Attualità

Marketing senza contenuti

In senso buono, ovviamente. In un mondo oberato da messaggi, ecco che i brand cercando di andare oltre, sorprendendoci con storie, intrattenimento e iniziative sociali.

di Michele Boroni

L’altro giorno sul Guardian è stato pubblicato un interessante articolo intitolato “How brands can move beyond content marketing” in cui si dà conto di come tutti noi siamo bombardati quotidianamente da circa 5000 messaggi che arrivano dai brand. Evidentemente troppi per essere minimamente efficaci.

Come siamo arrivati fino a questo punto?

C’è un inizio per tutto. E quindi ci deve essere stato un inizio anche per questo. Non è facile da individuare, ma ci proviamo lo stesso.

Se vogliamo prendere le cose proprio alla lontana, possiamo far partire il tutto da quel mini saggio del 1996 di Bill Gates intitolato “Content is king” (che peraltro dopo 18 anni andrebbe riletto per capire che magari Gates non aveva quella coolness visionaria di Steve Jobs, però la capacità di analisi era sopraffina. Leggetelo e ditemi se non fotografa quasi perfettamente – in tempi non sospetti, evidenziando le criticità, malgrado la bolla incombente – il percorso dell’internet). O forse l’inizio è stato quando si è iniziato ad abbattere le granitiche certezze del marketing, e certi teorici illuminati, seguiti da manager altrettanto virtuosi, hanno smesso di usare il termine consumatori e iniziato a trattare i loro clienti in una sorta di trattamento pari a pari e a chiamarli persone. Anche qui l’internet ha avuto la sua bella influenza, perché proprio sull’evoluzione della rete si basava quel “Cluetrain Manifesto” (1999) anch’esso da rileggere per capire cosa effettivamente è mutato e cosa c’è ancora da cambiare.

Ma in questa rubrichetta proviamo a parlare di brand piuttosto che di media. O meglio, tentiamo di raccontare quando i brand si sono messi in testa di diventare loro stessi dei media. E allora io rimando la nascita di tutto a un’intervista che Renzo Rosso, gran capo di Diesel, concesse nel 2008 in cui diceva che «i marchi dovranno sempre più essere gestiti come dei giornali». Da questa frase e da tutta una serie di altre parole, opinioni e movimenti di pensiero, i brand hanno iniziato a elaborare una nuova forma di marketing tutto basato sulla diffusione di contenuti, storytelling, punti di vista, fatti, visioni. Proprio come se fossero dei veri e propri editori. Hanno avuto l’opportunità di farlo, grazie alla rete, e quindi ne hanno approfittato. Ma evidentemente tutto questo deve oggi essere ridimensionato, perché dei 5000 messaggi cui siamo investiti giorno dopo giorno per strada, sui giornali, su internet e, sopratutto sui social , solo un’estrema minoranza dei contenuti ce la fa a passare.

La mia opinione è che quando si è iniziato a parlare di consumatore maturo, evoluto, che aveva voglia di relazionarsi con i brand e conoscere più contenuti possibili (storia, valori e, in generale, contenuti) evidentemente ci si riferiva solo ad una parte, solo a tante ristrette high-end-community, magari fan dei brand in questione e che comunque desideravano un rapporto diverso con l’oggetto della loro passione. Tutto il resto no. La maggioranza delle persone desidera dai brand solo prodotti e servizi, che soddisfino i loro bisogni e, possibilmente, a un prezzo sempre più equo.

Tutta questa fusione naturale della pubblicità con l’entertainment e spesso anche con l’istruzione, inevitabilmente sposta l’attenzione dal prodotto al contenuto, e questo poi si riflette sulle vendite.

Al di là del native advertising, di cui abbiamo già parlato, in tutti questi anni non si è mai visto una case history di successo di un brand che è diventato editore. Molti brand hanno fatto grossi investimenti e si è parlato molto di loro, ma una cosa è catturare l’attenzione, un’altra è mantenerla viva nel tempo. La funzione di una comunicazione pubblicitaria è quella di recapitare un messaggio, mentre quella di qualsiasi prodotto editoriale è, alla fine, offrire un’esperienza. Sono due cose piuttosto diverse.

Nell’articolo sopracitato del Guardian, Chris Wamsley, co-fondatore dell’agenzia di comunicazione Cubo, racconta come molti brand (cita Forsters e Volkswagen, ma qui in Italia potremmo citare la onnipresente Enel, Vodafone o Telecom…) stiano prendendo seriamente l’approccio entertainment e educational nella loro comunicazione, ma questo è solo una parte del tutto. La cosa più importante, continua Wamsley, non è solo quello che le aziende dicono, ma è come queste si comportano nel concreto. Con il focus sui social network e sulle nuove piattaforme digitali, il tema della responsabilità sociale delle aziende negli ultimi tempi è passato in secondo piano; secondo Wamsley invece la presa in cura dei problemi di una comunità da parte di un’azienda, non solo fa aumentare la probabilità di messaggi positivi e condivisi, ma rischia di generare anche considerevoli aumenti delle vendite, “memorabilità” e fedeltà alla marca a lungo termine.

Cita il caso di Samsung che con il progetto Samsung Life Insurance ha deciso di affrontare il problema dei suicidi che in Corea del Sud è il più alto del mondo, collocando 2200 sensori e luci al led sul ponte Mapo di Seoul, dove avvenivano gran parte dei suicidi, e inserendo immagini e frasi piene di speranza, umorismo e saggezza e che ha portato in un anno il 77% in meno di suicidi dal ponte, oltre a un crescita di rispetto nei confronti del brand .

Oppure Vodafone che in Egitto ha creato delle carte telefoniche di micro-ricarica che sono diventano una sorta di nuova moneta (fakka, spiccioli in egiziano) per i resti (questo filmato spiega tutto).

Insomma, la vecchia logica del win-win alla fine è quella che vince sempre, creando rapporti destinati a durare che soddisfino realmente le persone e che portino all’azienda, direttamente o indirettamente, un profitto.

 

Immagine: l’installazione di Samsung sul ponte Mapo di Seoul, in Corea del Sud (luglio 2013)