Attualità

Il femminismo non è uno sport per signorine

Che direzione deve prendere la battaglia deflagrata nel 2017? Rivendichiamo la libertà di fare le donne e torniamo all’obiettivo dei diritti e del potere.

di Teresa Bellemo

Questo è il primo di una serie di articoli intorno ai temi del nuovo femminismo, attraverso i quali diverse autrici e autori cercheranno di rispondere alla domanda: che direzione può o deve prendere la battaglia sui diritti delle donne deflagrata nel 2017?

Nel caso Wanna Marchi contro scemi che comprano il sale miracoloso diciamo che non mi sono mai schierata dalla parte degli scemi. Il problema è che le donne, in questa narrazione che stiamo facendo da qualche mese, le stiamo trasformando in questi qui che comprano il sale. Sempre circuite, sempre attonite, sempre bloccate dalla paura, sempre lasciate in un angolo prive di forze o di autodeterminazione. Sempre fraintese. Soltanto che l’annus domini non è il 1918, ma il 2018. E le donne, anche se oggi spesso sono pagate meno di un uomo e non hanno tutto il potere di un uomo, possono fare molte cose: tipo tutte le cose. Ad esempio esigerle, come stavamo facendo all’inizio.

Si potrebbe partire da qui e ricominciare innanzitutto a metterglielo in testa alle donne, piuttosto che chiedere agli uomini di smettere di fare qualcosa. Rivendicare invece di allestire tribunali sommari. Andarsele a prendere quelle cose è un atto attivo, mi si perdoni la tautologia. Dimostriamo che siamo ancora dell’idea di andarcele a prendere come abbiamo fatto con le manifestazioni dello scorso weekend, che hanno chiarito che l’attenzione è ancora alta. Nonostante il tempo passato e nonostante tutto il resto no, non ci siamo rassegnati. Vogliamo ancora tutto quello che volevamo prima, e i cartelli lo dicevano chiaramente: “pari diritti”, “diritti delle donne = diritti umani”, “equal pay”, “capaci di tutto”. Ma allora quand’è che ci siamo persi?

Di una lotta femminista che difende le poverine, che ce le racconta, sinceramente, non me ne faccio nulla io e nemmeno loro. Non se ne fa nulla nessuno, tranne quelli che di cambiare anche solo una virgola non ne hanno mai voluto sentire parlare. Loro lo sanno che manca tanto così anche stavolta. Non mi interessa leggere tutto sull’ultimo recente scandalo datato dieci anni fa perché mentre stiamo reificando Cat Person, mentre mettiamo artisti e le loro opere in cantina, a Porta a Porta un’avvocato vittima del magistrato Bellomo racconta di lui che aveva provato a baciarla e conclude con ribrezzo che quelle lì mica erano molestie, no, macché. Le molestie sono altro (altro cosa?). Forse dovremmo smettere di parlarci tra noi e tornare a parlare a queste qui e spiegar loro che cosa sono le molestie e come assestare un manrovescio.

Se vogliamo che questa ondata di femminismo non finisca per annoiare (siamo sulla buona strada) e finisca per non cambiare nulla (speriamo di no), serve fare come con tutte le cose: fissiamo dei punti, delle priorità, e concentriamoci su questi. Meglio ancora se non opinabili, come ad esempio la nuova legge che in Islanda vieta la disparità di stipendio tra uomo e donna a parità di mansione. Andare in giro sbraitando non serve a nulla, si finisce per passare per i matti del paese. Le rivoluzioni che salvano tutti non le ha mai vinte nessuno. Le rivoluzioni che si vincono sono quelle fatte da gruppi che sono lobby, che pesano e intendono far pesare il loro valore.

