Attualità

L’amore ai tempi dell’orologio biologico

Storia di un concetto, apparentemente antico ma che risale agli anni Settanta, che condiziona le scelte di molte donne.

di Anna Momigliano

Ho due amici, una coppia: lei gli vuole bene ma non è presa dalla storia; lui è più innamorato, è premuroso eppure tende a dare tutto per scontato; lei resterà comunque, e lui lo sa. Non la definirei una relazione disfunzionale, però è evidente che c’è uno squilibrio di potere. Il fatto è che i miei amici hanno 32 anni, si trovano cioè in quell’età in cui capita spesso che gli uomini pensino di avere tutta la vita davanti e le donne no. Dovesse andare storta, lui può sempre mettere su famiglia con un’altra; quanto a lei, il tempo necessario per costruire una nuova relazione sufficientemente stabile per fare un figlio scarseggia, e potrebbe già essere già troppo tardi: questo, più o meno, il non detto. La dinamica di coppia dei miei amici, in altre parole, ruota attorno all’orologio biologico di lei. Mi chiedo se il loro caso sia poi così raro.

Basta farsi un breve giro su blog e siti d’informazione per scoprire che abbondano consigli, rivolti squisitamente al pubblico femminile, sul perché «non bisognerebbe aspettare oltre i 35 anni per avere un figlio», oppure avvertimenti sul fatto che la fertilità comincia a diminuire «gradualmente» già dopo i 25 anni, che «decresce molto più rapidamente tra i 30 e i 35», poi praticamente diventa fatica sprecata. Il messaggio diffuso sembra essere non soltanto che la vita riproduttiva di una donna ha una data di scadenza (fatto questo incontrovertibile); ma anche che il punto di non ritorno sia molto più prossimo di quanto le convenzioni sociali lascerebbero intendere; e che di conseguenza una donna, se desidera essere prima o poi madre, debba fare le sue scelte romantiche e lavorative a partire da questo termine: resta con lui, non aspettare un contratto, o rischi di morire senza figli.

orologio biologico

Credevo che quello di “orologio biologico” fosse un concetto senza tempo, uno spauracchio già per le nostre nonne e bisnonne. A quanto pare, non è così. La scorsa settimana il Guardian ha pubblicato un breve saggio sul tema intitolato “The foul reign of the biological clock” (in realtà, un estratto dal nuovo libro di Moira Weigel, Labor of Love: The Invention of Dating), dove si ricostruisce come l’idea in realtà sia «un’invenzione recente», dei tardi anni Settanta. Prima di allora, infatti, l’espressione stava a indicare il ciclo di regolamentazione di sonno e veglia in base all’orario della giornata: in italiano talvolta questo significato è ancora mantenuto, in inglese però l’accezione originaria è andata persa del tutto. Oggi, nota l’autrice, quando i media internazionali parlano di «orologio biologico» lo fanno rappresentando «i corpi femminili come fossero degli ordigni col timer» e per «avvertire le donne che rimandare la gravidanza potrebbe essere qualcosa che un giorno rimpiangeranno».

L’espressione “orologio biologico” nella sua accezione attuale è stata popolarizzata dal commentatore del Washington Post Roger Cohen nel 1978, con un editoriale intitolato “The clock is ticking for the career woman”. A tutt’oggi reperibile online, l’articolo parlava di donne lavoratrici ed emancipate, categoria relativamente nuova all’epoca, che «dopo avere rimandato la maternità per andare al college e costruirsi una carriera, insomma fare tutte quelle cose che gli uomini fanno, ora sentono che il tempo sta scadendo». Il messaggio, concludeva l’autore, è che «qui è dove finisce la liberazione femminile».

Era nato un tropo, quello della donna che ha avuto tutto, università, carriera e indipendenza economica, salvo poi accorgersi all’alba dei trenta che se vuole avere un figlio è ora o mai più, che c’è un uomo da convincere, processo lungo e laborioso, e che sarebbe stato meglio pensarci prima. C’è un doppio sottotesto: primo, avere figli è una priorità per le femmine e non per i maschi, assunto non sempre corrispondente alla realtà; secondo, per qualche ragione data per scontata, è più facile convincerlo a cedere agli istinti riproduttivi di lei, se questa non ha un lavoro e una laurea.

orologio biologico

Weigel nota che il topos comincia a diffondersi proprio nel momento in cui le donne entrano in massa nella forza lavoro statunitense, un fenomeno che alcuni amano pensare sia stato reso possibile dalla pillola e dai movimenti femministi, ma che fu in gran parte una reazione alla crisi economico-petrolifera degli anni Settanta: con le retribuzioni stagnanti, due stipendi cominciavano a fare comodo. Quale fosse la sua causa, il fenomeno cambia l’ordine sociale, vengono a cadere ruoli, strutture, certezze e, come spesso accade nelle fasi di mutamento, si diffonde una certa ansia. In questo contesto, sostiene l’autrice, il fantasma dell’orologio biologico diventa uno strumento di difesa dell’assetto che andava sgretolandosi: «Era invocato come prova che le donne non potevano avventurarsi troppo al di là del loro ruolo tradizionale. Potevano indossare completi da manager quanto volevano, alla fine i loro corpi avrebbero desiderato la maternità».

