Attualità

Misurare la realtà

"Zona proibita" (Mondadori), il libro/reportage da Fukushima di William T. Vollman

di Cristiano de Majo

Poche settimane dopo il disastroso terremoto che ha sconvolto il Giappone, il leggendario scrittore William T. Vollmann si avventura nella zona a massimo rischio di contaminazione nucleare (la cosiddetta “Zona proibita”), munito solo di guanti da cucina in gomma, mascherina e di un rivelatore di radioattività poco credibile. Quello che ne viene fuori è un reportage terribile sulla vita quotidiana in un paese devastato. E proprio nelle città e nei villaggi più colpiti dal terremoto, dallo tsunami e dalla contaminazione nucleare Vollmann rintraccia l’inquietante annuncio di un futuro che riguarda tutti noi.

(dalla bandella)

 

Quest’inverno, nell’ambito di un corso di scrittura sul reportage narrativo organizzato da minimum fax, di cui, insieme a Christian Raimo, sono stato docente, il primo, e forse in assoluto più spinoso, problema che abbiamo affrontato è stato tracciare una linea di demarcazione tra scrittura giornalistica e scrittura letteraria (non fiction). Se entrambe si concentrano su uno stesso oggetto, per esempio la guerra in Jugoslavia, era l’ipotesi, come si distingue un reportage giornalistico da un reportage narrativo? Peccato che Zona proibita (Mondadori, nella nuova collana mini Libellule) non fosse ancora uscito, perché tra i tanti esempi che abbiamo cercato di illustrare quello ricavabile dall’ultimo lavoro di Vollmann sarebbe calzato a pennello.

Il racconto inizia con la tragicomica ricerca dell’autore di un contatore Geiger prima della sua partenza per il Giappone del dopo-Fukushima…

«La regola aurea del giornalismo – rispettare gli appuntamenti dal dentista – l’avevo disattesa già da un paio d’anni. Ma considerando le condizioni in cui si trovava il Giappone mi affrettai a ricucire i rapporti con la mia igienista, che maneggiava l’attrezzatura a raggi X puntandola verso gli zigomi dei pazienti e perciò portava sul camice rosato un dosimetro a film. Fu lei a darmi il numero di telefono di Carol (nelle chiamate successive trovai Ginger), che mi mise in contatto con un rappresentante, un certo Bob, il quale confermò di avere ancora in magazzino un contatore Geiger o – più precisamente – una specie di aggeggio post-Geiger-Müller.»

Questo  l’incipit, seguito da una decina di pagine che descrivono l’autore alle prese con un contatore che sembra non funzionare come dovrebbe o il cui funzionamento non è chiaro come sarebbe auspicabile per un inviato che sta per toccare con mano una fuga radioattiva. L’inaffidabilità del rilevatore – o per lo meno il dubbio sulla sua credibilità – segue Vollmann per tutto il corso del suo viaggio in Giappone. Lo scrittore  avverte con frequenza il lettore dei valori segnalati sulla macchinetta, ma la fa con un tono sospeso tra la diffidenza e l’agnosticismo.

Provate invece a dare un’occhiata a questo video estratto da una puntata di Annozero del giugno 2011. Chi non avesse voglia di vederlo tutto, può saltare al minuto 05:28. Mentre, per i nemici dei link esterni, provo a fornire un abstract: è un reportage di Corrado Formigli da Chernobyl – Corrado Formigli ha sempre l’affanno – in sottofondo c’è una musica che starebbe benissimo in The Ring – nella scena che inizia al minuto 05:28 Corrado Formigli si inoltra in un bosco dove ci sono solo alberi e prati, apparentemente un posto tranquillo, mentre il ticchettio del contatore aumenta sempre più la sua frequenza e Corrado Formigli grida nel microfono: “Basta entrare, avvicinarsi agli alberi, che sale: quattro, sette,  otto e mezzo, raddoppia,  vuol dire che la radioattività sta negli alberi, nelle radici, nel terreno, dodici, quindici, venti, venticinque, trentotto”, dice avvicinandosi agli alberi, “quaranta, è altissimo, è altissimo, troppo alto”, dice rientrando in macchina spaventato.

Una scena in cui lo spettatore può solo fidarsi di Formigli, sia perché non legge i dati sul display del suo contatore, sia perché non ha nessun genere di informazione sul significato di quei numeri che Formigli grida nel microfono.