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Voglio che il femminismo continui ad essere quello che intendevo fosse: la richiesta di uguaglianza e di diritti e di spazi. Una richiesta fatta a voce alta, aperta e multiforme, non totalitaria. Per questo in questa parità di diritti deve esserci anche la possibilità di poter essere in disaccordo, di poter dire quello che sto dicendo senza aspettarmi discorsi del tipo «Ecco, ne abbiamo persa un’altra». Voglio potermi sentire libera di dire che la lettera delle “Cento di Le Monde”, tra le cui firmatarie c’era anche Catherine Denueve, contiene dei timori che condivido, e li condivido proprio perché sento che fatico nel sentirmi libera di poterlo dire. Anche se tra quelle Cento solo mezza avrà preso una metro negli ultimi dieci anni e tutte e cento avranno solo fantasticato l’idea del pazzo in impermeabile – probabilmente impersonato da Alain Delon – devono poter essere libere di dirlo. Tra l’altro, in quella lettera c’è una cosa fondamentale, che nel tentativo di aspettare tutte, anche le solari e un po’ pazze con i codini, rischiamo di perdere per strada: rivendichiamo la libertà di fare le donne.

Lasciateci essere corteggiate, blandite, attaccate a un muro. Lasciate che gli uomini paghino una cena, mandino un messaggio in più piuttosto che uno in meno, pensino a noi come delle – oddio – conquiste. Una delle mie storie d’amore più belle è iniziata con lui che per due mesi, ogni notte, mi scriveva un messaggio a cui io non rispondevo mai. Se fosse accaduto adesso avrei dovuto denunciarlo per molestie e “drague insistante”. O forse non lo avrebbe nemmeno fatto. No, le app con cui registrare il consenso non la voglio, non voglio importare l’isteria puritana americana che ci ha sempre fatto ridere. Voglio i diritti e la zona grigia, ok? Voglio poter dire che la voglio. E nonostante questo voglio potermi definire femminista al 100%.

Ammettiamo l’idea che gli uomini siano uomini e le donne siano donne. Ce l’avevamo quasi fatta, ridendo delle spalline di Melanie Griffith o delle donne in carriera che scimmiottavano gli uomini negli anni Ottanta. E invece per brevità adesso abbiamo deciso che al posto di scimmiottare l’altro tutti devono perdere le loro sfumature. Ma non era una battaglia di potere? Non era una lotta per ambire al trono? È diventata una lotta contro quella volta che il salumiere ci ha chiamate bella signorina, contro quello che ci fa sedere in autobus, contro quello che ci urla “abbella”, contro il collega che ci guarda il culo. Tutto fastidioso, d’accordo, ma perché non torniamo all’obiettivo dei diritti e del potere? Evitiamo l’apostasia coatta. Saremo più autorevoli, l’uomo non si sentirà più invincibile, diventeranno ovvie molte cose e nel lungo periodo – perché di questo si tratta, mettiamocelo in testa – avremo uomini migliori.

Forse è che se si vuole fare la rivoluzione la guerra deve essere totale, ma allora non contatemi tra le rivoluzionarie. Sono in gamba abbastanza per non scioccarmi per gli abbella e non monolitica al punto da volere che un uomo – in determinati contesti – sappia fare l’uomo e che la seduzione sia un gioco e come tale spesso abbia un canovaccio da seguire che si può sovvertire, se mi va. Voglio poterlo dire senza sentirmi complice del patriarcato. E poi, ci pensate? E se stessimo sbagliando? Se nel tentativo di convertire l’uomo maschilista stessimo escludendo la possibilità che un po’ (un po’ solo) gli uomini e le donne siano davvero animali con caratteristiche sessuali diverse anche se entrambi possono stirare, preparare da mangiare, governare un paese, guidare un jet, essere pagati uguali? Che se le donne non vogliono sentirsi dire «ma che hai oggi, il ciclo?» poi invocare il congedo nel periodo mestruale è un po’ una contraddizione?

Torniamo al buonsenso. Siamo arrivati al meme del “distracted boyfriend”: il femminismo ci guarda malissimo mentre guardiamo il prossimo porcoattore che dopo una cena mette la mano tra le cosce della *incredula* malcapitata. La reazione potrà essere davvero diversa da «Ancora? Ma basta»? Poi non lamentiamoci se a qualcuna tornano a stare simpatici quelli che fanno la battuta sulle tette. Inizio a pensare che sia tutto un complotto del patriarcato.