Con l’arrivo del nuovo millennio, il tema conosce una seconda giovinezza, il dibattito si tinge di toni scientifici e si arricchisce di numeri. In quel periodo la Società americana per la medicina riproduttiva pubblica delle cifre destinate ad essere citate ovunque: la fertilità femminile «comincia a calare a 27 anni»; già dopo i 35, «soltanto una donna su tre riuscirà a concepire entro un anno» e le «possibilità di non restare incinta mai più salgono al trenta per cento». È il panico. Non si contano le copertine, gli articoli, i libri, i talk show ansiogeni. Nel 2000 il New York magazine incolpa la pillola, che spingerebbe le donne «a ignorare i fondamentali della propria biologia fino a quando è troppo tardi»; due anni dopo pubblica una storia di copertina intitolata “Baby Panic” considerata antesignana di un genere giornalistico, il profilo dei manager in gonnella che rimpiangono di non avere fatto figli; «Ascoltate la donna di successo che discute il suo fallimento nel diventare madre», scrive infatti Time. Il messaggio non è più: le donne rimpiangono di avere sacrificato la famiglia per la carriera; bensì: aspettano a fare figli fino a quando ormai è troppo tardi, dove “troppo tardi” non è la menopausa, non sono nemmeno i quaranta, bensì i trentadue, trentatré.

«Stiamo dicendo a milioni di donne quando rimanere incinte in base a statistiche che risalgono a prima dell’elettricità»

La psicologa Jean Twenge ha provato a indagate su questo “baby panic”, che l’ha coinvolta in prima persona: quando aveva trent’anni, s’è trovata tentata di restare al fianco dell’uomo sbagliato per timore di essere troppo vicina alla “data di scadenza” (poi per fortuna ha sposato un altro, e ci ha fatto tre figli, tutti nati dopo i 35). Prima di soffermarsi sugli aspetti emotivi della questione, Twenge ha cominciato indagando sui numeri. Il risultato è una storia di copertina pubblicata nel 2013 dall’Atlantic che ha contribuito a cambiare i termini del dibattito. Da dove arrivavano le statistiche più utilizzate dai media? Uno dei dati più frequentemente citati, quello secondo cui un terzo delle donne tra i 35 e i 39 anni non è più in grado di concepire entro un anno proveniva da un articolo pubblicato nel 2004 nella rivista scientifica Human Reproduction. Peccato che l’articolo non utilizzasse dati originali, bensì si basasse su una documentazione francese raccolta tra il 1670 e il 1830: «In altre parole, stiamo dicendo a milioni di donne quando dovrebbero rimanere incinte in base a statistiche che risalgono a prima dell’elettricità e degli antibiotici».

Dati raccolti più recentemente, come quelli di uno studio condotto nel 2004 su un campione di 770 donne europee e pubblicato su Obstetrics & Gynecology, sembrerebbero dimostrare che in effetti la fertilità comincia a diminuire dopo i 34, ma soltanto di poco: l’86 per cento delle donne tra i 27 e i 34 anni riuscivano a concepire entro un anno, la percentuale scendeva a 82 per quelle tra i 35 e 39 anni. Gli autori dello studio hanno lavorato su un campione di donne contemporanee, la cui salute e aspettativa di vita era di molto superiore a quelle del Settecento. Dettaglio non da poco, si sono premurati di controllare che le coppie analizzate avessero una routine sessuale analoga, indipendentemente dall’età, di due o tre rapporti a settimana.

orologio biologico

Certo, nessuno mette in dubbio che dopo una certa età, in genere più i quaranta che i trenta, avere figli sia più difficile per le donne; ma è anche vero che le donne che tentano di restare incinte dopo quella soglia sono relativamente poche. In realtà, sostiene Twenge, «la maggior parte dei problemi di infertilità non riguarda l’età delle donne». Stando ai dati della Società americana per la medicina riproduttiva (la stessa che faceva campagna perché le donne s’affrettassero) soltanto il 40 per cento dei casi di problemi di infertilità nella coppia sono da attribuirsi al partner femminile; un altro 40 per cento dei casi dipende dall’uomo, e il restante 20 è un mistero. Anche quando l’infertilità della coppia è attribuibile alla donna, poi, le cause più diffuse sono disturbi come endometriosi ed ovaie policistiche. Eppure si parla di orologio biologico, di donne che aspettano troppo per via degli studi o della carriera, quasi fosse un’emergenza.

Resta da chiedersi il perché. «La società parla come se soltanto le donne avessero un corpo», scrive Weigel. Nel suo libro anticipato dal Guardian, Weigel presenta la retorica dell’orologio biologico come una difesa dei ruoli tradizionali nel momento in cui venivano messi in crisi: una reazione, più pavloviana che ideologica, all’ansia del cambiamento. Nella storia di copertina dell’Atlantic, invece, Twenge la vede come un fenomeno giornalistico, «uno dei più spettacolari esempi del fallimento dei media mainstream di riportare ed interpretare correttamente delle ricerche scientifiche». Mi chiedo però se ci sia anche dell’altro. Forse l’ansia da orologio biologico è uno strumento per controllare le donne, come suggerisce Weigel; forse, come invece ipotizza Twenge, è più semplicemente fomentata dai media. Forse, in qualche caso, è semplicemente una scusa per fare la scelta sbagliata.

L’attrice britannica Margaret Lockwood nel 1946 con la figlia Julia (Hulton Archive/Getty Images); foto di una spiaggia, senza data  (Hulton Archive/Getty Images); due bambine giocano con le bambole, 1975, luogo sconosciuto (Keystone/Getty Images)