Attualità

O la cultura o la moda

A margine dell'ennesima polemica sulla "modella anoressica", giro di voci sul perché mondo della cultura e moda fanno fatica a capirsi.

di Aa.Vv.

Perché in Italia, per la gran parte del mondo della cultura o della letteratura la moda è un linguaggio così lontano? E perché viene trattata con sufficienza se non con ostilità? Forse, in parte, la polemica sulla copertina di Marie Claire denota la mancata comprensione di un linguaggio o di un codice? Eppure nel mondo gli esempi di sincretismo tra moda e cultura “ufficiale” o “tradizionale” non mancano: da pochi giorni è uscito l’ultimo numero di The Happy Reader, il supplemento letterario, curato da Penguin, del fashion magazine Fantastic Man. Una partnership del genere sarebbe possibile nel nostro Paese? E perché, tra le arti, la moda è considerata il fanalino di coda? Perché l’estetica viene demonizzata, e vista in opposizione al contenuto? Abbiamo girato le domande a cinque voci vicine a Studio, giornalisti, scrittori, direttori, che hanno quotidianamente o quasi a che fare con la moda e il suo mondo.

 

Gianluigi Ricuperati, scrittore, direttore artistico di Domus Academy

I rapporti tra moda e cultura, ovvero tra i protagonisti professionali dei due ambienti, sono una partita di ping-pong tra giocatori assenti: con un tavolo così lungo che i due contendenti nemmeno si vedono – peccando di quella forma di violenza sociale che consiste nel non vedere. Per tre motivi fondamentali:  1) Per snobismo reciproco – uno snobismo di tipo superficiale e su base economica da una parte, uno snobismo di tipo consapevole e su base intellettuale dall’altra. 2) Per oggettivo sospetto di classe: una fascia sociale di “creativi” molto ben pagati e al centro del proprio universo (l’Italia è uno dei centri globali del circo della moda, come noto), contro un gruppo diviso e marginale, con redditi precari e soddisfazioni sociali molto scarse (i letterati italiani). 3) Per alcuni deficit strutturali: non esiste in Italia, o ha comunque dimensioni non rilevanti, un apparato di media di moda “alternativi”: non esiste il Dazed Group, tanto per dire, fondato da Jefferson Hack, che ha sempre coniugato, con coraggio e visione lunga, il dialogo tra cervelli e corpi (sociali) apparentemente distanti. Sono peraltro pochissime le eccezioni al modello imperante del “sarto” persino tra gli stilisti – anche se si tratta di eccezioni note e straordinarie. Va anche aggiunto che gli stilisti sono imprenditori, e in generale nella classe imprenditoriale italiana non c’è una diffusa ambizione intellettuale.

Ciò detto, il problema degli intellettuali italiani, anche giovani, anche di talento, è che generalmente viaggiano troppo poco, e hanno spesso la mente obnubilata da modelli paesaggistici di trenta o quarant’anni fa. Ovvio che rimangano ancorati a pregiudizi che troverebbero bizzarri e datati se qualcuno li applicasse ai loro libri. Quanto pesa, ancora, la mitologia dell’intellettuale che eroicamente svela le imposture del mondo, cantori di una pars destruens infinita, talvolta orfani di un mondo che va semplicemente più veloce di loro? Io credo invece che sia cruciale proporre piattaforme di comprensione reciproca. E non è facile, lo dico per esperienza: perché chi fa cultura, anche con grande qualità, non considera importante l’arte vestimentaria, e chi fa moda non considera importante la cultura, a meno che non sia scintillante e di facilissima comprensione, cullandosi in una meravigliosa ignoranza che non sarebbe una colpa ma lo diventa se si ostina a rimanere tale.

Bisogna perciò proporre: è uno dei motivi per cui dirigo una scuola (anche) di moda, per cui durante la Fashion Week dello scorso febbraio ho organizzato una lettura di un libro letterario sponsorizzata da una fiera per addetti ai lavori, per cui spesso e volentieri preferisco collaborare come autore a riviste inglesi come Dazed, AnOther Magazine o TANK piuttosto che a testate italiane, che con pochissime eccezioni (il lavoro di Mancinelli, ovviamente Vogue e GQ, e L’Officiel di Cantaro) vedo annaspare nel terrore della complessità (mentre in Inghilterra si ospitano i poeti insieme agli stylist).

Da tempo credo che sarebbe bellissimo se Prada, che ha già sostenuto un concorso letterario, promuovesse una rivista letteraria globale con sede italiana (costi bassissimi). Da tempo ho invitato alla Domus Leanne Shapton, che assieme a due scrittrici formidabili come Heidi Julavitis e Sheila Heti ha scritto un fondamentale ‘sistema della moda’ per il XXI secolo (Women in Clothes, che consiglio, e che un giorno ho raccontato su Vogue, girandolo poi a un noto programma di divulgazione che non l’ha nemmeno preso in considerazione, forse perchè troppo “frivolo”).

<> on March 8, 2015 in Paris, France.

