Attualità

Grandi speranze

Arsène Wenger, il rivoluzionario, il messia, l'antipatico, lo stravagante. Un uomo che ha cambiato il calcio inglese, trasformando i tifosi in fedeli.

di Davide Coppo

È finita bene per l’Arsenal e Wenger: non è ancora giunto il momento del tradimento dell’ultimo apostolo, Theo Walcott, erede di quel Thierry Henry ancora venerato dalle parti dell’ex arsenale londinese. Walcott ha rinnovato, l’ennesimo addio importante scongiurato.

È singolare come il rinnovo di contratto di Walcott sia stato vissuto come un evento drammatico da tutta Londra nord – versante biancorosso. È singolare, forse, come a Highbury (pardon, Emirates) ogni addio o rinnovo possibili vengano vissuti come eventi drammatici. L’Arsenal, sotto la gestione Wenger, è stata in effetti un ininterrotto climax di drama.

A metà tra il romanzo e la narrazione biblica, ciò che accade all’Arsenal dall’avvento di Wenger è un caso unico in tutta Europa: eterni giovani che attendono l’esplosione, l’allenatore mistico e santone che predica diete speciali e pillole di socialismo calcistico, filosofia dell’internazionalismo e scoutismo avanguardista, fede calcistica che diventa religione, ideali che diventano ideologie, dogmi, e poi i virgulti finalmente fioriti che scelgono, infine, di fecondare terreni altrui – Chelsea, Manchester City, Manchester United, Barcellona.

Sono quasi otto gli anni che separano i Gunners dall’ultimo trofeo, saranno dieci, questo autunno, quelli che li separeranno dall’impresa del 2003/04, la Premier League degli “invincibles”, l’orgasmica apoteosi della filosofia Wengeriana, il calcio più bello (ed europeo) che l’Inghilterra assaporò mai: 38 partite, 26 vittorie, 12 pareggi. Sconfitte, nessuna. Oggi l’Arsenal, in Inghilterra, stenta dietro all’Everton e al Tottenham, fuori da tutte le Europe. Ci si chiede se il ciclo di Wenger sia finito, se debba lasciare il timone.

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Wenger, nato a Strasburgo nel 1949, arriva a Londra nel 1996. È uno spilungone (un metro e 93) magro e silenzioso, con un passato calcisticamente ancora oscuro: viene accolto dall’Evening Standard con il titolo “Arsène who?”. Prima dei Gunners Wenger, una laurea specialistica in economia nel curriculum vitae, aveva allenato con scarsi risultati il Nancy, e con esiti decisamente migliori il Monaco. Iniziò la carriera di manager nel 1981, trentaduenne, dopo soltanto undici partite giocate da professionista con lo Strasburgo. Al Nancy, prima esperienza con una prima squadra, incontrò il padre di Michel Platini nel ruolo di direttore sportivo. Ancora oggi Arsène rievoca una sua frase come spinta fondamentale alla sua filosofia anti-emotiva e improntata al più ferreo aplomb (da perdere, puntualmente e jekyllianamente, in litigi con allenatori avversari). La squadra, come accadeva spesso, era sotto. Aldo Platini gli disse: «Sai cosa non riesco a sopportare? Vedere l’altra panchina che continua a saltare, su e giù».  Anni dopo, dopo il Nancy e il Monaco, Wenger passò un anno in Giappone, sulla panchina del Nagoya Grampus Eight (sollevando il trofeo con il nome più medievale del mondo, la Coppa dell’Imperatore), dove entrò in contatto con il sumo: «Alla fine di un incontro è impossibile capire chi ha vinto e chi ha perso, perché nessuno mostra emozioni che potrebbero imbarazzare lo sconfitto. È incredibile. È per questo che cerco di insegnare alla mia squadra l’educazione».

La french connection che instaurerà Wenger a Londra iniziò già prima della sua assunzione, quando Gérard Houllier, direttore tecnico della Federazione Calcistica Francese (poi padre calcistico di Michael Owen nel Liverpool del treble), lo consigliò a David Dein, vice presidente dei Gunners. Il fatto che la stampa inglese rumoreggiasse un possibile arrivo, sulla stessa panchina, di Cruijff, padre di un ancora imperfetto gioco particellare che esploderà poi con Guardiola, la dice lunga su un certo profumo di bellezza calcistica che aleggiava nei dintorni di Highbury.

Wenger è un filosofo, e ha i suoi dogmi. Non c’è incompatibilità tra bel gioco e gioco efficace, per lui, anzi; disse, nel 2009, al Daily Mail: «Non sono contro il pragmatismo, perché è pragmatico fare un bel passaggio, non uno brutto. Qualcuno può dimostrare che una brutta soluzione come spazzare via la palla sia pragmatica solo perché a volte, per caso, funziona? (…) Credo che l’obiettivo di ogni cosa nella vita sia fare quella cosa così bene che possa diventare arte».

Wenger vuole spese ridotte, e giocatori giovani da modellare secondo il suo pensiero. Negli anni ’90 l’idea di acquistare ragazzini di nove o dieci anni e inserirli in uno youth team che giochi come la prima squadra non era per nulla scontata in Inghilterra. È Wenger ad averla introdotta. Quando sono arrivato a Londra, disse, potevo mandare un osservatore in una partita di seconda serie francese e sarebbe stato l’unico osservatore. Oggi forse non troverebbe un posto libero.