So che rischio di essere capzioso tentando questo paragone tra un esempio alto di scrittura letteraria non fiction e un esempio, probabilmente basso, di giornalismo televisivo. Ma l’atteggiamento di Formigli, per quanto estremo, segnala, e lo fa in modo limpido proprio perché estremo, una caratteristica del giornalismo che è il fatto di basarsi su due principi: uno è il necessario rapporto di fiducia tra lettore/spettatore e giornalista, l’altro il convincimento che l’oggettività esiste. In altre parole, se il lettore si fida del giornalista che racconta o interpreta una notizia, quel racconto o quella interpretazione assurgerà nella sua mente al rango di verità oggettiva. Nel reportage narrativo questo meccanismo è, o dovrebbe essere, assente, perché lo sguardo di chi racconta la realtà è così dichiaratamente personale che per sua stessa natura è del tutto inaffidabile. Vollmann, maestro del genere, si avventura nel Giappone del dopo-Fukushima con un contatore Geiger (la presunta oggettività) che non si capisce mai se funzioni o meno. Il contatore Geiger è una geniale metafora dell’osservatore inaffidabile, così Zona proibita è anche un meta-reportage sull’inaffidabilità dello sguardo.

Sull’inaffidabilità degli editori italiani, invece, ci sarebbe da scrivere pagine. Limitando l’indagine al caso in questione, faccio un altro confronto emblematico (sono in vena di confronti). Copio e incollo qui sotto la descrizione in inglese del libro che chiunque può leggere su amazon.com (in inglese Into the Forbidden Zone non esiste su carta, è uscito negli Stati Uniti per Byliner, un’interessantissima piattaforma digitale che pubblica a prezzi molto bassi – Vollmann costa 3,25 dollari –  fiction e non fiction di autori affermati, testi medio-brevi scritti per essere letti in una singola sessione; uno dei pochi sviluppi dell’editoria digitale che ha l’aria di essere un’applicazione specifica piuttosto che un inutile traduzione in bit della cellulosa):

«Just weeks after multiple disasters struck Japan, National Book Award winner William T. Vollmann ventures into the nuclear hot zone, outfitted only with rubber kitchen gloves, a cloth facemask, and a capricious radiation detector. He emerges with a haunting report on daily life in a now-ravaged Japan — a country he has known and loved for many years. And in the cities and towns hit hardest by the earthquake, tsunami, and radioactive contamination, Vollmann finds troubling omens of a future heading toward us all.»

Se si sovrappongono queste righe all’estratto della bandella riportato all’inizio dell’articolo, si scopre che Mondadori ha tradotto praticamente alla lettera la descrizione cambiando un unico vocabolo (e sorvolando sul fatto che WTV sia un vincitore del National Book Award). He emerges with a haunting report (“Ne viene fuori un reportage memorabile”) diventa “Ne viene fuori un reportage terribile”. Un piccolo insignificante aggettivo può valere meno di una virgola, si dirà, ma in questo caso è molto sintomatico che l’anonimo redattore abbia deciso di copiare tutto il testo, cosa già di per sé discutibile, e di tradurlo alla lettera cambiando solo quella parola. O si tratta di un marchiano errore di traduzione, oppure, per vendere al lettore italiano un libro sul disastro nucleare giapponese, è stato ritenuto opportuno che lo stesso libro fosse terribile più che memorabile. Sennonché il reportage di Vollmann di terribile non ha proprio niente. Anzi è programmaticamente contro il terribilismo (Formigli che grida: “Quattro, otto, trenta, quaranta”.) È, invece il tentativo – a tratti riuscito, a tratti fin troppo etereo – di rappresentare il disastro con lirismo, gentilezza, colori tenui. Ci sono pitture di paesaggi apocalittici, ma sono di più le descrizioni di una natura apparentemente intatta accompagnate dal dubbio costante dell’osservatore che si chiede se quei bellissimi alberi, quei rigogliosi fiori, quei campi così perfetti siano stati davvero contaminati. Non a caso, allora, l’editore americano utilizza l’aggettivo memorabile. L’inaffidabile misura della realtà di Vollmann è sempre arbitrariamente personale, ma la scelta delle parole e il modo in cui le mette in fila trasformano la sua esperienza in un nostro ricordo.

E non so voi, ma personalmente ho molta più fiducia nei ricordi che nella verità.