Gianluca Cantaro, direttore l’Officiel Italia

La profondità del mondo colto ha poco a che fare con la superficialità estetica della moda. Si aggiunga che quest’ultima è denaro mentre la cultura è passione, sofferenza e a volte fame, per capire quanto i due mondi siano incompatibili. Ad aggravare la situazione ci si mette la chiusura del fashion system verso ogni cosa che sia fuori dal circuito a esso noto, per cui il matrimonio, o semplicemente il dialogo, diventa praticamente impossibile. Un esempio è la reiterata polemica delle modelle troppo magre sulle copertine dei giornali, dei modelli di bellezza poco sana e via dicendo. Spiegare a chi è fuori dal sistema che non è esattamente così è come se… un cinese cercasse di spiegare qualcosa in cinese a un italiano che parla solo italiano, dove entrambi si rifiutano dell’aiuto di un interprete: impossibile. Il linguaggio estetico della moda non va guardato con occhi comuni, ma va conosciuto e spiegato. Anziché alimentare polemiche da programma tv nazionalpopolare, la moda andrebbe raccontata in maniera completa e approfondita, specialmente in tv e sulle riviste non di settore.

Si potrebbe azzardare un paragone che scuoterà i puristi: sarebbe come dire che un quadro di Mondrian sia banale perché sono righe nere su fondo bianco con dei quadratini colorati. Non paragono la moda, che è industria, all’arte, che è espressione pura della creatività di una persona, ma dico che la complessità del suo linguaggio va ben oltre la modella che sembra troppo deperita. Aggiungerei anche che le modelle mangiano normalmente e le persone che soffrono di disturbi dell’alimentazione ci sono come ogni altro ambito sociale. Tornando alla letteratura, oggi, ancor più di prima, la velocità di comunicazione e lo spazio sempre più ampio dato all’immagine ha eroso quello lasciato alle parole, riducendo sempre più i testi a un contorno per le illustrazioni. Dall’altro lato, è anche comprensibile, dato che la moda è estetica. Così se le iniziative che hanno messo insieme moda e letteratura si contano sulle dita di una mano (il Journal di Prada con Feltrinelli e Luxottica, The Happy Reader, il supplemento della rivista inglese Fantastic Man con Penguin e poco altro) è anche per un motivo semplice e crudele: la gente legge sempre meno, i giornali e i libri si vendono sempre meno e quindi non sono un settore interessante in cui fare investimenti per avere un ritorno adeguato. Al contario i bellissimi coffee table book che spuntano come funghi, sono apprezzatissimi da tutto il fashion system perché belli da sfogliare e leggere con uno sguardo.

 

Alternative View - Womenswear Spring/Summer 2014

Elisa Furlan, giornalista 

Arte, si dovrebbe partire solo da questa parola. Pregiudizi, preconcetti, chi apre dubbi sulla vera natura dell’arte dovrebbe capirne il significato più profondo e interessarsi delle sue molteplici forme di comunicazione. Non è la querelle scaturita dall’immagine di copertina del noto mensile femminile e non penso si possa accusare una foto della colpevolezza di un male serio e di una valorizzazione dell’«estetica della infelicità» come scrive Michela Murgia. Ciclicamente la moda viene presa di mira per quello che comunica, come lo comunica e quando lo fa. Essere presi sul serio quando si parla o si scrive di moda è possibile, come è possibile non condividere aspetti socio culturali all’apparenza più complessi di una spiegazione di una collezione di un designer. Dietro a tutto però, ci sono ore di lavoro e anni di studio e di ricerca, da parte di chi esprime la propria arte nella moda, o nella letteratura. L’improvvisazione non regge e la qualità dell’impegno vince sempre. L’importante è il rispetto. Mi rendo conto che quando si parla di intrecciare moda e cultura molti arriccino il naso nonostante ci siano esempi evidenti, come lo è la Fondazione Prada, connubio perfetto tra la volontà della maison di dare espressione e visibilità al mondo arte in ogni sua forma. Non si può ignorare il valore di questi ambienti insieme coesi, non si può negare che creino realtà innovative. Mi dispiacerebbe pensare che tutto questo sia solo un problema italiano. Penso solo sia un problema culturale. Chi crea il peso di queste due arti, chi decide quale sia più o meno di valore, siamo noi, solo noi. Sono convinta che se anche la scuola fosse in grado di trasmettere l’amore per l’arte in tutte le sue forme, non ci sarebbe più questa barriera che compromette talvolta il rispetto per il lavoro altrui. L’immagine non è unicamente esteriorità, ma è un linguaggio. Il linguaggio ha bisogno di essere compreso. Non è solo un problema di età o di generazione, è un problema di apertura. In famiglia e nello studio, si dovrebbe essere formati all’apertura. Forse, se arriviamo a questo traguardo, la cura nel valorizzare la moda come assoluta forma d’arte, come si percepisce all’estero, accostata anche alle altre di forme comunicazione, sarà anche di nostro dominio. Finalmente. E smetteremo di creare polemiche aggressive, trasformandole invece in opinioni che creeranno progresso e non regresso.