La narrazione che Arsène ha venduto al mondo e ai fan è quella di un club con dei valori superiori non solo alla media, ma a tutti gli altri club. Per lui l’Arsenal deve essere una religione, per davvero: qualsiasi cosa accada in campo e nel mercato, ci sarà sempre una inintelligibile spiegazione, un invisibile fine che Arsène il Messia sta perseguendo. Non preoccupatevi, “in Arsène we trust”, agitate ancora quello striscione, rifugiatevi in quel motto. Come quando decise di vendere Vieira (acquistato anni prima dal settore giovanile del Milan) per dare delle chance in più a quel ragazzino di nome Fabregas, che in campo si intendeva con Gilberto Silva ma non con il francese. E mentre Vieira aveva 29 anni, Fabregas ne aveva 19, e «se non avesse giocato avrebbe voluto andare via; avremmo rischiato tutto, tutto il lavoro che avevamo speso con questo giocatore». Purtroppo, alla fine, anche Cesc se ne andò, a soli 25 anni.

La speranza è ciò su cui si basa Wenger. La delusione, il risultato più frequente.

Il sol dell’avvenire: non si vede, ma sorgerà. Quando? Nell’avvenire, abbiate fede. “Arsène knows”, recita un altro striscione. Non importa se Wilshere, Gibbs, Chamberlain e Jenkinson ancora non siano pronti a vincere da soli, non importa nemmeno se non diventeranno mai i nuovi Fabregas, Pirès, Henry, Ljungberg: i giovani sono giovani, e vanno buttati nella mischia di questo gioco bellissimo a cui Wenger l’economista ha voluto a tutti i costi partecipare, contro il parere della famiglia benestante che voleva per lui una solida professione borghese.

Wenger l’europeo è anche eretico: per lui non esiste un “calcio all’inglese” che possano giocare soltanto calciatori inglesi. Arrivano all’Arsenal, durante la sua prima stagione, Vieira e Anelka, ma è nella successiva che può pianificare il suo mercato continentale: un solo britannico (Upson) e un portoghese, un austriaco, un olandese, due francesi, persino un liberiano e quel tedesco di nome spagnolo, Alberto Mendez, pescato da Wenger in una lega regionale della Baviera, e mai riuscito a sfondare nel calcio dei grandi.

L’Arsenal vince la Premier League, con Overmars e Bergkamp protagonisti assoluti. Anelka sboccia l’anno successivo, quando arriva a Londra ance Nwankwo Kanu, e quando il Real Madrid acquista il francese Wenger chiama Thierry Henry dalla Juventus. Esplode l’internazionalismo dei Gunners: nel 1998 sono otto i giocatori britannici a lasciare Highbury, mentre arrivano due francesi, uno svedese, un nigeriano e un argentino. Stesso copione l’anno successivo, nel 2000 sono addirittura otto i non-inglesi ad arrivare. Dopo tre secondi posti consecutivi, nel 2001 arriva la seconda Premier League (più FA Cup), e due anni dopo, nel 2003/04, Wenger compie il suo capolavoro: la stagione degli Invincibili, la prima di Fabregas.

Ancora, Arsène Wenger era stato profeta, inascoltato e deriso come è proprio dei messia. È il 21 settembre 2002, e dichiara al Daily Mirror: «So che sarà difficile finire la stagione imbattuti. Ma se manteniamo il giusto atteggiamento possiamo farcela» (…) «Se perdiamo, mi accuseranno di essere un chiacchierone presuntuoso. Ma posso solo essere onesto». Perderà, lo accuseranno, ma la profezia si avvererà la stagione successiva. Non accadeva dal 1889, ci era riuscito soltanto il Preston North End.

Wenger continua ad acquistare e vendere, lo accusano di incapacità contrattuale. In molti partono, alcuni gratis: salutano Highbury Flamini, Ashley Cole, Reyes, Henry, Lassana Diarra, Hleb, Adebayor, Kolo Touré, Gallas, Clichy, Cesc, Nasri, poi Van Persie e Song. Wenger continua a dispensare pillole di vita politica («Il modello comunista non funziona economicamente, ma quello capitalista non è sostenibile nel mondo moderno») e di vita new age («Quando hai fame, è solo il tuo stomaco che ti sta dicendo di avere fame, è soltanto una parte del tuo corpo. Quando hai fame di successo, è l’intera persona, l’intera vita che vuole quel successo»), ma l’ultimo trofeo arriva nel 2005, ed è la modesta Coppa d’Inghilterra. Oxlade-Chamberlain aveva undici anni, Wilshere dodici.

Dall’altalena tra il primo e secondo posto l’Arsenal è passata a una continua lotta per l’accesso alla Champions League. La costruzione dell’Emirates Stadium ha ridotto di molto il capitale per gli acquisti. Le grandi speranze di una nuova golden generation non riescono a sbocciare. Theo Walcott, la promessa di Londra, il nuovo Henry, ha rinnovato il contratto dopo una lunga attesa da thriller. Gli acquisti di Wenger si fanno sempre più interrogativi (Podolski, uno su tutti), i media inglesi ci sguazzano, i sondaggi sulla sua cacciata si moltiplicano. Ma c’è ancora gente, all’Emirates Stadium pieno, a ripetere, snocciolando i grani di un rosario di palloni, “In Arsène we trust”.