conosco io».

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Il cinema tentò di sfruttare il filone con Terapia e pallottole, uscito lo stesso anno: ancora ci si chiede se ci fu spionaggio industriale tra Hbo e Warner Bros., che distribuì la commedia con Robert De Niro (il picciotto in analisi) e Billy Crystal (l’analista). Praticamente lo stesso soggetto. Ma le intenzioni erano molto leggere, e lì ci si fermò. A fine anni Novanta dicevi cinema e psicanalisi ed era ancora inevitabile (lo è tuttora) l’associazione di idee con un solo nome: Woody Allen. Già nel 1971, quando il regista non era ancora diventato il cantore della terapia che abbiamo poi imparato a conoscere, Dick Cavett lo interpellò nel suo talk show a proposito di quella pratica così bizzarra per l’epoca, figurarsi a raccontarla in tv. Allen ne parlava già mischiando verità e – si direbbe oggi – storytelling, come poi avrebbe fatto nei suoi film. Una cosa era certa, nella narrazione più o meno fantasiosa che faceva del tema: il medico era sempre un esimio professionista, se mai gli stupidi (semplificando) erano i pazienti. Anche nei casi migliori. I film dedicati alla materia sono troppi, ne scelgo uno su tutti: Un’altra donna (1988). Gena Rowlands, scrittrice appena trasferitasi in un nuovo appartamento a Manhattan, origlia per caso le confessioni di Mia Farrow alla sua terapista nella stanza accanto: lo stesso giochetto sarà poi messo in atto, secondo modalità da rom-com, in Tutti dicono I Love You (1996). Sarà la prima a pedinare la seconda, gli psicanalisti restano fortunatamente chiusi nei loro studi, ancora immuni dalla demenza che li coglierà in futuro.

A meno di dieci anni dai Soprano, la serie che dà nuovo lavoro agli psicologi è In Treatment. L’originale israeliana è del 2005, la versione americana (guarda caso sempre prodotta da Hbo) è del 2008. Da noi arriva nel 2013: qui la psicoterapia è ancora percepita come roba da gente coi soldi, una pippa borghese, il grande pubblico non si immedesima. In Italia anche i ricchi vogliono solo vedere storie di poveri, quello sì è un problema di coscienza che andrebbe psicanalizzato a dovere. Oggi l’edizione con Sergio Castellitto è un buon successo su Sky, la terza stagione andata in onda da poco ha riconfermato che il protagonista non è scemo. Se mai è dolente come sempre dev’essere il Cinema Italiano D’Autore, tra lui e i suoi pazienti è una bella gara di “intenzità”.

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Castellitto (e consorte-sceneggiatrice Margaret Mazzantini) deve poi averci preso la mano e, nel suo ultimo film Fortunata, ha voluto come protagonista maschile uno psicologo infantile di quelli che durante le sedute usano i pupazzetti. A Stefano Accorsi, che lo interpreta, basta un incontro con la parrucchiera Jasmine Trinca, mamma di una sua piccola paziente, per perdere la testa, rincorrerla sul Lungotevere senza neanche togliersi il camice, stamparle un bacio in bocca, poi dare di matto e fuggire con lei a Genova, fortuna la tragedia è dietro l’angolo e tutto rientra, o quasi. In quanto a idiozia, questo dottorino di borgata fa il paio con la psicologa Naomi Watts. L’unico autore italiano che ha saputo aggirare il rischio della dolenza/demenza resta Nanni Moretti, che in Bianca (1984) arriva a far recitare la parte dell’analista al suo vero padre e in Habemus Papam (2011) assegna a se stesso il ruolo di terapista di Sua Santità. Non serve dire che il salto è più freudiano di Freud.

Il povero Sigmund, grande mentore di Woody nei suoi tredici anni di analisi (così dice lui), finisce oggi bistrattato dal cinema, o quantomeno incompreso. La sua sontuosa quasi-biografia A Dangerous Method (2011), dove – interpretato da Viggo Mortensen – spartiva la scena con il collega Carl Jung (Michael Fassbender), è un capolavoro che in pochi hanno capito. E dire che quello di David Cronenberg è stato l’unico grande film recente sugli psicanalisti non scemi, piuttosto semplicemente umani. Ma il passaggio è troppo sottile, per lo spettatore di oggi è molto più facile accettare un analista direttamente scemo: scemo come lui. Sono gli anni della Grande Insicurezza, dottori e pazienti si ritrovano finalmente accomunati dalla stessa meravigliosa fragilità, anni e anni di psicanalisi cinematografica non sono davvero serviti a niente.

Nelle immagini: in evidenza e nel testo Naomi Watts in Gypsy; in testata una scena di A Dangerous Method; nel testo anche una scena da Terapia e pallottole