Alternative View - Paris Fashion Week Womenswear Fall/Winter 2014-2015

Angelo Flaccavento, giornalista

«Si tratta di una malattia culturale, ben radicata nel profondo della nostra mentalità: la dicotomia tra arti maggiori e arti applicate ci affligge ancora. Nell’ambito anglosassone, al contrario, le arti minori, o applicate, o decorative, sono state da sempre trattate alla stessa stregua delle arti cosiddette maggiori. Il solo fatto di distinguere tra un maggiore e un minore crea invece una scala di valori, e in questa scala di valori la moda è un’arte minore perché applicata. Ovvero: se l’arte pura non ha uno scopo, la moda deve corrispondere anche a una funzione d’uso. Ciò detto, mentre il design industriale e l’architettura sono oggetto, da tempo, di una riflessione culturale molto articolata, la moda, purtroppo, in Italia, non lo è stata. Ci hanno provato in molti, ma non si è riuscito a creare un vero pensiero. In parte la colpa è degli organi di stampa mainstream, che trattano l’argomento in maniera superficiale, riducendola a tendenze, prodotti e sensazionalismi. Se lo strumento attraverso cui la maggior parte della popolazione guarda le passerelle è il telegiornale, la lettura che ne viene data è di qualità molto bassa. Avere una capacità di inserire la moda in un ampio contesto di riferimenti è importante, mentre fermare l’analisi alla lunghezza di una gonna la rende, come renderebbe tutte le cose, irrilevante. In una certa espressione di una certa sinistra tutto ciò che è “frivolo”, che cambia rapidamente, che riguarda l’espressione della persona, viene visto con sospetto. Credo che il problema di fondo sia il vedere la moda come un’espressione di status, e quindi come espressione di un potere di spesa. Quel che rende così viva la cultura anglosassone in questo senso, invece, è che la moda viene vista come uno strumento di espressioni: un modo per rappresentarsi, che non significa rappresentare le dimensioni del proprio conto in banca. Piuttosto, significa affermare (anche) quali sono le tue filiazioni musicali, artistiche, culturali» (testo raccolto)

Alternative View - Paris Fashion Week - Womenswear Fall/Winter 2015/16

Marta Casadei, giornalista

Gabrielle Chanel, ai più nota come Coco, rivoluzionaria (e astiosa), indimenticabile protagonista del fashion system francese dagli anni Venti in poi, diceva che la moda non è una cosa che esiste solo negli abiti, ma è nel cielo, nelle strade e ha a che fare con le idee, con i modi di vivere, con ciò che accade. Mademoiselle aveva capito molto, o comunque ciò che basta per creare un business milionario che perdura (e fiorisce) tutt’oggi, anni dopo la sua morte. Citazioni a parte, l’idea che oggi sembra attecchire con fatica, specie in una certa fetta della classe intellettuale, quella che storce il naso di fronte alle derive commerciali (e poi, invece, di quelle stesse derive vive, come tutti), è che la moda sia non solo una forma di cultura, ma parte integrante del sistema culturale italiano.

Sistema che di moda vive – nel vero senso della parola: gli addetti ai lavori sono centinaia di migliaia per fortuna – e che di moda si nutre: visivamente, anche nel semplice stereotipo del “ben vestire” che ci è invidiato all’estero, nell’amore per la qualità e per la cura del dettaglio, quello che fa sopravvivere, in un mondo in cui avrebbero rischiato di essere spazzate via causa obsolescenza, tecniche antiche di lavorazione. Gesti che sono tasselli del nostro sistema culturale, che vanno valorizzati, che vanno traghettati nel futuro attraverso un processo evolutivo molto complicato. La moda è cultura per me che ci lavoro, per me che non la amavo e che, ancora, ne patisco le superficialità. Eppure questa percezione non è diffusa: Ballarò dedica al settore il solito servizio di costume girato in fretta per le strade di Milano quando c’è la settimana della moda; l’argomento merita le luci – mainstream – della ribalta solo quando si tratta di svelare le worst practice: falsi, sfruttamento, crudeltà verso gli animali. Lungi da me il voler difendere queste pratiche: sono terribili, danneggiano il settore e, cosa più importante, le persone che ci lavorano. Però sarebbe bello che il mondo della cultura, nelle sue molteplici sfaccettature, esaltasse chi , tra tanti sforzi, stringendo i denti, costruisce un pezzetto di bellezza tutto italiano. Che poi il linguaggio della moda sia terribilmente viziato dalle logiche commerciali è vero: a partire dalle copertine – che sono destinate a rimanere tali, e spesso parlano a un pubblico più ristretto di quanto si creda – a finire con ciò che arriva sugli scaffali. Sarebbe bello che ognuno riuscisse a sviluppare un senso critico proprio, nell’acquisto di un abito come in quello di un libro.

 

Nelle fotografie, immagini dalla Paris Fashion Week. Di Gareth Catermole, Andreas Rentz, Vittorio Zunino Celotto (Getty Images)