Attualità

Perché Assad resiste

Larbi Sadiki, commentatore di Al Jazeera, racconta un paio di retroscena sul regime siriano

di Anna Momigliano

Larbi Sadiki, tunisino di nascita, britannico di adozione, è un docente di scienze politiche dell’università di Exeter. Autore del saggio The Search for Arab Democracy: Discourses and Counter-Discourses (Columbia University Press), è un commenta spesso le rivolte mediorientali – ultimamente, soprattutto la guerra civile siriana – per l’edizione inglese di Al Jazeera. È anche una delle voci che avevo intervistato per tracciare il ritratto di Bashar Al Assad – aka il dittatore riluttante – che trovare sul numero 7 di Studio, appena uscito in edicola.

Come spesso accade in questi casi, nel pezzo c’era lo spazio per solo una parte di quello che Sadiki mi ha raccontato. Pubblico qui l’intervista nella sua versione (quasi) integrale.

Una volta hai detto che «l’unica cosa che Bashar Assad controlla è il modo in cui potrà andarsene». Quello che non capisco è perché si ostini a resistere ancora, visto che l’opposizione è così forte e tutti i Paesi arabi sono contro di lui. A differenza di Gheddafi, non mi pare il tipo di leader guerriero che sogna una morte “eroica.” Come mai non se ne è ancora andato?

Bashar ha dalla sua un esercito ancora abbastanza coerente e disciplinato. L’esercito di Gheddafi era stato infiltrato sin dall’inizio del conflitto in Libia fino ai vertici, un lavoro che la NATO ha fatto sotto il naso di Gheddafi. Questo è un fattore importante, nonostante il fatto che la maggior parte dei soldati sono sunniti [Assad e le figure chiave del regime sono sciite, NdA]. Tuttavia, mentre il conflitto si prolunga, le defezioni aumentano.

In Siria c’è un sistema di clan, che si basa su stretti rapporti di sangue in cui sono i parenti stretti di Bashar a gestire gli squadroni della morte della Guardia repubblicana, sotto il diretto comando di Maher, il fratello minore di Bashar, che probabilmente è l’autore principale del pugno di ferro.

Bashar non ha dove andare, e anche se probabilmente all’inizio Bashar era almeno in parte estraneo ai massacri, suo fratello Maher ha fatto in modo che egli stesso ormai sia altrettanto colpevole di crimini contro l’umanità. La cosa migliore per la Siria sarebbe una frattura tra i due fratelli, come quella che c’è stata nella generazione precedente tra il patriarca Hafez al Assad e suo fratello minore Rifaat. Ma finora non pare che ci sia, e se c’è si tratta di un segreto nascosto bene.

Quando parli di Siria usi quasi sempre il termine “gli Assad,” al plurale, a sottolineare l’aspetto clanico del regime. Cos’è cambiato dai tempi di Assad Senior, quando a governare era il grande partiarca Hafez Assad, padre dell’attuale presidente?

La differenza è che Bashar non ha alcuna legittimità di suo, a differenza del padre che ha stabilizzato il paese dopo anni di colpi di stato e contro-colpi di stato. Inoltre, l’equilibri regionale è cambiato e la Siria ha scarso sostegno attorno a sé. Assad ha trascurato completamente le relazioni con i Paesi arabi e ora il suo unico alleato è l’Iran – che a sua volta è una nazione “fuori casta” a causa della questione nazionale.

Bashar voleva fare il medico, ha studiato a Londra, lontano dalle dinamiche del regime e di una famiglia dove gli scontri e le rivalità interne sono enormi. È dovuto rientrare in Siria quando suo fratello maggiore Basil è morto in un incidente stradale che alcuni considerano sospetto. Come credi che il suo ruolo di “erede accidentale” di una delle dinastie più controversie del Medio Oriente ha influenzato la sua presidenza?

Crescere in una famiglia del genere deve avere lasciato ferite che neanche ci immaginiamo. La figura tragica di Bashar risiede non tanto nel fatto di essere stato “l’erede non eletto” della dinastia Assad, quanto per il fatto che, a partire dall’inizio della rivolta del 2001, egli si sia dimostrato indegno della più alta carica del Paese, che sarebbe dovuta spettare a suo fratello maggiore.

Bashar non ha mai avuto la stoffa del leader, credo che suo padre lo sapesse, e la sua gestione della crisi non fa che confermarlo. Ha avuto un sacco di possibilità di cambiare il corso degli eventi ma non l’ha fatto, neppure quando l’opposizione era aperto al dialogo. Invece ha preferito soccombere alla logica del clan. Mentre stiamo qui a discutere, il vero presidente della Siria potrebbe essere Maher, e non Bashar.

È la forza del clan che permette al regime di sopravvivere?

La lealtà tra consanguinei è la regola del gioco, in Medio Oriente, da tempo immemore: la mia famiglia e gli amici della mia famiglia sono i miei amici, i nemici della mia famiglia sono i miei nemici. Bashar e Maher si coprono le spalle l’un l’altro, e così fa tutto il can. Possono resistere ancora a lungo, credo per mesi, forse addirittura un paio d’anni. Ma ormai non si torna indietro: la dinastia Assad è destinata a crollare.

Bashar Assad in un certo senso mi ricorda Saif Islam, il figlio di Gheddafi: brillante, educato all’estero, avrebbe potuto riformare il regime dal suo interno. Ma alla fine non ha saputo sfuggire al destino della famiglia…

Bashar è stato l’architetto della sua stessa sfortuna. Avrebbe avuto tutti i numeri per cambiare la Siria e possedeva l’intelligenza per farlo. Ma quando le cose hanno cominciato ad andare per il verso storto, non ha trovato il coraggio di sacrificare il clan, dimostrando non essere all’altezza del ruolo che gli era stato affidato. È un discorso che vale per molti regnanti del Medio Oriente che pure hanno tentato qualche riforma: alla fine, per fare dei cambianti bisogna sacrificare il clan, e manca il coraggio di farlo.